2024-09-21
A Modena c’è una Ferrari in cucina. La «rezdora» è la regina del focolare
Lo gnocco fritto, una delle icone della cucina emiliana e modenese (iStock)
La moglie-mamma governava l’alimentazione di tutti e ogni settimana dirigeva la lavorazione del pane. Si inventava pure i pop corn con grano e saliva. E curava la perfetta realizzazione dello gnocco fritto.Per iniziare il goloso viaggio nei circuiti gastronomici delle terre modenesi, forse la migliore accensione di papille è quella descritta da Sandro Bellei, uno dei più attenti custodi dei suoi saperi e sapori. «Modena è una terra che gode di collaudata fama di Eldorado gastronomico». Una trilogia ideale dove sul podio troviamo, a pari merito, il rombo dei rossi bolidi di Maranello, «i possenti do di petto di Luciano Pavarotti» e la cucina, tanto che, nei box della Formula 1 degli anni Cinquanta, si diceva che Manuel Fangio «vinceva sulle piste di mezzo mondo con una Ferrari carburata a tortellini e lambrusco». Senza immaginare che, dietro queste icone conosciute in tutto il mondo, c’è un dream team a dimensione golosa che ha pochi eguali.Il tutto con radici ben solide, come sottolineato a suo tempo da Vincenzo Buonassisi, in una terra «in cui confluiscono forze creatrici di respiro fluviale» (con i molti canali navigabili) «e montana» (sui declivi appenninici). Rincara la dose lo storico Piero Camporesi: una cucina «scandita sul doppio binario dei cicli stagionali e del calendario liturgico, oltre che dalle feste del ciclo agrario». Il tutto con una protagonista che chiude questo ideale cerchio a dimensione culinaria, ovvero la rezdora, la regina della casa, al contempo moglie, madre e, naturalmente, abile regista in cucina.Era lei che amministrava la casa e tutto quello che accadeva entro le mura domestiche. Rezdora dal latino regere, cioè dirigere, mentre l’uomo era il rezdor, ossia il reggitore di tutto il resto. Brava massaia e ottima cuoca, con quella pennellata che diventa poesia grazie alle parole di Gian Marco Pedroni. Rezdora «la cui giornata iniziava tirando su il sole dalla terra, per riporlo alla sera, appendendo la luna tra le nubi». È vero che, in epoca rinascimentale, le tavole della nobiltà modenese rilucevano di mille bellezze, mentre il popolo minuto doveva fare i conti del come traghettarsi dal pranzo alla cena. Testimone tale Lancillotto, al secolo Tommasino dè Bianchi, che in una nota del tempo così rimbrottava le teste coronate: «Meriterebbero di stare dentro una torre per un anno a pane e acqua», aprendo le loro ricche dispense al popolino che, quando poteva, «andava di nascosto dietro le macellerie dove venivano buttati avanzi quali polmoni e budella».Ma è ora di tornare in cucina, per vivere in diretta la quotidiana missione della rezdora, a iniziare dalla lavorazione del pane. Un rito svolto con cadenza settimanale. La farina era custodita nella panera, una sorta di grande contenitore dalla forma ad imbuto. Dopo averla accuratamente setacciata, la rezdora scendeva in cantina a recuperare il panetto di lievito, l’alvador, con sopra incisa una croce con la lama del coltello. Lo diluiva sulla spianata con un po’ di acqua calda fino a farlo diventare un grande cerchio, con la regolare croce al centro, ricoprendolo con un telo, non senza l’augurio «Dio ti benedica, che tu possa crepare», solo un apparente ossimoro perché, se la lievitazione fosse avvenuta con le rughe in superficie, sarebbe stato il miglior segnale che tutto procedeva al meglio.Poi se ne andava a letto, certa che natura e lievito avrebbero assolto la loro missione. Si alzava all’alba. Dal nuovo impasto ritagliava un panetto da riporre in cantina, ovvero il nuovo alvador. Il resto è degno delle migliori riprese di Roberto Rossellini o Vittorio De Sica. Il rito dell’impasto era una sorta di danza panettiera. «Sollevavano una gamba alternativamente per dare maggior pressione alle braccia», con l’immancabile colonna sonora di sottofondo, ovvero «i cigolii delle vecchie assi del tavolo e i tonfi sordi della pasta presa a pugni». Il momento di fare gioco di squadra con le forti braccia del rezdor, ossia il padre di famiglia, complice la gramola, una sorta di pressa di legno che se ne stava a sonnecchiare in un angolo della cucina. Lei poneva l’impasto dentro la pressa, lui spingeva con tutta la forza delle braccia per stimolare ulteriormente lieviti e farina. E così via, al ritmo di qualche su e giù tra moglie e marito per dar da mangiare in famiglia.Quando l’impasto aveva raggiunto il giusto volume per reggere l’appetito dei giorni a seguire, avveniva la lavorazione finale: a questo punto, mamma rezdora aiutata dai figli più grandi. Le pagnottine, dalle forme più diverse secondo l’estro della giornata, venivano deposte in lunghe file sul tagliere, ricoperte da un telo bianco el cuertòr, così che il lievito completasse il suo compito. È ora di passare la camera da ripresa a Ermanno Olmi per immortalare il fuochista, abile con la pala a raccogliere le forme dal tagliere e a deporle nel forno che, dopo aver infornato il tutto, «con la pala tenuta a mo’ di pastorale vescovile e con un ampio segno della croce, chiudeva il coperchio» per il rito finale. Alcuni, più scaramantici, gettavano anche la stria, una sorta di rito propiziatorio: un pezzetto di pasta lavorato con un po’ di olio e strutto utile «a esorcizzare influenze maligne» che avrebbero potuto compromettere tutta l’infornata.Mai direttamente sulle braci accese, ma attorno tanto che, nella logica che non si butta mai via niente, la stria veniva poi recuperata, ben cotta, conciata con sale generoso e offerta ai piccoli che avevano assistito al tutto come premio meritato. Alcuni di loro, nel forno, ci finivano pure: quando questo aveva raggiunto una temperatura più gradevole, da soleggiata marina, i piccoli smagriti, quelli con presunte tracce di rachitismo e rallentamento della crescita. Chissà che il calore residuo non riuscisse a far lievitare i sonnolenti ormoni della crescita e l’appetito conseguente.Ma, a conferma che non di solo pane vive l’uomo, ecco che, attorno al forno delle famiglie, lievitava anche qualcos’altro. Ad esempio, con il forno ancora caldo e ben ripulito, si mettevano i piccoli grani di frumento, ben umettati di saliva, che si gonfiavano fino a scoppiare, rustici e golosi pop corn modenesi, mentre in collina era tradizione il didel: la farina di castagne residua veniva pressata dentro i ditali delle nonne e riposta in forno, così da ottenere piccoli e golosi coni dolci.Dal forno alla padella il passo può essere breve, soprattutto se allietato dal lievitare dello gnocco fritto, rigorosamente incasellato nel dizionario come «lo» e non «il». Un mix di strutto suino palestrato con acqua gasata, che lo fa lievitare bolloso, e generose spolverate di sale. Il segreto sta nel porlo, protetto da avvolgente canovaccio, entro un vaso di vetro e rimpastarlo periodicamente. La silhouette al taglio è variabile, da rettangolare a romboidale. Mentre sta a zigzagare sull’untuosa padella, la rezdora di un tempo, con veloce puntata di dita, lo perforava sulla superficie dando luogo a l’umbreghel, l’ombelico, per farlo respirare meglio. Veniva posto, infine, ad asciugare su carta paglia mentre, invece, chi se li modellava circolari li metteva ad asciugare sul normale lavapiatti scolapiatti di legno. Padella mai lavata, ma pulita con carta assorbente. Gnocco fritto valorizzato con affettati o formaggi spalmabili, con qualche irriducibile che se li pappa pure nel caffellatte. A Modena, dal 2011, la Confraternita del gnocco d’oro premia come ambasciatori chi si è adoperato per far conoscere questa piccola coccola identitaria. Nell’albo d’oro ci sono Davide Paolini, Andrea Grignaffini, Luigi Cremona, Edoardo Raspelli…