2023-05-14
Moby: «L’aria puritana della cancel culture soffoca il perdono e il cambiamento»
Richard Melville Hall in arte Moby (Ansa)
Il messia della musica elettronica di fine millennio torna con «Resound Nyc»: «Siamo immersi in una rigidità etica preoccupante. È più potente la sincerità di un uomo che ha sbagliato. L’ho imparato dagli ex alcolisti».Cattura il suono di un’epoca e guadagnerai il mondo intero. Anche se il tuo water è una bottiglia di plastica e il tuo rifugio una fabbrica abbandonata ad Harlem, tra gli spacciatori di crack. Per il libretto d’istruzioni chiedere a Moby, messia della techno e dei rave anni Novanta, catapultato in un lampo nell’El Dorado di New York: cinque piani di superattico da far invidia a Batman, party degni del Grande Gatsby con vista su Central Park e David Bowie come vicino di casa. Tutto merito di Play (1999), più che un album la colonna sonora del cambio di millennio. Riascoltare, per dirne tre, Porcelain, Why does my heart feel so bad? o Natural blues: anche chi non è avvezzo alla musica elettronica ritroverà questo sound in memoria. A patto di aver vissuto quel momento della storia nel quale le Torri Gemelle erano ancora al loro posto e il pianeta riusciva a preoccuparsi per il Millennium bug.Oggi, a 57 anni, Richard Melville Hall è tornato. La «casa sulle nuvole» è solo un ricordo mentre i suoi successi riprendono vita in chiave orchestrale nell’album Resound Nyc, con la benedizione di Deutsche Grammophon, tempio discografico della musica classica. Potrebbe sembrare la versione deluxe del sogno americano: miseria, vita da rockstar e omaggio finale del club esclusivo della musica colta. Se non fosse che a spazzare via la retorica del riscatto, dando fuoco pure al santino dell’artista (di sinistra, vegano e ambientalista) che rimane puro nonostante il successo, ci ha pensato lo stesso Moby con un’autobiografia feroce (Oltre ogni limite, edizioni Mgmt). La sua personale Pastorale americana è una discesa agli inferi tra le «anomalie dell’infanzia» e gli «orrori della vita da adulto». Dagli abusi sessuali subiti da un hippy in un asilo di San Francisco, al terribile senso di vuoto lasciato in regalo da centinaia di dischi d’oro e curato con una serie di terapie fallimentari: cocktail di champagne, vodka e cocaina, orge sfrenate e goffi tentativi di suicidio.Il titolo del suo nuovo album, Resound Nyc, fa intuire un rapporto viscerale con la Grande Mela. E la sua storia lo conferma: lei è nato ad Harlem e di Manhattan conosce i bassifondi e i locali più inaccessibili. L’11 settembre è il giorno del suo compleanno e a 36 anni ha dovuto assistere dalla sua terrazza all’apocalisse del World Trade Center. Pensa di essere riuscito a cogliere la vera voce di New York? «Ogni città, a livello sonoro, ha una sua narrativa specifica e i suoi cliché. Se, ad esempio, le parlo di Manhattan probabilmente penserà a un sassofonista jazz che improvvisa all’angolo della strada. O se si immagina Parigi forse crederà di sentire una fisarmonica. L’esperienza collettiva di un luogo convive però con la percezione soggettiva. È una questione già trattata da Marcel Proust e sulla quale mi sono interrogato molto. Alla fine ho capito che mi interessa la dimensione personale».Può fare un esempio? «In questo disco c’è una canzone, Helpless, che parla del Canada ed è stata scritta da un canadese (Neil Young, ndr) nel Sud della California. Non pretendo che agli altri suoni newyorchese, ma per me è così. Mi ricorda mia madre: la ascoltava sempre quando siamo tornati in città».La sua musica è una miscela di influenze molto varie, ma l’eco del gospel e delle voci black di Bessie Jones e di Vera Hall è piuttosto persistente. Si tratta di un elemento decisivo della sua esperienza soggettiva di New York? «Direi di sì. La fabbrica abbandonata nella quale ho vissuto era circondata da chiese gospel. Ma in generale l’esperienza musicale di Manhattan è molto ricca. Basta fare due passi per incrociare qualcuno che sta ascoltando hip hop a tutto volume dalle casse o per accorgersi che un violoncellista classico si sta esercitando nel suo appartamento. Magari dall’altra parte della strada un ristorante ucraino mette dei dischi di musica tradizionale e una punk band suona dal vivo nel bar di fianco... Ecco, questa miscela impazzita di Bach, rap, salsa, disco, blues non sembra avere alcun senso. In realtà ce l’ha eccome: è l’anima di una metropoli che tiene insieme gli opposti. Ed è molto più eccitante dell’ordinata e omogenea cultura di provincia».Che effetto le ha fatto rimettere mano ai suoi vecchi brani? Ha risentito il suono e lo spirito di inizio millennio? «Non so se sono riuscito a catturare il mood di quell’epoca o forse l’ho fatto ma in una chiave personale. L’hip hop ad esempio spopolava, ma non ce n’è traccia nel mio sound. Di certo la musica risente del contesto sociale, economico, geopolitico nel quale è immersa. E quando ho riarrangiato le vecchie canzoni per l’orchestra mi reso conto di quanto fossimo ingenui allora».Cosa intende dire? «A fine anni Novanta eravamo molto ottimisti e vivevamo d’illusioni. Bill Clinton era presidente degli Stati Uniti d’America e io pensavo che non potesse esserci di meglio. Il riscaldamento climatico sembrava solo uno spunto per un libro di Al Gore. La Russia dialogava con l’Occidente e si parlava di possibili riforme in Cina. Senza contare che eravamo convinti che l’avvento di Internet ci avrebbe regalato più trasparenza e democrazia».Qualcosa è andato storto… «Sì, il mondo oggi mi sembra un luogo piuttosto terrificante e apocalittico».Mi tolga una curiosità, rimanendo ancora una volta nella dimensione personale. Lei poteva tenersi la sua immagine immacolata di artista che ha conquistato il mondo, ma che è rimasto fedele ai suoi valori da ex punk idealista. Poteva fare il guru progressista e green, vantando un’apparente superiorità morale. Perché ha sentito l’esigenza di raccontare a tutti il lato oscuro della sua vita? I deliri di onnipotenza in balia dei soldi, della droga e dell’alcol, la promiscuità disperata che spazza via gli affetti, la felicità che se ne va proprio quando si possiede tutto, il desiderio di morte… «La sobrietà è una conquista molto faticosa dopo moltissimi anni di alcolismo e di dipendenza dalle sostanze. Ed è impossibile da raggiungere senza la sincerità. L’onestà può essere dirompente e io l’ho imparata frequentando gli Alcolisti anonimi. Spesso ce ne dimentichiamo perché la cultura nella quale siamo immersi è dominata da persone artificiali».È nata così l’idea di scrivere un libro? «Sì, volevo raccontare la mia esperienza umana per quello che era veramente. Non volevo fare un esercizio disonesto di marketing, come la biografia di Clinton o di molti altri. C’è già in giro troppa gente che prova a essere glamour e cool. Non ne serve altra».Leggere la sua autobiografia è come ripercorrere la traiettoria di Kurt Cobain, Amy Winehouse o Avicii, fortunatamente senza un epilogo tragico. Secondo lei, chi o cosa l’ha salvata? «Sinceramente? Non lo so. Forse la genetica…». (ride). «Il fatto è che mi sono accorto molto presto di essere quello che poteva bere di più, drogarsi di più e non andare a letto senza pagarla cara. Una sera, ad esempio, ho iniziato a ordinare drink con Benicio Del Toro, che ha un fisico molto più possente del mio. Quando l’ho visto vomitare l’anima mi son chiesto: ma com’è che io, così mingherlino, faccio quello che voglio? Ovviamente alla fine gli effetti ho iniziato a sentirli e sono stati molto… molto pesanti».Lei si definisce agnostico, ma in molte canzoni invoca Dio («Lordy, don’t leave me…», «Lord I want to be up in my heart»). Sono solo frasi del subconscio dal quale attinge attraverso quelli che definisce «processi creativi automatici»? «È complicato parlare del mio rapporto con Dio perché su di lui ho cambiato idea diverse volte. Per otto anni circa sono stato un cristiano convinto, insegnavo studi biblici… Poi sono diventato ateo avvicinandomi alla filosofia, anche se mi hanno incuriosito varie forme di spiritualità. Oggi resto disarmato davanti all’immensità dell’universo».Cosa vuole dire? «Ha circa 15 miliardi di anni. Gli scienziati scoprono continuamente buchi neri più grandi del sistema solare mentre io faccio fatica a concepire quanto sia sconfinato il nostro pianeta. Quello che sto cercando di spiegare è che non so chi sia o cosa sia Dio, ma certamente è molto più complesso di me. Potrei sbagliarmi però credo che questo spirito, o questa energia dell’universo, in qualche modo si prenda cura di noi. E penso che sia possibile un contatto con lui se ci si avvicina con umiltà. È un pensiero fragile che forse non saprei difendere in un dibattito».Un’ultima domanda prima di lasciarci. Lei è un discendente di Herman Melville, l’autore di Moby Dick, ma è anche un grande appassionato dello scrittore inglese Roald Dahl. Cos’ha pensato quando, in nome della cancel culture, l’editore ha iniziato a riscrivere le sue opere levando termini come «brutto» o «grasso»? «Sono d’accordo con Bruce Springsteen: dobbiamo giudicare l’arte e non gli artisti. D’altronde anche Cartesio maltrattava gli animali e Thomas Jefferson possedeva degli schiavi… Quindi, che si fa?».Lo chiedo a lei che non ha mai nascosto le sue idee di sinistra ed è un grande nemico di Donald Trump. In Italia va di moda una semplificazione: chi critica il politicamente corretto deve avere delle idee orribili da difendere. «La cultura americana sta precipitando in una rigidità etica preoccupante. Tutto dev’essere bianco o nero. È una deriva tribalistica, puritana. Una società dominata dall’inflessibilità etica però non lascia spazio agli errori che ogni essere umano commette inevitabilmente e non rende possibile il perdono e il cambiamento. Nella storia, quando qualcuno si sente eticamente superiore a qualcun altro non va mai a finire bene».Vede una via d’uscita? «Ne ho solo una personale: stacco da Internet appena posso e vado in montagna per non pensare a quanto siamo messi male. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, dice Gesù nel mio passaggio preferito del Vangelo. Gli algoritmi dei social network invece seguono la strada contraria».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.