2023-01-31
Con il misterioso attacco all’Iran il conflitto arriva in Medio Oriente
Benjamin Netanyahu (Ansa)
La tecnica del blitz di Isfahan riconduce a oppositori interni, i media americani puntano il dito verso Israele. In questo quadro così confuso, la guerra in Ucraina può facilmente allargarsi e diventare veramente mondiale.«Fallito attacco con droni a un impianto per la fabbricazione di munizioni del ministero della Difesa a Isfahan». Sono le prima parole pubblicate su Twitter dall’account Iran International, citando una nota del ministero della Difesa secondo cui «l’attacco fallito» non ha ucciso nessuno e ha causato solo «lievi danni al tetto» del sito militare. «L’impianto sarebbe stato l’obiettivo di tre droni, abbattuti dal sistema di difesa aerea della struttura», ha aggiunto la tv di Stato iraniana Irib. Da lì si è scatenato un susseguirsi di ipotesi su chi possa aver mandato uno sciame di droni (molto più probabile fossero almeno una dozzina) dentro i confini di Teheran per colpire uno dei siti di produzione più avanzato dell’ex Persia. Sarà difficile scoprire l’esatta entità dei danni, figuriamoci il nome esatto dell’esecutore del blitz o del mandante. Proprio per questo, oltre alle dinamiche tecniche dell’attacco, è importante analizzare l’effetto politico e geopolitico che mira a raggiungere. Innanzitutto a Isfahan, circa 300 chilometri a Sud di Teheran, sono presenti una base aerea, un comando dei pasdaran, stabilimenti industriali militari e un centro di ricerca e produzione di combustibile nucleare. I droni impiegati sarebbero piccoli quadricotteri (Micro Aerial Vehicles), come riportato dall’agenzia di stampa statale iraniana Irna, «elemento che confermerebbe che sono decollati dal territorio iraniano a breve distanza dai loro obiettivi poiché tali velivoli dispongono di un’autonomia limitata», come evidenziava domenica il New York Times. Lo schema con cui è stato portato avanti si basa sulla tecnica del cosiddetto «swarming», una sorta di sciame che avanza con un’apparente confusione, metodo utilizzato spesso dagli iraniani o dai russi in Ucraina che utilizzano appunto droni a bassa intensità tecnologica di produzione iraniana. Insomma, una serie di dinamiche che potrebbe portare a puntare il dito anche contro oppositori interni. Esattamente come accaduto nel 2021, quando finirono nel mirino due centrifughe nucleari o nel 2019 quando fu attaccata una postazione di Hezbollah in Libano. Nulla, dunque, che possa portare direttamente a tracciare tecnologia israeliana. Del parere opposto sono sia il Nyt sia il Wall street journal, che domenica hanno riferito di un coinvolgimento diretto del governo di Benjamin Netanyahu. Il fatto che la tecnica sia lontana dagli schemi di Gerusalemme non esclude una scelta deliberata per depistare, ma al tempo stesso non esclude che possa avere ragione Al Arabya (tv con sede negli Emirati). Sulla base delle immagini satellitari di cui la testata araba sarebbe in possesso è stato localizzato l’edificio colpito nella zona nordoccidentale della città, nei pressi di un centro commerciale: «Per gli Stati Uniti è un centro di ricerca spaziale collegato al programma di missili balistici», spiega il sito analisidifesa, il quale ricorda che il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth valuta che l’attacco possa aver colpito un impianto gestito dai pasdaran per la realizzazione di missili ipersonici con il sostegno della Russia, concordando alla fine con la tesi dei media americani. In tutta questa confusione va registrata la reazione del governo ucraino e del rabbino capo di Kiev. In entrambi i casi la notizia dell’assalto con i droni viene letta come un modo per punire la dittatura iraniana che si è messa al fianco del Cremlino, anche se non si esclude che l’eventuale mano israeliana possa aver approfittato per assestare un colpo al progetto nucleare che Teheran porta avanti da anni. È chiaro che la matassa è stata concepita proprio per non essere dipanata e creare un contorno potenzialmente esplosivo. Potenzialmente in grado, cioè, di estendere il conflitto ucraino oltre i confini dell’ex Urss. D’altronde il cambio di passo verso la «mediorientalizzazione» del conflitto russo-ucraino è cominciata già a ottobre dello scorso anno quando gli Usa hanno aggiunto alla lista delle sanzioni un nuovo capitolo destinato all’Iran, colpevole di fornire ai russi supporto sul terreno e ufficiali per la formazione. A fine settembre, in tempi non sospetti, l’analista di Rid, Andrea Mottola, descriveva i nuovi arrivi sul campo di battaglia sottolineando il rapporto costi e benefici a favore dei russi: «A differenza dei droni da ricognizione e da attacco classici, quelli suicidi sono dotati di una carica bellica integrata e possono essere impiegati per l’attacco di obiettivi fissi (raffinerie, aeroporti e così via), ma anche per colpire le batterie antiaeree. I loro sistemi di guida sono tendenzialmente semplici e si basano su un ricevitore Gps. Si tratta», scriveva Mottola, «di apparecchi che, tanto nel conflitto yemenita, quanto in quelli del Nagorno-Karabakh e dell’Ucraina hanno dimostrato tutta la loro costo-efficacia data dai bassissimi costi di acquisizione ed esercizio, a fronte della loro capacità di evadere le difese antiaeree». Se queste sono le premesse tecniche, adesso resta da capire se l’intento americano di tagliare i rifornimenti ai russi e quello israeliano di mantenere la forza del regime iraniano congelata entro certi confini possano fondersi e creare un nuovo fronte. Fino a ieri Israele ha giocato su due tavoli. Vicino a Kiev ma contenta che l’impegno russo in Ucraina finisse per disarmare una parte della Siria rendendo l’orto di Gerusalemme un po’ più sicuro. Da oggi Israele, forse grazie al nuovo governo Netanyahu, può giocare un nuovo ruolo. L’escalation si misurerà dunque sul fronte mediorientale in parallelo a quello ucraino dove a fare la vera differenza potrebbe essere l’invio, ipotizzato ieri di Emmanuel Macron, di caccia Nato.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)