2024-04-08
«Portiamo Kiev nell’Ue per poi spingerla a trattare con Mosca»
Marco Minniti (Imagoeconomica)
L’ex ministro Marco Minniti: «La decisione va presa dopo le Europee. Putin non attaccherà la Nato, aspetta il voto Usa per negoziare con Trump».«Sul fronte ucraino, il rischio incidente è altissimo. Una “Sarajevo” del terzo millennio scatenerebbe l’inferno. Putin? Non farà “all-in”, sta aspettando l’esito delle elezioni americane. Nel frattempo, bisogna spingere gli ucraini verso la trattativa, e c’è un solo modo: Kiev entri subito nell’Unione europea». Marco Minniti, presidente della Fondazione Medor ed ex ministro dell’Interno, fa il punto con La Verità sul rischio escalation di queste ore. Con uno sguardo anche sul lungo periodo : «L’ordine mondiale è crollato, oggi viviamo a “Caoslandia”: o l’Europa batte un colpo e si assume la responsabilità di una difesa europea, o sparisce. L’Italia faccia da apripista, con Francia e Germania».Il Cremlino dice che siamo ormai al «confronto diretto» con la Nato. La Casa Bianca rinnova il «sacro impegno» a difendere i confini del Patto atlantico. Dove stiamo scivolando?«L’attentato terroristico a Mosca ha ferito l’immagine di Putin, che salì al potere come uomo della Provvidenza chiamato a garantire la sicurezza dei russi. Non solo: l’attacco al teatro indebolisce il consenso intorno alla guerra in Ucraina, perché le defaillance nella sicurezza sono anche frutto di organici sguarniti, avendo la Russia 350.000 uomini impegnati al fronte».Da qui l’aumento della temperatura del conflitto?«Putin deve dimostrare di saper reagire, e il fatto di indicare l’Ucraina come ufficiale pagatore dei terroristi, quasi uno “sponsor” dell’attentato, risponde a questa esigenza. È come se Putin dicesse: “Avete visto? Abbiamo attaccato Kiev proprio perché rappresentava una potenziale minaccia per la Russia”. È una giustificazione a posteriori».Stiamo superando la linea rossa?«Tutti i segnali raccontano di un aumento delle attività militari, soprattutto aeree e missilistiche. È un’escalation che può andare fuori controllo, e non perché qualcuno necessariamente lo voglia: si può scivolare nell’abisso anche incidentalmente».Ci siamo andati vicino?«Qualche giorno fa un missile ipersonico russo è sconfinato nello spazio aereo polacco per 39 secondi, che per un’arma di quel tipo è un tempo lunghissimo. Se quel missile avesse colpito qualcosa, avrebbe potuto attivarsi l’articolo 5 del trattato atlantico, quello che innesca la difesa collettiva di un Paese Nato sotto attacco. Penso anche ai due caccia Eurofighter italiani, che sul Baltico si sono ritrovati faccia a faccia con due velivoli russi in avvicinamento».Si andrà allo scontro?«Una “Sarajevo” del terzo millennio, cioè un episodio fortuito e imprevisto, è oggi concretamente possibile. Un attacco volontario di Putin, invece, è da escludere. Il leader russo non farà “all-in”. E questo per una semplice ragione: è un capo politico, e fa anche ragionamenti politici».Di quali ragionamenti parliamo?«Putin sta aspettando le elezioni americane, e punta su un cambio di leadership a Washington. Donald Trump ha già dichiarato che in caso di vittoria aprirà un negoziato con lui. Paradossalmente, se domani la Russia colpisse deliberatamente un Paese baltico o la Polonia, scatenerebbe un’emergenza militare senza precedenti, che rafforzerebbe la candidatura di Biden. Il popolo americano si stringerebbe intorno al presidente in carica, e Trump finirebbe fuorigioco in quanto “inadatto”».E in attesa del voto in Usa?«L’Ucraina deve conservare più territorio possibile in vista dei futuri negoziati. A Kiev non mancano uomini, ma munizioni: potrebbe non reggere un’offensiva che vede la Russia strutturalmente più forte. Da qui l’idea, scaturita nell’ultimo vertice atlantico, di un fondo Nato di 100 miliardi di euro per il sostegno all’Ucraina, finanziato soprattutto dai Paesi europei. Che mandano questo messaggio a Washington: chiunque si troverà alla Casa Bianca, la “Nato” europea non abbandonerà l’Ucraina».Negli ambienti Nato si parla anche di uno «scambio»: l’Ucraina entra nella Nato, a patto di cedere territori alla Russia, per arrivare alla pace.«Il punto è questo: come possiamo dare forza al popolo ucraino per spingerlo a negoziare? A mio avviso, l’Ucraina non può entrare nella Nato a guerra in corso. Piuttosto, dopo le elezioni europee, dobbiamo accogliere Kiev nell’Ue. Sarebbe un segnale fortissimo di vicinanza, da lanciare prima di un eventuale negoziato».Altrimenti?«Se il popolo ucraino avvertisse il senso di un abbandono, potremmo assistere a reazioni estreme e destabilizzanti anche da quella parte. Pochi giorni fa c’è stato un attacco ucraino penetrato per 1.300 chilometri in territorio russo. Uno sconfinamento molto rilevante. Per evitare estremismi, da una parte e dall’altra, serve prudenza da parte di tutti».Tra le fughe in avanti, anche quella di Macron sullo schieramento diretto delle truppe Nato. Come spiega questo protagonismo francese?«Ci sono due ragioni. La prima è internazionale. Macron sta dicendo agli Usa che in Europa c’è una leadership molto solida: la sua. E poi c’è la partita interna: nel momento in cui anche la destra di Le Pen prende le distanze da Putin, il presidente francese sente il bisogno di marcare il territorio davanti all’opinione pubblica, in vista delle elezioni».Alla luce di questi protagonismi, se la immagina davvero una futura difesa europea?«È il momento della verità per l’Europa. O si assume una vera responsabilità, o sparisce. Se non avrà una politica estera e una difesa comune, se non si doterà di un assetto federale, se non uscirà dalla gabbia delle decisioni prese all’unanimità, alla fine l’Europa non conterà più nulla. E ognuno andrà per sé. Ma nel nuovo mondo complicato che ci aspetta, il mondo di “Caoslandia”, nessuno sopravvive da solo, neanche Francia e Germania».Per questo occorre prepararsi?«È collassato un ordine mondiale. Il mondo unipolare americano è finito per sempre, entriamo in una fase di competizione tra potenze. Quindi dobbiamo prepararci con un sistema di difesa autonomo. Oggi anche gli Stati Uniti guardano con favore a una difesa europea. Gli Usa hanno fatto una scelta strategica puntata sul Pacifico, e si aspettano un’Europa protagonista nel Mediterraneo e in Africa».Ma concretamente come pensa sia possibile creare una difesa europea, in un continente paralizzato dai veti incrociati?«Occorre un nucleo di Paesi “apripista”. Italia, Francia, Germania, e poi Polonia ad est e Spagna ad ovest, devono procedere con una “cooperazione rafforzata”. Questi Paesi chiave devono andare avanti, anche da soli, nel progetto di difesa europea. È il solo modo per uscire dai proclami e fare qualcosa di concreto».Gli italiani sono mentalmente preparati, dopo decenni di pace, a una guerra che non si combatte più nei salotti ma nelle trincee? Serve più sincerità da parte delle classi dirigenti?«Serve un onesto realismo, evitando reticenze da un lato, e avventurismi dall’altro. Bisogna dire le cose per come sono: per contrastare la competizione, bisognerà sviluppare la cooperazione sulle tre questioni cruciali del futuro: terrorismo, clima e squilibrio demografico, con tutti i cascami sulla gestione migratoria».La presenza russa in Africa è un’arma puntata contro l’Italia?«La Russia ha fatto una scelta: utilizza la destabilizzazione come un elemento di vantaggio. Centrafrica, Sahel, Cirenaica, Sudan: i russi non hanno mollato per un secondo le loro posizioni. Da questo punto di vista, l’Africa è il secondo fronte asimmetrico della guerra in Ucraina, per indebolire lo schieramento occidentale».Vale anche per la Cina?«No, c’è una divaricazione strategica tra Cina e Russia. La Cina non ha interesse a destabilizzare, per paura di crisi economiche, visto che non cresce più come una volta. Il modello politico-sociale di Pechino si fonda su un equilibrio delicato: in cambio del benessere economico, i cittadini accettano il partito unico. Se viene meno la crescita, il loro sistema crolla».Se la Cina contribuisce alla pace in Ucraina e a Gaza, otterrà in cambio preziose tecnologie americane. Possibile che nei colloqui tra Biden e Xi si parli anche di questo?«È già in atto una discussione di questo tipo. Le telefonate tra i due leader sono sempre più lunghe e cordiali. Nei mesi scorsi, Xi è andato a San Francisco, mentre aziende americane volano a Pechino. La Cina è consapevole che un nuovo ordine mondiale sta sorgendo, e vuole giocare la parte del protagonista».È preoccupato del crescente antisemitismo che si respira nelle università, dove si moltiplicano le proteste studentesche contro Israele?«Anche le posizioni più radicali devono avere diritto di tribuna, e con due guerre in corso, è evidente che il dibattito si radicalizzi. L’unica cosa che non si può accettare è l’uso della violenza. Per il resto, in Israele ci sono piazze piene di manifestanti, con discussioni durissime sulla linea da tenere a Gaza. Forse certi studenti italiani, prima di parlare, dovrebbero studiare di più».Smettere di collaborare con le università israeliane, come chiedono i collettivi studenteschi, è una richiesta sensata?«Le università sono il luogo della libertà di pensiero. Dobbiamo collaborare con tutte le università, siano israeliane, russe o cinesi. Per anni ci siamo illusi che la democrazia si potesse “esportare” con le iniziative militari, ed è finita malissimo, perché senza dialogo non c’è pace. Identificare le università con i governi, o peggio con le autocrazie, è il peggiore errore che si possa fare se si ricerca la pace. Come diceva Tacito, “desertum fecerunt, et pacem appellaverunt”. Hanno fatto un deserto, e lo chiamano pace».