2022-10-15
Chi fa il ministro del Lavoro? È la decisione cruciale per far ripartire il Paese
Dopo Elsa Fornero, Luigi Di Maio e l’uscente Andrea Orlando, serve una figura che renda efficiente il mercato eliminando la fuffa sindacale. Eppure il dicastero resta fuori dal totonomi.Fatti i presidenti dei due rami del Parlamento, resta da fare il governo e qui la girandola dei nomi continua. Rispetto a qualche giorno fa, si ha qualche certezza, per lo meno per quanto riguarda l’Economia, ovvero il ministero più pesante. Se fino alla scorsa settimana la ruota girava, passando dal rappresentante italiano nel board della Bce, Fabio Panetta, all’ex ministro Domenico Siniscalco, ora sembra essersi fermata su Giancarlo Giorgetti, leghista della prima ora e già sottosegretario alla presidenza del consiglio con Giuseppe Conte e alla guida dello Sviluppo economico con Mario Draghi. Una certezza pare pure Antonio Tajani agli Esteri, mentre per le altre caselle - Salute, Istruzione, Difesa, Giustizia, Pubblica amministrazione e Infrastrutture - il toto nomine continua, con candidati che vanno da Francesco Rocca a Guido Bertolaso, da Anna Maria Bernini a Maurizio Gasparri, da Adolfo Urso a Guido Crosetto, da Carlo Nordio a Maria Elisabetta Casellati eccetera. Insomma, come accade a ogni formazione di un nuovo governo e con una nuova maggioranza appena uscita dalle urne, la pallina gira e serviranno altri giorni, e il vaglio del Quirinale, prima che i giochi siano fatti.Tuttavia, in questo valzer delle poltrone e degli incastri che tiene banco sui giornali, c’è un aspetto che più di ogni altro mi ha colpito. Mentre girano nomi e cognomi di futuri ministri dell’Interno e dell’Agricoltura, con organigrammi che arrivano fino a incarichi per i rapporti con il Parlamento e per le Pari opportunità, nelle totonomine resta desolantemente vuota la casella del ministero del Lavoro. Non so se sia colpa dei cronisti, che dimenticano di riempire con uno o più candidati il dicastero di via Veneto o se il posto occupato attualmente da Andrea Orlando sia ritenuto così scomodo da non essere desiderato da nessuno. Però, quale che sia la risposta, la questione di uno dei ministeri chiave per far ripartire l’economia di questo Paese non può essere trascurata. Non ho idea se a oggi Giorgia Meloni non sia riuscita a trovare la figura giusta per far ripartire il lavoro oppure se tenga coperta la carta che ha in mano per calarla quando e se Sergio Mattarella le conferirà l’incarico. Però, l’assenza di una qualsiasi indicazione mi incuriosisce.In passato, quella casella è stata ricoperta da figure di primo piano. Negli anni del boom e dell’autunno caldo c’erano tipi come Giacomo Brodolini e Carlo Donat Cattin, poi sono venuti Gino Giugni e Tiziano Treu, ovvero studiosi di diritto del lavoro, ma anche Elsa Fornero. Da ultimo, purtroppo, il dicastero è finito nelle mani di chi un lavoro non lo aveva mai fatto, come Luigi Di Maio, o chi, come Nunzia Catalfo, rappresentava il fallimento delle politiche per l’impiego. In genere, comunque, il ministero del Lavoro è stato appannaggio di sindacalisti o di figure vicini al sindacato, come i già citati Donat Cattin e Treu (ma anche Brodolini e Giugni), a cui vanno aggiunti Ermanno Gorrieri, Franco Marini e Cesare Damiano. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il tasso di occupazione in Italia è uno dei più passi di tutta la Ue: 58,1 per cento. Peggio di noi fa solo la Grecia, con il 56,3. L’Olanda ha una percentuale che sfiora il 78 per cento, la Germania supera il 76 e la Svezia il 75, la Repubblica Ceca il 74. I Paesi che provengono dal fallimento dei regimi comunisti, cioè che hanno dovuto faticosamente ricostruire un mercato del lavoro come Estonia, Lituania, Lettonia, viaggiano tutti fra il 71 e il 73 per cento. Le conclusioni sono ovviamente facili: avere appaltato il Lavoro al sindacato non ha prodotto lavoro, ma disoccupazione, sussidi, costi per lo Stato e, di conseguenza, calo del Pil. Meno gente lavora, meno si produce. Qualcuno potrebbe pensare che la colpa è degli imprenditori, ma è difficile pensare che Cipro, la Polonia o il Portogallo (tasso di occupazione medio intorno al 69 per cento) abbiano industriali più brillanti, capaci e di successo del nostro Paese. Evidentemente, la sovrastruttura creata in oltre cinquant’anni ha ucciso il lavoro.Ecco perché ritengo importante che Giorgia Meloni scelga bene la persona a cui affidare il ministero di via Veneto. Chi assumerà l’incarico, dovrà occuparsi di pensione e welfare e di smontare una struttura inefficiente (dove il sindacato la fa da padrone). Soprattutto dovrà anche abolire il Reddito di cittadinanza o, per lo meno, eliminare gli effetti perversi creati dal sussidio tanto caro a Giuseppe Conte e ai grillini. Vi dico solo questo. In cinque anni, i governi voluti da Beppe Grillo non sono stati capaci di consegnare alle agenzie per l’impiego l’accesso automatico all’elenco dei percettori del reddito di cittadinanza. Da Manpower, Adecco, Gi Group, Openjobmetis e Umana passano gran parte delle assunzioni, ma quelle di chi percepisce il sussidio, perché quando le agenzie ricevono la richiesta per l’occupazione di un posto non hanno né l’indirizzo mail né il telefono dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Ecco, se la leader di Fratelli d’Italia vuole fare la differenza, io partirei da qui: rendendo finalmente efficiente il mercato del lavoro e spazzando via un po’ di fuffa sindacale.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.
Antonella Bundu (Imagoeconomica)
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