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Il grande direttore d'orchestra rilancia l'appello alla politica affinché trovi una via diplomatica per convincere la Francia a far tornare nella sua città natale il compositore fiorentino, che ora riposa al cimitero di Père-Lachaise. Il sogno? Dirigere il Requiem del genio toscano nella Basilica di Santa Croce, dove è già pronto il suo cenotafio.
Carlo De Benedetti (Ansa)
L’Ingegnere accusa John Elkann di scappare per paura dei giudici e di essere statunitense. Ma pure lui è cittadino svizzero. Ed è arcinoto il legame tra le sue testate e le toghe.
Carlo De Benedetti da Dogliani è come l’aceto. Più invecchia e più è acido. Però l’Ingegnere ormai ha 91 anni, ha una gran memoria (selettiva) e può dire quello che vuole. La vendita di Stampa e Repubblica a dei greci «amici della Meloni» (si sarà confuso con i Colonnelli) lo ha letteralmente scatenato e quindi ha inveito contro John Elkann, sostenendo che «scappa dall’Italia perché ha problemi con la giustizia» e che la fortuna di Rcs Mediagroup e del Corriere della Sera è che il nipote prediletto di Giovanni Agnelli «ha fallito la scalata» (non c’è mai stata, comandavano senza).
De Benedetti, o dell’amarezza profonda. Da ex fornitore Fiat, non è riuscito a scalare Fiat e nel 1976 è stato defenestrato da Corso Marconi. La sua Olivetti ha fatto la fine che ha fatto. Si è vestito da editore (impuro) per 22 anni con il gruppo Espresso Repubblica, distruggendo il primo e consegnando il secondo agli Agnelli Elkann. Ha fatto la guerra tutta la vita a Silvio Berlusconi, ma ha perso anche quella perché l’ha impostata sulla superiorità morale e l’altro era più furbo e simpatico. Una volta capito che il rivale sarebbe stato a lungo a Palazzo Chigi come premier, gli propose una bella holding di partecipazioni in comune, fermata solo dalle proteste di Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari. Perché De Benedetti è sempre stato così: disprezza e compra. E se non riesce a comprare, improvvisamente ama e poi prova nuovamente a comprare.
Quello che è stato capace di dire al Foglio nel giorno in cui gli Agnelli Elkann vendono i giornali contiene qualche verità, ma con un grado altissimo di sfacciataggine e maramalderia.
Elkann vende i giornali «anche per tenersi lontano dai magistrati. Vende i giornali per partirsene via dall’Italia». Il presidente di Exor non è la prosecuzione della dinastia Agnelli, ma il suo liquidatore: «La Fiat, la Juve, la Ferrari. Dopo questa faccenda di Repubblica sarà difficile per lui in Italia. Non ha consensi. Non è amato […] Si trasferirà a New York. È cittadino americano di nascita». Tanto per dire, Cdb ha fatto avanti e indietro tutta la vita con la Svizzera e ha avuto problemi con Tangentopoli. Mentre il rapporto dei suoi giornali con le Procure non era certo figlio del disinteresse più adamantino.
L’Ingegnere ha speso parole al miele per Gianni Agnelli, più che altro per la sua «simpatia» e «popolarità», senza ricordarne il monumentale lato offshore. Ma il miele era solo per fare confronti sgradevoli con il nipote. Sempre al Foglio, ha spiegato: «John Elkann non ci ha nemmeno provato a farsi ben volere. E oggi se cammina per le strade di Torino non lo saluta più nessuno». Esattamente come accade a De Benedetti, che gira per il centro mani in tasca, fasciato nei suoi doppiopetti gessati di Caraceni, indossati con l’allure di un capo cantiere. Per inciso, ieri ha invece lodato Urbano Cairo, editore del Corriere e di La7, definito «bravissimo». Anche perché Cdb è di casa dalla Gruber a Ottoemezzo, dove ama pontificare sulla qualunque, politica estera compresa.
Proprio ieri, è morto il genovese Marco Benedetto, un vero figlio del Secolo. Ex giornalista Ansa, ex ufficio stampa Fiat, ex amministratore delegato di Espresso-Repubblica quando il gruppo era quotato in Borsa ed era un gioiello e una potenza. Benedetto non era solo un mastino, ma un grande esperto di giornali. Era l’anello di congiunzione tra gli Agnelli, Cesare Romiti e l’Ingegnere. Senza di lui, Cdb sarebbe stato al massimo il proprietario della Sentinella del Canavese.
De Benedetti seppellirà tutti i rivali, non c’è dubbio. A volte sembra un po’ rude, ma in realtà ha solo un problema di riconoscimenti mancati. Può sembrare acido e velenoso. E quasi sempre inciampa sullo stile. Degli altri. Per esempio, tutti i dipendenti Mediaset e Mondadori amavano il Cavaliere. Tutti i dipendenti del gruppo Espresso amavano il presidente Carlo Caracciolo, editore vero e innamorato dei giornali e dei giornalisti, nonché cognato del predetto «amatissimo» Gianni Agnelli. L’Ingegnere? Pagava i conti a fine anno e nessuno gli diceva mai grazie. Neppure i figli Marco e Rodolfo, con i quali va poco d’accordo e da lui più volte accusati di «non capire niente di editoria». In pubblico e senza a alcuna pietà. La successione di Berlusconi è stata un mezzo capolavoro finanziario, ma soprattutto un esempio di equilibrio e armonia, pur nella vasta famiglia. Il testamento di Cdb, quando sarà, darà da scrivere per mesi.
Anche le imprese di De Benedetti in Belgio e in Francia sono state meno fortunate e meno lodate degli affari che il pallido Elkann ha messo a segno Oltralpe con Exor, Louboutin, Institute Mérieux e tanto altro. E quando Cdb e John si sono associati per i giornali, il primo ha portato in bilancio un contenzioso fiscale pregresso miliardario e il secondo uno stile manageriale da caserma sabauda, incompatibile con la confezione di un prodotto collettivo dell’ingegno.
L’Ingegnere oggi trova elegante sottolineare che Elkann se ne andrà dall’Italia per «stare alla larga dei giudici» e d’altronde «a Torino è già ai servizi sociali, come Berlusconi a Cesano Boscone». E poi John, finito nei guai per l’eredità di Marella Caracciolo, secondo lo psicoterapeuta e fine pedagogo di Dogliani «fa il tutor per ragazzi problematici, ma sarebbe lui ad aver bisogno di un tutor perché tutto quello che ha toccato lo ha rotto». Com’era la storia di quelli che vivono a specchio?
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Maurizio Landini (Ansa)
- Il segretario della Cgil urla al regime e sostiene di parlare a nome del Paese reale. Ma non aderiscono allo sciopero generale neppure gli iscritti al sindacato: hanno capito che combatte una battaglia personale. Stavolta in pericolo c’è la sua poltrona.
- Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito: «Fanno bene ad avere paura, non ci fermeremo». E dopo i silenzi sui tagli Stellantis, va contro Elkann per «Rep».
Lo speciale contiene due articoli.
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
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John Elkann (Getty Images)
I quotidiani progressisti servivano solo a coprire la ritirata dall’Italia. E visto il silenzio del Pd e di Landini mentre l’industria dell’auto moriva, l’operazione è riuscita. Poi si chiedono perché gli operai non li votino più.
John Elkann sta smantellando pezzo dopo pezzo quello che era il più grande impero industriale privato del Paese, portando le produzioni automobilistiche all’estero. Mentre a Pomigliano d’Arco si sospende la produzione della Panda e della Tonale, Stellantis - questo il nome assunto dopo la fusione con Peugeot e di cui l’erede di casa Agnelli è presidente - produce veicoli a marchi Fiat in Marocco, Serbia, Algeria, Polonia, per non parlare delle Jeep negli Usa. Ieri sera ha pure ricevuto un’offerta miliardaria per la Juve. Tuttavia, di fronte a questa fuga dall’Italia, la sinistra pare indifferente. Né il Pd né la Cgil hanno fatto un plissé leggendo il racconto dell’operaio che ha dovuto trasferirsi da Pomigliano a Kragujevac, 140 km da Belgrado ovvero 1.600 km da casa, per non finire in cassa integrazione. Eppure, sono un centinaio i dipendenti che hanno scelto di accettare l’offerta dell’azienda pur di poter contare su uno stipendio pieno. E zero commenti si sono registrati a sinistra quando la stessa Stellantis ha inviato una lettera ai fornitori italiani invitandoli a traslocare le loro aziende in Marocco, dove il gruppo ha avviato una fiorente attività producendo, tra le altre, la Topolino.
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
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