2022-05-18
«No ai blocchi e al debito comune». Berlino continua a resistere a Biden
Christian Lindner e Janet Yellen (Ansa)
Il ministro Christian Lindner: «No al ritorno dei blocchi e all’embargo» Sull’Ue difende il Patto di stabilità mettendosi contro Janet Yellen.È sempre più difficile leggere tutto ciò che si muove attorno alla tragedia ucraina senza la chiave di una gigantesca pressione geopolitica ed economica scaricata dagli Usa sull’Europa, e in particolare sulla Germania. Una pressione rimasta latente per anni, che a tratti aveva bucato la superficie (Dieselgate, spie obamiane con le orecchie puntate su Angela Merkel, scontro quasi frontale con Donald Trump), ma che ora ha già prodotto imponenti sterzate nel cuore industriale e produttivo del Vecchio Continente. Il dato più impressionante è costituito dalla velocità e dall’imponenza degli annunci e delle spese sul riarmo: l’addio fulmineo - e non certo sottoposto al vaglio degli elettori nella pur recente campagna elettorale - alla politica nemica dei deficit per scatenare investimenti di centinaia di miliardi in Difesa fa il paio con la decisione di staccarsi da Mosca per l’approvvigionamento energetico. Qui, però, iniziano i problemi: non è in discussione un colpo di timone per assecondare un vento imprevisto, ma lo sradicamento di un modello economico mercantilista ventennale basato sull’assorbimento vorace di idrocarburi russi, l’esternalizzazione di attività a basso costo in Paesi dell’Est, il lucro garantito da un euro deprezzato rispetto al «naturale» posizionamento del marco, l’export spinto verso i mercati asiatici, Cina in primis. Il grosso dell’élite tedesca sembra aver preso atto che l’illusione della Wandel durch Handel («Cambiare tramite il commercio») è svanita sotto il martello atlantico di una potenza americana decisa a disarticolare l’«egemonia riluttante» dei tedeschi: quella incarnata dall’equilibrio della Merkel, improvvisamente divenuta simbolo e capro espiatorio di un passato da cui abiurare in fretta. Ma quando una nave container sterza, mareggiate, correnti, attriti e perfino qualche collisione sono quasi inevitabili. Lo dimostra con grande efficacia una intervista rilasciata ieri da Christian Lindnder a Federico Fubini sul Corriere della Sera. Il ministro delle Finanze liberale del governo Scholz rivendica la condivisione degli obiettivi di «isolare la Russia politicamente, finanziariamente e in termini economici» e staccarla «dal sistema finanziario internazionale». Ma pur ribadendo la volontà di «diventare completamente indipendenti dalle importazioni di energia dalla Russia», l’ex maggiore della riserva della Luftwaffe riconosce l’ovvio, ovvero che «uno stop immediato delle forniture di gas dalla Russia provocherebbe gravi danni all’economia». Anche sull’idea draghiana di un tetto ai prezzi è laconicamente realista: «Si rischia che la parte russa interrompa i flussi. Putin potrebbe reagire stoppando di netto le forniture di energia», con annessa catastrofe. Ma è sulla Weltanschauung che Lindner traccia il solco con Washington. Mentre Biden e Yellen parlano ormai apertamente di un ritorno di placche geopolitiche contrapposte, il ministro della Fdp scandisce: «La Russia non sarà più un interlocutore per un periodo molto lungo. La Cina è allo stesso tempo un partner commerciale, un concorrente e un rivale sistemico. Ma non dobbiamo puntare contro gli altri questo approccio alla globalizzazione basato sui valori. Neanche l’India è la controparte più facile nei negoziati, ma dobbiamo staccare l’India e la Cina dalla Russia. Quindi sono d’accordo sulla globalizzazione tra amici, ma sono contro la formazione di due blocchi separati». Meno di un mese fa alla «Davos asiatica» il messaggio di Xi Jinping è stato così riassunto dai media: «No a sanzioni e scontro tra blocchi». Ora, Lindner non è ovviamente tutta la Germania: il Partito liberaldemocratico è risultato quarta forza alle recenti Politiche ed è soprattutto riferimento di una filiera di pmi che hanno minori dimensioni e struttura rispetto ai colossi (Volkswagen, Dhl, Siemens...) che possono permettersi violenti e rapidi riposizionamenti sui mercati. Ma tale attrito dà l’idea di quante e quali siano le difficoltà per il sistema tedesco (e le sue filiere, tra cui decine di migliaia di imprese italiane) ad assorbire l’immane sterzata imposta dalla guerra.Lo scontro con l’America insomma non è certo finito. Non solo: al netto della retorica facilotta sull’Europa e la Nato «unite da Putin», il difficile riposizionamento tedesco apre una faglia anche nella Ue. In primis perché altera un equilibrio che dura da decenni, e che - semplificando - assegna(va) a Berlino la primazia economico-commerciale e a Parigi la leadership della Difesa: se i tedeschi si riarmano, difficilmente lo faranno in modo condiviso o allineato con gli interessi francesi. Il secondo fronte lo spiega ancora Lindner al Corriere: alla domanda sull’opportunità di un «sequel» del Recovery fund la risposta è sostanzialmente: «No». Sull’ammorbidimento delle regole di bilancio Ue, la risposta è in pratica: «No». Sulla messa in comune dei debiti europei, la risposta è testualmente: «No». Anche qui si apre un’altra faglia con gli Usa. Di recente la segretaria al Tesoro, Janet Yellen, ha dichiarato che «le caratteristiche del Trattato di Maastricht hanno reso quasi impossibile introdurre una politica fiscale ragionevole in un posto come l’Italia». È un solco che può provocare scossoni devastanti, ma anche provvidenziali opportunità: l’Italia comunque sarà coinvolta. Se ha un vantaggio, è quello di poter negoziare in un quadro che non può decidere, puntando quasi tutto su un vantaggio che prima di un merito è un dato: la geografia.