Metaverso, nel mattone virtuale arriva un miliardo di investimenti

Gli investimenti nel real estate virtuale
Nel mondo c'è un vero boom del real estate virtuale. Si compra e si vende "terreno" digitale all'interno di universi virtuali (tipo il vecchio gioco «Second Life») dove costruire esperienze di vario tipo. Si spazia dai videogame ai luoghi per eventi, dai concerti dal vivo a negozi dove vendere oggetti digitali e reali, basta poi procedere al ritiro dell’oggetto. Tutto questo è possibile perché ogni componente di questi universi, dal "terreno" su cui costruire agli oggetti che appaiono disegnati in 3D, sono Nft, ovvero oggetti digitali che si possono creare, comprare e vendere grazie alla tecnologia blockchain che sta alla base delle crypto valute come Bitcoin e Ethereum. Ebbene, nel 2021 secondo una recente ricerca sono già stati investiti 500 milioni di dollari nell’immobiliare presente nella realtà virtuale del metaverso. Cifra destinata a raggiungere il miliardo di dollari entro il 2022.
Le principali piattaforme dedicate alla creazione di metamondi sono Sandbo (la più importante), Decentraland, Cryptovoxels e Somnium. Su The Sandbox la valuta impiegata è il Sand, che vale circa 3 dollari, mentre su Decentraland si usa il Mana che ha più o meno lo stesso valore. Entrambe sono derivate dalle crypto più note, ossia l’Ethereum, ma sono ancora più volatili. Secondo alcune stime, l'opportunità di guadagno globale del metaverso potrebbe raggiungere gli 800 miliardi di dollari entro il 2024. In Italia però la conoscenza del fenomeno è ancora limitata. Secondo una ricerca effettuata da Sensemakers il 25% degli italiani dichiara di sapere cos’è il metaverso. Percentuale che sale al 37% per i giovani dai 18 ai 24 anni, al 33% per quelli 25- 34 anni e che scende progressivamente fino al 17% per i 55-64enni e al 13% per gli over 65. Il 41% ne ha semplicemente sentito parlare, mentre uno su tre non sa cosa sia. Per quanto riguarda l’uso concreto del mondo virtuale il 62% degli italiani si dichiara interessato (l’80% sono tra i 18-24 anni) soprattutto come amplificatore di esperienze in grado di superare i limiti fisici (di spazio e tempo) della vita reale. Ma la maggioranza di essi (pari all'80%) identifica nella “fuga della realtà” il suo maggiore rischio. Si tratta comunque di una opportunità da non perdere: per il 56% degli intervistati le aziende faranno bene ad investire. Il 49% pensa saranno i social network ad avere maggiore successo, seguiti dai produttori di device tecnologici (42%) e dalle società di giochi online (41%).
Tanto per fare un esempio concreto. Decentraland è fatto da circa 90mila appezzamenti. All’esordio della piattaforma nel 2017 se ne poteva comprare uno per una ventina di euro, ora quelli che costano meno sono venduti a 12mila euro. Un’azienda ha pagato quasi un milione un appezzamento per realizzare un centro commerciale virtuale. Ci sono già società immobiliari pronte a fornire consulenza alle aziende per investire nel metaverso. Una di queste è Century 21 Italia di Marco Tilesi. Ma come si stima il valore di un terreno virtuale? «Il valore è dato dall’importanza percepita della piattaforma in cui si trovano, ma anche dalla loro centralità o rilevanza all’interno della mappa – ha spiegato Tilesi – i meccanismi sono simili a quelli del real estate tradizionale: posizione, prospettive di crescita e potenzialità di collegamento». Secondo Tilesi non ci sarà una piattaforma dominante. Ognuna tenderà a sviluppare una nicchia, un po’ come è successo ai vari social che consentono finalità diverse agli stessi utenti.
In comune non hanno solo l’iniziale del cognome, ma anche l’estrema debolezza politica dei rispettivi governi: ieri mattina il neo cancelliere tedesco Friedrich Merz, il giorno dopo la clamorosa bocciatura al primo voto al Budestag, ha effettuato la prima visita di Stato a Parigi, dove ha incontrato il presidente francese Emmanuel Macron. Entrambi sono incalzati da partiti di destra cresciuti a dismisura e guidati da donne carismatiche, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Alternative für Deutschland di Alice Weidel (due forze politiche che il sistema sta cercando di contrastare mettendole fuori legge, ricordiamo che la Le Pen è già ineleggibile dopo una condanna e Afd è stata definita pericolosa per la democrazia dai servizi segreti tedeschi): Macron e Merz cercano di stringere i bulloni dell’arrugginito asse franco-tedesco per rafforzare le rispettive posizioni interne e tentare di ridare vigore a quella che era una volta era l’egemonia di Parigi e Berlino in Europa. La storia però si ripete in farsa: Macron è a fine corsa, il governo francese non ha una maggioranza, la situazione è talmente instabile che l’inquilino dell’Eliseo aveva anche pensato a nuove elezioni; Merz ha capito subito che l’accordo Cdu-Csu/Spd è fragilissimo, che anche all’interno del suo partito lo terranno in ostaggio e che quindi dovrà contrattare di volta in volta i voti in Parlamento per far passare i provvedimenti. Sono finiti i tempi (2011) in cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy potevano far traballare un governo, in questo caso quello di Silvio Berlusconi, con una risatina in conferenza stampa: Merz e Macron hanno ben poco da ridere. In conferenza stampa, al di là dei buoni propositi di rito, del tipo «Insieme, facciamo progredire l’Europa» (Macron) e «L’Europa si trova davanti a enormi sfide potranno essere superate solo se Francia e Germania saranno più unite che in passato» (Merz), il punto chiave emerso dal vertice dell’Eliseo riguarda la Difesa: «Istituiremo un consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza», dice Macron, «che si riunirà regolarmente per fornire risposte operative alle nostre sfide strategiche comuni». Che significa? A una lettura superficiale, sembra l’annuncio di un ennesimo tavolo di partenariato tra due nazioni, ma qui siamo di fronte a ben altro: Francia e Germania hanno chiaramente l’intenzione di fare la parte del leone nell’operazione di riarmo dell’Europa annunciata da Ursula von der Leyen. Una manovra da 800 miliardi di euro, un gigantesco piano di investimenti destinati alle industrie del settore della Difesa, non intesa (si spera) solo come produzione di jet e carrarmati ma piuttosto come una iniezione di denaro nelle imprese dello spazio, della cyber sicurezza, delle infrastrutture, delle telecomunicazioni. La Germania è tra i 12 Paesi europei che hanno chiesto alla Commissione di attivare le deroghe sui vincoli del Patto di stabilità con la clausola nazionale di salvaguardia per aumentare le spese nella difesa (gli altri sono Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia); la Francia non lo ha fatto perché, come ha spiegato il ministro delle Finanze Éric Lombard, «non abbiamo il margine di manovra fiscale che ci consentirebbe di farlo» (il rapporto deficit/pil di Parigi è superiore al 6%). Detto ciò, i colossi del settore della Difesa francesi e tedeschi sono tra i più potenti del mondo, e i rispettivi sistemi industriali risultano tra i più pronti a una riconversione per la produzione di armamenti. L’idea che questo organismo congiunto di difesa e sicurezza altro non sia che una sorta di centrale per lo smistamento degli acquisti di sistemi di armamenti e di tutto ciò che ruota intorno al comparto verso le industrie tedesche e francesi è un sospetto più che fondato. La Francia tra l’altro è una potenza atomica, la Germania come ben sappiamo no, e quindi va sottolineata anche una affermazione netta di Merz sulla deterrenza nucleare: «Riconosco la necessità fondamentale», sottolinea Merz, «di discutere con la Francia e il Regno Unito su come continuare a fornire insieme una risposta deterrente di questo tipo in futuro».
Del resto, la parola Difesa si traduce sempre con la parola soldi: ieri a Bruxelles si è riunito il Consiglio atlantico della Nato per esaminare la proposta del segretario generale, Mark Rutte, sui nuovi target di spesa militare da concordare al vertice dei leader in programma a l’Aja a giugno. Gli Usa chiedono agli Stati membri di spendere per la Difesa il 5% del Pil, Rutte ha proposto una mediazione: il 3,5% per la difesa classica, carrarmati, missili, arerei e forze armate, e un altro 1,5% per i comparti più moderni, dalla cyber sicurezza al contrasto alla guerra ibrida. Si tratta di percentuali altissime, ma la variabile-tempo ancora non è stata definita: un discorso è impegnarsi a centrare l’obiettivo in 5 anni, altra prospettiva in 15.