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2022-04-01
Metano in euro, conti in Gazprom. Putin prova a bucare le sanzioni
iStock
La cronaca di ieri forse ci aiuta a mettere un punto fermo in quella che, da un paio di settimane, è diventata la più chiacchierata - e a tratti incomprensibile - querelle sorta dopo l’invasione russa dell’Ucraina: la cosiddetta guerra del rublo. Meno cruenta di quella in corso sul territorio, ma altrettanto combattuta fra le cancellerie internazionali.
In soldoni, la domanda che si fanno in tanti è questa: «Perché Vladimir Putin esige che il gas gli venga in pagato in rubli anziché in euro?». Che, peraltro, sono la valuta - assieme al dollaro - comunemente usata per le transazioni di materie come petrolio o gas? Un modo riaffermare il prestigio internazionale del Cremlino? Il capriccio di un dittatore?
Ieri, Putin ha lanciato un ultimatum: o fate come dico io, o interrompiamo le forniture di metano. Berlino e Parigi non vogliono cedere: «Non accetteremo in alcun modo di pagare il gas» in altre valute, hanno fatto sapere Bruno Le Maire e Robert Habeck. Il nostro Roberto Cingolani, intanto, rassicurava: «Al momento le riserve italiane di gas consentono comunque di mandare avanti le attività del paese anche in caso di brusche ed improbabili interruzioni delle forniture russe». Chi la spunterà? Oggi lo scopriremo. Ma in un certo senso, tutti potrebbero uscirne vincitori - e a breve vi spiegheremo perché.
Invero, a Mosca servono eccome i dollari o gli euro per rimborsare il suo debito in valuta estera. Non così insostenibile: nel 2022 verranno a scadenza 4,7 miliardi di dollari, di cui 2 il prossimo 4 aprile. Certo, le sanzioni per Mosca sono state dolorose. Le sono state confiscate le riserve depositate in giro per il mondo presso altre banche centrali, fra cui la nostra Banca d’Italia, per circa 300 miliardi di dollari. Poco meno della metà rispetto ai complessivi 640 miliardi di cui è in possesso la Banca centrale russa. Insomma, Putin avrebbe comunque le risorse con cui pagare. Ma allora perché i leader occidentali sono così combattivi? Lo stesso Mario Draghi ha dovuto trovare il coraggio di chiamare direttamente Putin. Colloquio in cui «sono stati dati chiarimenti concernenti la decisione di passare al rublo nei pagamenti per le forniture di gas ad alcuni Paesi. Italia inclusa». Così scriveva, un po’ irrispettosamente, in un tweet, l’ambasciata russa in Italia due giorni fa; quasi evocando l’immagine dell’autocrate russo in piedi di fronte a una lavagna che disegnava lo schemino in favore di telecamera, affinché il nostro premier prendesse appunti come uno studente. Ma la cronaca, sfrondata dalle note di colore, sostanzialmente dice questo.
I Paesi considerati «ostili» da Mosca dovranno aprire presso Gazprombank (la banca di Gazprom) «conti speciali» in rubli e in euro. Serviranno a pagare il gas russo. E questa è la prima novità. Tutte le transazioni saranno praticamente centralizzate su Mosca. Non potranno avvenire in nessuna banca occidentale. Sarà Gazprombank, esclusa dalle sanzioni, ad acquistare rubli dalla Banca centrale russa con la valuta depositata dagli importatori occidentali presso la borsa di Mosca durante le ore di contrattazione. Principalmente gli euro. Così, almeno, prevede il decreto del presidente russo pubblicato sul sito del Cremlino, come anticipato dall’agenzia Tass. «La banca autorizzata (vale a dire Gazprombank, ndr), in risposta a un ordine di un acquirente straniero ricevuto secondo quanto stabilito dalle regole, vende la valuta ricevuta dall’acquirente su tale conto durante le ore di scambio alla Borsa di Mosca», recita il decreto. Secondo quanto ricordano fonti informate, finora i pagamenti avvenivano in euro su un conto di Gazprombank. Ma in Lussemburgo. L’escamatoge trovato permette ai Paesi acquirenti di continuare a pagare in euro, così rispettando formalmente i contratti. Gazprombank convertirà poi automaticamente gli euro in rubli, trasferendoli sul conto aperto dai Paesi europei. Quando Gazprom avrà ricevuto il pagamento in rubli, erogherà le forniture di gas. Entro dieci giorni la Banca centrale russa dovrà definire le regole per i conti speciali in valuta destinati ai Paesi acquirenti di gas. Questo precisa il decreto.
Come si può ben capire, il nodo del contendere non sta tanto nella diatriba «mi paghi in rubli - no, ti pago in euro». Bensì in «mi consegni gli euro a Mosca - no, io gli euro te li lascio presso Gazprombank, ma a Lussemburgo». In altre parole, non cambia la valuta di regolamento, che di fatto rimane l’euro. Bensì la piazza dove questi euro vengono consegnati. Mosca, non più Lussemburgo. Non è un dettaglio di lana caprina. Mosca non vuole correre il rischio che, con l’eventuale prolungamento del conflitto, l’Occidente possa inasprire le sanzioni, bloccando i depositi in valuta estera di Gazprom presso Gazprombank in Lussemburgo. E quindi presso la Bce. I nuovi depositi in valuta estera, stoccati presso la Banca centrale russa, non potranno essere congelati come i 300 miliardi di riserve. Ecco perché vincono tutti: i Paesi Ue potrebbero continuare a dire che pagano in euro. Non saranno cioè le banche occidentali a bussare alla Banca centrale russa per convertire gli euro nei rubli per poi pagare il gas. Lo farà Gazprombank per loro. E non la filiale in Lussemburgo, aggredibile da possibili ulteriori sanzioni, bensì Gazprombank di Mosca.
Intanto, per acquistare un dollaro servono 81 rubli. Addirittura, meno degli 83 che si dovevano sborsare prima dell’inizio della guerra. La Borsa di Mosca ha chiuso in rialzo di quasi l’8%. Putin lascia comunque aperta la porta del dialogo. Il decreto prevede la possibilità che alcuni pagamenti non siano effettuati in rubli. Tali eccezioni - spiega la Tass - saranno individuate da una commissione governativa che vigila sugli investimenti stranieri. Putin, quindi, ha dato istruzione di approvare la procedura di autorizzazione entro dieci giorni. In pratica, con questa postilla, Mosca ci dice che applicherà la sua legge per i nemici oppure la interpreterà per gli amici.
L’election day spinge i referendum
Formalmente sarà un election day, ma per arrivare al quorum bisognerà comunque sudare.
Il Consiglio dei ministri di ieri ha stabilito che i cinque referendum promossi dai radicali e dalla Lega sulla giustizia e ammessi dalla Consulta si dovranno tenere il prossimo 12 giugno, contestualmente al primo turno delle amministrative. Una tornata elettorale di assoluto rilievo poiché interesserà circa 1.000 Comuni, tra cui 24 capoluoghi di provincia e quattro capoluoghi di Regione, per un totale di otto milioni e mezzo di elettori interpellati. Un booster verso l’obiettivo perseguito dai promotori dei referendum, dunque, che non garantisce però il raggiungimento della fatidica soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto.
La decisione dell’esecutivo è stata accolta positivamente dal leader leghista Matteo Salvini, che aveva cominciato a pressare Palazzo Chigi e il Viminale in questo senso già all’indomani dell’ammissione dei quesiti. Arrivando in Senato per partecipare all’importante seduta in cui si discuteva il dl Ucraina, Salvini ha dichiarato di essere «contento che hanno ascoltato la Lega», aggiungendo che «si risparmieranno 200 milioni» e che «con i soldi risparmiati per con l’election day chiederemo ulteriori tagli per le bollette».
Quanto al merito dei contenuti, questi riguarderanno esclusivamente materia di giustizia: uno chiede l’abrogazione della norma della legge Severino, che prevede la sospensione fino a 18 mesi di una carica comunale, regionale e parlamentare anche in caso di una condanna in primo grado, mentre un secondo riguarda il restringimento dei casi in cui un magistrato può ricorrere alla carcerazione preventiva. Su questo quesito, all’interno del centrodestra, ha manifestato delle perplessità Fratelli d’Italia, mentre sono tutti d’accordo sul sì alla separazione delle carriere dei magistrati, che dovranno scegliere a inizio carriera se vorranno far parte della magistratura giudicante o di quella requirente, senza poi poter più cambiare. Un altro punto su cui saranno interpellati gli elettori è quello del sistema elettorale del Csm, per il quale i promotori del referendum chiedono di abrogare la norma che obbliga un candidato a trovare una corrente che lo sostenga, mentre a chiudere la rosa dei quesiti c’è quello che fornirebbe, se approvato, agli avvocati la possibilità di esprimersi sulla professionalità dei magistrati nei Consigli giudiziari.
Non è stato invece ammesso a suo tempo dai giudici costituzionali il quesito probabilmente più incisivo e inviso alle toghe tra quelli proposti dai comitati referendari, e cioè quello che avrebbe introdotto, con la vittoria del sì, la responsabilità personale dei magistrati in caso di errori giudiziari.
Sempre tra quelli esclusi, ci sono i due quesiti che hanno suscitato più clamore mediatico e polemiche politiche, vale a dire quelli su eutanasia e liberalizzazione della cannabis, respinti - come ha spiegato di persona il presidente della Consulta, Giuliano Amato - a causa dell’incoerenza della formulazione.
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Ultimatum russo ai Paesi «ostili»: «Aprite depositi pure in rubli nella banca della società fornitrice a Mosca, o da oggi niente gas». Berlino e Parigi: «Non ci piegheremo». E Roberto Cingolani giura: «Le scorte per ora bastano».L’election day spinge i referendum. Il cdm accorpa i quesiti sulla giustizia al voto nei Comuni. Matteo Salvini esulta, ma senza responsabilità delle toghe, cannabis e fine vita raggiungere il quorum sarà arduo.Lo speciale contiene due articoli.La cronaca di ieri forse ci aiuta a mettere un punto fermo in quella che, da un paio di settimane, è diventata la più chiacchierata - e a tratti incomprensibile - querelle sorta dopo l’invasione russa dell’Ucraina: la cosiddetta guerra del rublo. Meno cruenta di quella in corso sul territorio, ma altrettanto combattuta fra le cancellerie internazionali. In soldoni, la domanda che si fanno in tanti è questa: «Perché Vladimir Putin esige che il gas gli venga in pagato in rubli anziché in euro?». Che, peraltro, sono la valuta - assieme al dollaro - comunemente usata per le transazioni di materie come petrolio o gas? Un modo riaffermare il prestigio internazionale del Cremlino? Il capriccio di un dittatore? Ieri, Putin ha lanciato un ultimatum: o fate come dico io, o interrompiamo le forniture di metano. Berlino e Parigi non vogliono cedere: «Non accetteremo in alcun modo di pagare il gas» in altre valute, hanno fatto sapere Bruno Le Maire e Robert Habeck. Il nostro Roberto Cingolani, intanto, rassicurava: «Al momento le riserve italiane di gas consentono comunque di mandare avanti le attività del paese anche in caso di brusche ed improbabili interruzioni delle forniture russe». Chi la spunterà? Oggi lo scopriremo. Ma in un certo senso, tutti potrebbero uscirne vincitori - e a breve vi spiegheremo perché.Invero, a Mosca servono eccome i dollari o gli euro per rimborsare il suo debito in valuta estera. Non così insostenibile: nel 2022 verranno a scadenza 4,7 miliardi di dollari, di cui 2 il prossimo 4 aprile. Certo, le sanzioni per Mosca sono state dolorose. Le sono state confiscate le riserve depositate in giro per il mondo presso altre banche centrali, fra cui la nostra Banca d’Italia, per circa 300 miliardi di dollari. Poco meno della metà rispetto ai complessivi 640 miliardi di cui è in possesso la Banca centrale russa. Insomma, Putin avrebbe comunque le risorse con cui pagare. Ma allora perché i leader occidentali sono così combattivi? Lo stesso Mario Draghi ha dovuto trovare il coraggio di chiamare direttamente Putin. Colloquio in cui «sono stati dati chiarimenti concernenti la decisione di passare al rublo nei pagamenti per le forniture di gas ad alcuni Paesi. Italia inclusa». Così scriveva, un po’ irrispettosamente, in un tweet, l’ambasciata russa in Italia due giorni fa; quasi evocando l’immagine dell’autocrate russo in piedi di fronte a una lavagna che disegnava lo schemino in favore di telecamera, affinché il nostro premier prendesse appunti come uno studente. Ma la cronaca, sfrondata dalle note di colore, sostanzialmente dice questo. I Paesi considerati «ostili» da Mosca dovranno aprire presso Gazprombank (la banca di Gazprom) «conti speciali» in rubli e in euro. Serviranno a pagare il gas russo. E questa è la prima novità. Tutte le transazioni saranno praticamente centralizzate su Mosca. Non potranno avvenire in nessuna banca occidentale. Sarà Gazprombank, esclusa dalle sanzioni, ad acquistare rubli dalla Banca centrale russa con la valuta depositata dagli importatori occidentali presso la borsa di Mosca durante le ore di contrattazione. Principalmente gli euro. Così, almeno, prevede il decreto del presidente russo pubblicato sul sito del Cremlino, come anticipato dall’agenzia Tass. «La banca autorizzata (vale a dire Gazprombank, ndr), in risposta a un ordine di un acquirente straniero ricevuto secondo quanto stabilito dalle regole, vende la valuta ricevuta dall’acquirente su tale conto durante le ore di scambio alla Borsa di Mosca», recita il decreto. Secondo quanto ricordano fonti informate, finora i pagamenti avvenivano in euro su un conto di Gazprombank. Ma in Lussemburgo. L’escamatoge trovato permette ai Paesi acquirenti di continuare a pagare in euro, così rispettando formalmente i contratti. Gazprombank convertirà poi automaticamente gli euro in rubli, trasferendoli sul conto aperto dai Paesi europei. Quando Gazprom avrà ricevuto il pagamento in rubli, erogherà le forniture di gas. Entro dieci giorni la Banca centrale russa dovrà definire le regole per i conti speciali in valuta destinati ai Paesi acquirenti di gas. Questo precisa il decreto. Come si può ben capire, il nodo del contendere non sta tanto nella diatriba «mi paghi in rubli - no, ti pago in euro». Bensì in «mi consegni gli euro a Mosca - no, io gli euro te li lascio presso Gazprombank, ma a Lussemburgo». In altre parole, non cambia la valuta di regolamento, che di fatto rimane l’euro. Bensì la piazza dove questi euro vengono consegnati. Mosca, non più Lussemburgo. Non è un dettaglio di lana caprina. Mosca non vuole correre il rischio che, con l’eventuale prolungamento del conflitto, l’Occidente possa inasprire le sanzioni, bloccando i depositi in valuta estera di Gazprom presso Gazprombank in Lussemburgo. E quindi presso la Bce. I nuovi depositi in valuta estera, stoccati presso la Banca centrale russa, non potranno essere congelati come i 300 miliardi di riserve. Ecco perché vincono tutti: i Paesi Ue potrebbero continuare a dire che pagano in euro. Non saranno cioè le banche occidentali a bussare alla Banca centrale russa per convertire gli euro nei rubli per poi pagare il gas. Lo farà Gazprombank per loro. E non la filiale in Lussemburgo, aggredibile da possibili ulteriori sanzioni, bensì Gazprombank di Mosca. Intanto, per acquistare un dollaro servono 81 rubli. Addirittura, meno degli 83 che si dovevano sborsare prima dell’inizio della guerra. La Borsa di Mosca ha chiuso in rialzo di quasi l’8%. Putin lascia comunque aperta la porta del dialogo. Il decreto prevede la possibilità che alcuni pagamenti non siano effettuati in rubli. Tali eccezioni - spiega la Tass - saranno individuate da una commissione governativa che vigila sugli investimenti stranieri. Putin, quindi, ha dato istruzione di approvare la procedura di autorizzazione entro dieci giorni. In pratica, con questa postilla, Mosca ci dice che applicherà la sua legge per i nemici oppure la interpreterà per gli amici.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/metano-euro-gazprom-putin-sanzioni-2657073802.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lelection-day-spinge-i-referendum" data-post-id="2657073802" data-published-at="1648755687" data-use-pagination="False"> L’election day spinge i referendum Formalmente sarà un election day, ma per arrivare al quorum bisognerà comunque sudare. Il Consiglio dei ministri di ieri ha stabilito che i cinque referendum promossi dai radicali e dalla Lega sulla giustizia e ammessi dalla Consulta si dovranno tenere il prossimo 12 giugno, contestualmente al primo turno delle amministrative. Una tornata elettorale di assoluto rilievo poiché interesserà circa 1.000 Comuni, tra cui 24 capoluoghi di provincia e quattro capoluoghi di Regione, per un totale di otto milioni e mezzo di elettori interpellati. Un booster verso l’obiettivo perseguito dai promotori dei referendum, dunque, che non garantisce però il raggiungimento della fatidica soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto. La decisione dell’esecutivo è stata accolta positivamente dal leader leghista Matteo Salvini, che aveva cominciato a pressare Palazzo Chigi e il Viminale in questo senso già all’indomani dell’ammissione dei quesiti. Arrivando in Senato per partecipare all’importante seduta in cui si discuteva il dl Ucraina, Salvini ha dichiarato di essere «contento che hanno ascoltato la Lega», aggiungendo che «si risparmieranno 200 milioni» e che «con i soldi risparmiati per con l’election day chiederemo ulteriori tagli per le bollette». Quanto al merito dei contenuti, questi riguarderanno esclusivamente materia di giustizia: uno chiede l’abrogazione della norma della legge Severino, che prevede la sospensione fino a 18 mesi di una carica comunale, regionale e parlamentare anche in caso di una condanna in primo grado, mentre un secondo riguarda il restringimento dei casi in cui un magistrato può ricorrere alla carcerazione preventiva. Su questo quesito, all’interno del centrodestra, ha manifestato delle perplessità Fratelli d’Italia, mentre sono tutti d’accordo sul sì alla separazione delle carriere dei magistrati, che dovranno scegliere a inizio carriera se vorranno far parte della magistratura giudicante o di quella requirente, senza poi poter più cambiare. Un altro punto su cui saranno interpellati gli elettori è quello del sistema elettorale del Csm, per il quale i promotori del referendum chiedono di abrogare la norma che obbliga un candidato a trovare una corrente che lo sostenga, mentre a chiudere la rosa dei quesiti c’è quello che fornirebbe, se approvato, agli avvocati la possibilità di esprimersi sulla professionalità dei magistrati nei Consigli giudiziari. Non è stato invece ammesso a suo tempo dai giudici costituzionali il quesito probabilmente più incisivo e inviso alle toghe tra quelli proposti dai comitati referendari, e cioè quello che avrebbe introdotto, con la vittoria del sì, la responsabilità personale dei magistrati in caso di errori giudiziari. Sempre tra quelli esclusi, ci sono i due quesiti che hanno suscitato più clamore mediatico e polemiche politiche, vale a dire quelli su eutanasia e liberalizzazione della cannabis, respinti - come ha spiegato di persona il presidente della Consulta, Giuliano Amato - a causa dell’incoerenza della formulazione.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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