2021-08-12
Messi al Psg è una stella che brilla di meno
Al Khelaifi, Messi, Leonardo (Getty Images)
Al Barcellona Leo non ha solo vinto, ma anche creato tanti problemi sia economici sia nello spogliatoio, dove faceva saltare come birilli compagni e allenatori. Aveva persino mollato la nazionale dopo una sconfitta. È il più forte ma con molte ombre. Quando Gianni Brera doveva raccontare le prodezze di Fausto Coppi, iniziò con l'esaltarne i difetti fisici, tratto distintivo di una normalità solo apparente: «Così l'ha fatto il buon Dio che se tu lo vedi all'impiedi, uomo come tutti gli altri, costretto a mantenersi umilmente in equilibrio, la tua presunzione non se ne adonta». Si potrebbe dire qualcosa di analogo parlando della Pulce Leo Messi, sei Palloni d'oro, dominatore incontrastato di quest'era pallonara, uno scricciolo argentino all'apparenza innocuo, in un agone sportivo sempre più muscolare, e però dotato di un piede fatato che rende lampante un'evidenza: ci sono fuoriclasse che fanno cose che gli altri atleti non riescono a fare, e ci sono fuoriclasse che inventano cose che gli altri atleti non riescono nemmeno a pensare. Messi appartiene alla seconda categoria. La rapidità di pensiero e la lucidità nel renderlo atto puro sono la chiave di quel suo talentaccio inarrivabile. Poi però arriva qualche magagna, altrimenti non sarebbe umano, e persino chi del tutto umano non era, come il Pelide Achille, conservava nascosto un tallone capace di scalfirne l'invulnerabilità. Il tallone di Leo è principalmente caratteriale, questo momento storico in cui sta riempiendo le prime pagine della cronaca sportiva per il suo passaggio al Paris Saint Germain degli sceicchi - andrà a guadagnare 40 milioni di euro lordi per due anni di contratto - è forse il meno brillante della sua luccicante carriera. Messi arriva a Parigi perché il Barcellona, sua casa che l'ha accolto, cresciuto e trasformato in simbolo planetario, non poteva più garantirgli l'ingaggio faraonico a cui lo aveva abituato, complici le restrizioni sugli stipendi dei giocatori imposte dalla Liga spagnola. Salta subito all'occhio un particolare non trascurabile. La Pulce superdotata non indosserà la maglia numero 10, quella dei principi condottieri, come ci si sarebbe aspettato da uno della sua genia. Suo sarà il 30, il 10 rimane a Neymar. La ragione, dicono alcune malelingue, sta anche nel fatto che l'acquisto del campione argentino sia per i petrolieri qatarini un'ennesima figurina in un mosaico spaventosamente ricco, una bulimia mercatista consentita dalle bizzarre regole del Fair Play Finanziario Uefa, non una mossa strategica da pianificazione tattica sul lungo periodo. Nulla di vieta di pensare - di analogie ce ne sono molte - che il Psg di oggi possa trasformarsi nel Barcellona di domani, dunque in una società che, dopo anni di acquisti senza badare alla capienza del portafoglio, sarà costretta a un ridimensionamento inevitabile per non strozzarsi allo stesso banchetto in cui si è riempita la pancia. Ma questo lo si valuterà tra qualche tempo. Intanto destano curiosità alcuni dettagli. Da qualche stagione Leo non era più così decisivo alla corte dei catalani, anzi, pur deliziando i fan con le sue prodezze e i suoi record (unico calciatore ad aver vinto il Pallone d'oro per quattro volte consecutive, calciatore che ha siglato più gol, 50, nella Liga in un'unica stagione eccetera), sembra aver raggiunto una sorta di stallo agonistico con la maglia blaugrana. Con la casacca della nazionale argentina la faccenda è un pelino migliorata, specie dopo aver conquistato la Copa America. Ma quanta fatica, reggere il peso del paragone col divo Diego Armando Maradona nella terra di Buenos Aires. «Leo non sarà mai decisivo come lo è stato Diego», scrivevano alcuni tifosi sudamericani sui social nel 2016, dopo quel rigore sbagliato nella finale di Copa America contro il Cile che costò all'Albiceleste una bruciante sconfitta. Fu in quell'occasione che lui, a soli 29 anni, decise di abbandonare la selezione del suo Paese, almeno temporaneamente, dopo 113 presenze, 55 gol, i Mondiali falliti nel 2010, 2014, sfuggiti come le numerose competizioni continentali. «Si tratta di un momento duro per me e per tutta la squadra. Avrei voluto tanto portare un titolo di campione in Argentina, me ne vado senza esserci riuscito, ho fatto tutto quello che potevo, abbiamo perso una finale ancora una volta, mi fa male, per di più ai rigori. La mia decisione è presa», disse quel giorno, a caldo, sfoderando qualche limite di personalità che il «Pibe de oro» mai avrebbe mostrato, a costo di giocare senza piedi e senza mano de Dios. E pensare che, quando si tratta di stabilire rapporti gerarchici con allenatori e compagni di squadra, si dice sappia trasformarsi in un leader con cui non è consentito il diritto di replica. Spulciando il racconto di un membro dello staff catalano del club nel libro Barça: The inside story of the world's greatest football club, scritto da Simon Kuper, si legge questo commento: «Messi sa che può far fuori chiunque. Non è in cerca di problemi, è un bravo ragazzo. Ma sa di avere il potere e non dimentica uno sgarbo subito». Juanma Castaño, firma di Cadena Cope, lo definì addirittura un tiranno, capace di conquistarsi il rispetto incutendo timore nei compagni: «Messi non è stato un leader, ha imposto le sue regole nello spogliatoio. E c'è gente in questo spogliatoio che ha sofferto con Messi», sostiene il giornalista, spiegando come il campione sia solito scegliersi un drappello di compagni con cui formare uno zoccolo duro. Per carità, si tratta di peculiarità tipiche di molti uomini di genio, spesso poco inclini a quei compromessi in grado di sporcarne l'aura. Ma sarà interessante osservare che cosa accadrà in seno alla compagine parigina, a tutti gli effetti diventata una squadra dei sogni con le figurine più pregiate di quest'epoca in cui Leo, forte della sua leggenda, avrà modo di zampettare con la sua grazie, le sue croci, le sue delizie.
Getty Images
Le manifestazioni guidate dalla Generazione Z contro corruzione e nepotismo hanno provocato almeno 23 morti e centinaia di feriti. In fiamme edifici istituzionali, ministri dimissionari e coprifuoco imposto dall’esercito mentre la crisi politica si aggrava.
La Procura di Torino indaga su un presunto sistema di frode fiscale basato su appalti fittizi e somministrazione irregolare di manodopera. Nove persone e dieci società coinvolte, beni sequestrati e amministrazione giudiziaria di una società con 500 dipendenti.