Quando Gianni Brera doveva raccontare le prodezze di Fausto Coppi, iniziò con l'esaltarne i difetti fisici, tratto distintivo di una normalità solo apparente: «Così l'ha fatto il buon Dio che se tu lo vedi all'impiedi, uomo come tutti gli altri, costretto a mantenersi umilmente in equilibrio, la tua presunzione non se ne adonta». Si potrebbe dire qualcosa di analogo parlando della Pulce Leo Messi, sei Palloni d'oro, dominatore incontrastato di quest'era pallonara, uno scricciolo argentino all'apparenza innocuo, in un agone sportivo sempre più muscolare, e però dotato di un piede fatato che rende lampante un'evidenza: ci sono fuoriclasse che fanno cose che gli altri atleti non riescono a fare, e ci sono fuoriclasse che inventano cose che gli altri atleti non riescono nemmeno a pensare. Messi appartiene alla seconda categoria. La rapidità di pensiero e la lucidità nel renderlo atto puro sono la chiave di quel suo talentaccio inarrivabile. Poi però arriva qualche magagna, altrimenti non sarebbe umano, e persino chi del tutto umano non era, come il Pelide Achille, conservava nascosto un tallone capace di scalfirne l'invulnerabilità. Il tallone di Leo è principalmente caratteriale, questo momento storico in cui sta riempiendo le prime pagine della cronaca sportiva per il suo passaggio al Paris Saint Germain degli sceicchi - andrà a guadagnare 40 milioni di euro lordi per due anni di contratto - è forse il meno brillante della sua luccicante carriera. Messi arriva a Parigi perché il Barcellona, sua casa che l'ha accolto, cresciuto e trasformato in simbolo planetario, non poteva più garantirgli l'ingaggio faraonico a cui lo aveva abituato, complici le restrizioni sugli stipendi dei giocatori imposte dalla Liga spagnola. Salta subito all'occhio un particolare non trascurabile. La Pulce superdotata non indosserà la maglia numero 10, quella dei principi condottieri, come ci si sarebbe aspettato da uno della sua genia. Suo sarà il 30, il 10 rimane a Neymar. La ragione, dicono alcune malelingue, sta anche nel fatto che l'acquisto del campione argentino sia per i petrolieri qatarini un'ennesima figurina in un mosaico spaventosamente ricco, una bulimia mercatista consentita dalle bizzarre regole del Fair Play Finanziario Uefa, non una mossa strategica da pianificazione tattica sul lungo periodo. Nulla di vieta di pensare - di analogie ce ne sono molte - che il Psg di oggi possa trasformarsi nel Barcellona di domani, dunque in una società che, dopo anni di acquisti senza badare alla capienza del portafoglio, sarà costretta a un ridimensionamento inevitabile per non strozzarsi allo stesso banchetto in cui si è riempita la pancia. Ma questo lo si valuterà tra qualche tempo. Intanto destano curiosità alcuni dettagli. Da qualche stagione Leo non era più così decisivo alla corte dei catalani, anzi, pur deliziando i fan con le sue prodezze e i suoi record (unico calciatore ad aver vinto il Pallone d'oro per quattro volte consecutive, calciatore che ha siglato più gol, 50, nella Liga in un'unica stagione eccetera), sembra aver raggiunto una sorta di stallo agonistico con la maglia blaugrana. Con la casacca della nazionale argentina la faccenda è un pelino migliorata, specie dopo aver conquistato la Copa America. Ma quanta fatica, reggere il peso del paragone col divo Diego Armando Maradona nella terra di Buenos Aires. «Leo non sarà mai decisivo come lo è stato Diego», scrivevano alcuni tifosi sudamericani sui social nel 2016, dopo quel rigore sbagliato nella finale di Copa America contro il Cile che costò all'Albiceleste una bruciante sconfitta. Fu in quell'occasione che lui, a soli 29 anni, decise di abbandonare la selezione del suo Paese, almeno temporaneamente, dopo 113 presenze, 55 gol, i Mondiali falliti nel 2010, 2014, sfuggiti come le numerose competizioni continentali. «Si tratta di un momento duro per me e per tutta la squadra. Avrei voluto tanto portare un titolo di campione in Argentina, me ne vado senza esserci riuscito, ho fatto tutto quello che potevo, abbiamo perso una finale ancora una volta, mi fa male, per di più ai rigori. La mia decisione è presa», disse quel giorno, a caldo, sfoderando qualche limite di personalità che il «Pibe de oro» mai avrebbe mostrato, a costo di giocare senza piedi e senza mano de Dios. E pensare che, quando si tratta di stabilire rapporti gerarchici con allenatori e compagni di squadra, si dice sappia trasformarsi in un leader con cui non è consentito il diritto di replica. Spulciando il racconto di un membro dello staff catalano del club nel libro Barça: The inside story of the world's greatest football club, scritto da Simon Kuper, si legge questo commento: «Messi sa che può far fuori chiunque. Non è in cerca di problemi, è un bravo ragazzo. Ma sa di avere il potere e non dimentica uno sgarbo subito». Juanma Castaño, firma di Cadena Cope, lo definì addirittura un tiranno, capace di conquistarsi il rispetto incutendo timore nei compagni: «Messi non è stato un leader, ha imposto le sue regole nello spogliatoio. E c'è gente in questo spogliatoio che ha sofferto con Messi», sostiene il giornalista, spiegando come il campione sia solito scegliersi un drappello di compagni con cui formare uno zoccolo duro. Per carità, si tratta di peculiarità tipiche di molti uomini di genio, spesso poco inclini a quei compromessi in grado di sporcarne l'aura. Ma sarà interessante osservare che cosa accadrà in seno alla compagine parigina, a tutti gli effetti diventata una squadra dei sogni con le figurine più pregiate di quest'epoca in cui Leo, forte della sua leggenda, avrà modo di zampettare con la sua grazie, le sue croci, le sue delizie.
Nelle avventure di cappa e spada del capitano Alatriste - raccontate dai romanzi dello scrittore Arturo Pérez-Reverte e portate sullo schermo da Viggo Mortensen -, si descrive l'apogeo e il declino del glorioso «tercio»: unità scelta dell'esercito spagnolo nel XVI e XVII secolo, era formata da fanti senza paura, invincibili. Solo l'avvento di più moderne tecniche belliche decretò la fine di quell'impavido modo di battersi sul campo. I fanti lo accettarono loro malgrado, erano pur sempre uomini consci dello scorrere del tempo. Gli dèi della mitologia non lo avrebbero mandato giù. Divinità simili a Leo Messi e Cristiano Ronaldo, per esempio.
Sul campo di battaglia della Champions League, martedì e mercoledì, i due fenomeni del calcio non hanno brillato, anzi. Cr7 si è roso il fegato per tutta la partita contro un manipolo di connazionali, l'abbordabile Porto, e non è riuscito a salvare la sua Juventus da una sconfitta per 2-1 che non compromette la qualificazione, ma di sicuro logora il morale. Ci sono voci che raccontano quanto il fuoriclasse portoghese fosse imbufalito a fine partita coi compagni. Ma pure con l'arbitro. A pochi secondi dal fischio finale, ha dribblato un avversario con tacco a rientrare, Mbemba non si è frenato, lo ha toccato con il ginocchio e il lusitano è andato giù. Il direttore di gara ha fatto cenno di proseguire, niente rigore, e però Cristiano non l'ha digerita, sfoderando il suo nervosismo in diverse proteste.
A Messi è andata peggio. Sigla il rigore del temporaneo vantaggio del suo Barcellona sul Paris Saint-Germain, indicando ai suoi una strada in discesa. Poi succede il finimondo. Kylian Mbappé si scatena, fa cose da cineteca, corre come un ghepardo tarantolato, piazza tre pappine al Camp Nou, e il match finisce 4-1 per i francesi.
C'è già chi si interroga su quanto possa valere, il talento transalpino, alla luce delle recenti prodezze. Gli esperti di mercato lo valuterebbero intorno ai 200 milioni di euro, o comunque gli accosterebbero cifre non distanti dal famigerato rinnovo contrattuale di Leo Messi in Catalogna per 500 milioni in quattro anni. I tifosi dell'Arsenal hanno di che mangiarsi le mani. Pare che Kylian stesse per accasarsi da loro, prima di approdare al Psg: «Ero a casa sua quando era indeciso se prolungare il suo contratto con il Monaco, sarebbe potuto venire all'Arsenal gratuitamente», ha dichiarato Arsène Wenger, a lungo guida tecnica dei londinesi.
Intendiamoci. Messi, 33 anni, e Cr7, 36 anni, sono ancora i re della savana del pallone. Eguagliare quel che stanno facendo pure in questo periodo sarebbe dura per tutti. Sebbene mercoledì sia andato in scena un inedito: i due campioni hanno avuto modo di viaggiare con la macchina del tempo, e rispecchiarsi in due ragazzini prodigio che in un futuro non troppo lontano domineranno il palcoscenico, sfidandosi a suon di Palloni d'oro, come fanno loro adesso. Uno è proprio Mbappé: 21 presenze in Ligue 1 quest'anno, 16 gol e 2 assist, 6 presenze in Champions e 5 reti, di cui tre pesantissime. L'altro è il gioiellino norvegese Erling Haaland. Per lui doppietta nella partita vinta mercoledì per 3-2 dal suo Borussia Dortmund in casa del Siviglia, dominando in lungo e in largo l'area di rigore come avrebbe dovuto fare Ronaldo contro il Porto.
Ironia della sorte: Haaland è stato molto vicino a indossare la maglia della Juventus prima di accasarsi in Germania. La dirigenza bianconera pare non volesse accollarsi commissioni eccessive, ma non è detta l'ultima parola. Potrebbe essere questo fusto biondissimo con l'aria diligente di uno scolaretto (l'ultimo accostamento tra un calciatore e un bravo studentello fu nei confronti di Ricardo Kaká, e il destino sa come andò la sua carriera) a raccogliere il testimone nell'attacco juventino del futuro. 41 gol in 42 partite con la maglia giallonera del Dortmund, ma se si restringe il perimetro alla Champions, ha segnato 18 gol in 13 partite (compresi i gettoni con il Salisburgo).
Il ventenne scandinavo fa una vita da frate trappista: dorme 7 ore per notte, si sveglia presto alla mattina per fare jogging, rifugge come la peste zuccheri e carboidrati raffinati, mangia cibi proteici, frutta e verdura, dice, «per abbassare il più possibile gli stati infiammatori dell'organismo e garantire un equilibrio ormonale corretto, come spiega il guru Dave Asprey». Fa yoga alla sera e legge buoni libri per scaricare la tensione agonistica. Sono precetti che funzionano a ogni età: per personaggi come Mbappé e Haaland, sono utili a innescare un potenziale che attende solo di essere lanciato a briglia sciolta. Per giocatori consolidati e over 30 come Messi, il maniaco del lavoro Cr7, ma anche Zlatan Ibrahimovic, per facilitare il recupero muscolare dopo lo sforzo e ottimizzare le prestazioni, a dispetto di un'anagrafe non più clemente. Sono questi, del resto, alcuni dei nomi formidabili con cui raccontare il presente e prevedere il futuro del pallone. Atleti affamati, in un'era, quella del Covid, di staffetta generazionale. Gli eroi di oggi cominciano a intravedere l'arrivo di quelli di domani. Il «tercio» sa che niente dura per sempre, eccetto il filtro celebrativo della Storia.




