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2021-02-28
Il mestiere delle armi: i mercenari italiani in Congo (1961-1967)
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Mercenari italiani in Congo nel 1966. Da sinistra Varani, Simonetti, Ciccodicola e Robert Muller (courtesy Ippolito Edmondo Ferrario)
La storia e le immagini dei mercenari italiani che parteciparono alle lotte durante la crisi del Congo, coinvolti nella guerra civile interna seguita alla decolonizzazione alla quale si erano sovrapposte le pressioni internazionali delle due superpotenze al culmine della Guerra fredda.
Gli esordi dei soldati di ventura in Congo (1961-1964)
La presenza di mercenari italiani durante la lunga crisi del Congo può essere divisa in due fasi: la prima, durante la quale la presenza di volontari italiani fu estremamente ridotta è quella che partì dalla dichiarazione di indipendenza del Congo del luglio 1960 al colpo di stato del generale Joseph Désiré Mobutu, già Capo di Stato Maggiore del premier Patrick Lumumba, filosovietico. Alla fine della dominazione belga il territorio del Congo si era spaccato politicamente attorno alle figure di quattro leader che crearono una situazione di estrema instabilità politica che sfociò presto in una guerra civile. I quattro erano il primo presidente Kasa-Vubu, il premier Lumumba, Il generale Mobutu e Moisé Tchombè. Quest'ultimo si mise a capo di una rivolta che mirava all'indipendenza del Katanga, regione ricchissima di giacimenti di minerali preziosi e sostenuto dai Belgi e dai coloni che volevano mantenere i propri possedimenti e interessi nella regione. Per arginare le violenze l'Onu inviò una forza internazionale con la missione ONUC (Organisation des Nations Unies au Congo) alla quale partecipò anche un contingente della 46a Aerobrigata dall'Aeronautica Militare Italiana, passata tristemente alle cronache per il massacro di 13 aviatori barbaramente uccisi all'aeroporto di Kindu l'11 novembre 1961.
In questa prima fase della crisi del Congo le forze mercenarie europee furono chiamate da Tchombé a supporto della resistenza all'esercito regolare congolese (ANC), coordinate inizialmente dal colono belga Jean Schramme che organizzò il primo contingente di "affreux" (letteralmente "i terribili"), i mercenari di lingua francese, assieme a Bob Denard, un reduce francese dell'Algeria e dell'Indocina. Questo primo contingente di volontari al fianco dei katanghesi di Tschombé fu inizialmente formato da parte di regolari belgi che passarono nelle file dei mercenari supportati tra gli altri anche dalla ricchissima Union des Minieres du Katanga. I nemici dei sostenitori di Tschombé erano molteplici. Non soltanto i "lumumbisti" governativi che si opponevano alla secessione del Katanga, ma anche il contingente Onu e la tribù dei Baluba, che si opponevano dall'interno ad un Katanga Indipendente. La prima fase della guerriglia mercenaria in Katanga durò poco, cioè fino al 1961 quando il generale Mobutu fece arrestare ed in seguito uccidere il leader di ispirazione marxista Lumumba, prendendo di fatto il potere in Congo e, in accordo con le truppe internazionali, impose l'espulsione dal Katanga delle truppe mercenarie e l'esilio di Tschombé in Spagna. In questa prima fase la presenza italiana tra le file dei mercenari fu estremamente ridotta. Tra i ranghi della "Compagnie Internationale" voluta da Tschombé e organizzata dal sudafricano di origini scozzesi Scott Russell Cargill i nomi italiani sono soltanto tre: Primo Belletto, Luigi D'Annunzio, Mario Ragazzi. Poco o nulla si sa delle loro storie: soltanto in un occasione, due anni dopo i fatti, il Corriere della Sera racconta dell'epopea di cinque italiani mercenari rimasti appiedati nella giungla a seguito di un attacco di Malesi dell'ONUC e salvati in extremis da una misterioso connazionale che portava su una spalla le mostrine dell'esercito katanghese e dall'altra quelle degli Alpini. Coremìo (evidentemente un nome fittizio) era reduce dai combattimenti nel Kivu contro i lumumbisti del generale Gizenga, facendo persino da uomo esca su una piroga. Dalle notizie, sporadiche, sulla stampa nazionale pare che i primissimi volontari italiani in congo fossero stati tra i cinque e i dieci elementi, tutti segnalati nei casellari giudiziari italiani. I nomi di battaglia suonavano esotici: "Il Papaia, il Negrito, Gin, Ulisse". I loro nomi di battaglia si perdono nel cuore della giungla alla fine del 1961 quando la situazione del Congo parve a una svolta, con le vittorie dei governativi affiancati dalle forze ONUC che resero sempre più remota l'idea di un Katanga indipendente, sostituita dalla realtà di uno stato unitario e fortemente centralizzato con la presenza costante dei caschi blu dell'Onu, braccio armato delle Nazioni Unite che tra i banchi delle sessioni di New York si mostravano sempre più divise sulla questione della ex colonia belga. L'ombra della Guerra Fredda aveva coperto anche il palazzo di vetro e il Congo diventava un terreno di confronto tra i blocchi contrapposti. Il governo di Kasa Vubu e del capo di Stato Maggiore Mobutu fu lungi dal garantire la stabilità politica nazionale. Già nei mesi successivi i seguaci di Lumumba andavano riorganizzandosi militarmente con l'appoggio dell'Unione Sovietica e della Cina. Fu un uomo di Lumumba, Pierre Mulele, ad appiccare nuovamente il fuoco della guerra civile organizzando un vasto movimento filo-maoista tra le tribù dei Simba (tra le più misere e superstiziose del Paese) mirato a rovesciare Mobutu e trasformare la Nazione in una dittatura marxista.
La seconda ondata mercenaria e la lotta ai Simba (1964-1966)
Queste furono le premesse che portarono alla seconda ondata di reclutamenti di mercenari europei e sudafricani, iniziata nel 1964 e molto più numerosa ed organizzata rispetto alla prima fase del 1960-61. L'obiettivo era quello di salvare i civili europei e i molti preti e suore nelle missioni cinti d'assedio dalle schiere dei Simba, dei quali molti non riuscirono a salvarsi da massacri e torture indicibili portati a termine da quelle schiere di giovani e giovanissimi guerriglieri ammaliati dalla stregoneria che li avrebbe protetti con l'incantesimo della "dawa" (una magia per cui le pallottole del nemico sarebbero diventate acqua). Avanzavano a schiere, come sciami di formiche, inneggiando al loro capo militare urlando "Mulele Maji!!" (l'acqua di Mulele!) resi simili a zombie grazie all'effetto di droghe come il qàt, ricavato dalle foglie di un arbusto endemico ricco di alcaloidi che provocava uno stato di forte alterazione, sovreaccitamento e senso di immortalità. Questi effetti si videro chiaramente al culmine della rivolta dei Simba, quando Stanleyville fu occupata dalle truppe inneggianti al "dio Lumumba" nel settembre 1964. Armati dai Sovietici e dai Cinesi, incitati dagli stregoni alla distruzione di tutti i bianchi e i neri che considerassero nemici del popolo Simba, si produssero in orribili massacri che si spingevano fino al cannibalismo dei prigionieri che venivano sezionati vivi e venduti come carne da macello. Questo fu il destino riservato alle vittime dell'odio Simba, che bianchi, neri, laici e religiosi delle missioni dovettero subire.
I mercenari italiani
Nello stesso momento in cui il Congo viveva i suoi giorni peggiori, a Milano un gruppo di giovani si ritrova a discutere al Bar Bacco, un locale di Corso Vercelli considerato una sorta di "porto franco" dove si confrontano habitué che andavano dall'estrema destra neonazista, ai giovani democristiani, ai maoisti. La situazione del Congo era sulla bocca di tutti, non soltanto per le opinioni divergenti che riflettevano gli effetti della guerra fredda nella remota nazione dell'Africa occidentale, ma anche perché la guerra civile del Congo aveva toccato l'Italia da vicino, per l'orribile strage dei 13 aviatori all'aeroporto di Kindu di tre anni prima. La delusione per l'inconsistente risposta delle forze internazionali e soprattutto dei politici italiani di fronte all'orrore era pressoché totale. Per molti di quei giovani, in particolare modo per gli esponenti dell'estrema destra, quell'immobilismo era suonato come un grave disonore per l'Italia. La voglia di vendicare i 13 martiri di Kindu, che l'ONUC non aveva saputo proteggere, era tanta. Così come la spinta ad intervenire nella lotta internazionale contro il dilagare delle spinte marxiste nel terzo mondo, di cui si erano fatti promotori sul campo figure preminenti come Ernesto "Che" Guevara, presente in Congo con un piccolo contingente militare cubano con l'intento di insegnare i princìpi della revoluciòn ai Simba i ribelli durante il 1965. L'azione fallì proprio per la scarsa attitudine dei ribelli a recepire teorie politiche a loro completamente ignote e a causa delle divisioni tribali contro le quali si infrangevano i sogni di una spinta rivoluzionaria unitaria (i Simba consideravano infatti ogni forma di intellettualismo ed istruzione una caratteristica del nemico anche tra gli esponenti nativi). Molti dei giovani italiani che scelsero di affiancare gli affreux mostravano una forte insofferenza verso i valori dominanti di quello che oggi definiremmo il "mainstream", che allora era rappresentato dal conformismo e dai valori consumistici dell'occidente postbellico e dell'Italia del boom economico. In buona sostanza essere mercenari significava una possibilità di lasciarsi alle spalle il materialismo occidentale per concorrere a formare una nuova patria in terra africana, con il sogno di un nuovo Katanga indipendente.
La frequentazione di molti tra i giovani milanesi (e non solo) dell'associazione d'arma dei paracadutisti, l'ANPd'I, fece il resto. Nelle sezioni i giovani parà incontravano i vecchi che avevano fatto la guerra. E non soltanto, come si potrebbe facilmente immaginare, quelli che avevano combattuto nelle file della Repubblica Sociale ma anche i paracadutisti che avevano risalito la penisola combattendo a fianco degli Alleati con l'Esercito del Sud. Il clima che si respirava in associazione, dicono i testimoni, era quello di una voglia di azione e di intervento che di sicuro le beghe interne al Movimento Sociale "inchiodato" al parlamentarismo soffocavano nei giovani di destra. Tra i racconti dei vecchi di El Alamein, i lanci e le partenze per il servizio militare nei Paracadutisti il Congo dei nuovi mercenari offrì a diversi ragazzi l'opportunità di mettere in pratica sul campo quella tensione all'avventura, all'azione, all'eroismo romantico misti alla tipica "incoscienza dei vent'anni". La decisione di partire per il fronte dei mercenari fu in tanti casi spontanea, e comprendeva ragazzi che venivano da ambienti sociali eterogenei come da diverse esperienze personali. Tra di loro vi erano alcuni pronti ad imbracciare le armi dopo una crisi coniugale o anche casi di malati di cancro che videro il Congo come il luogo dove trovare la "bella morte". Il reclutamento non era poi difficile, come raccontato da testimoni come Robert Muller e Giordano "Nony" Simonetti nel libro di Ippolito Edmondo Ferrario "Mercenari- gli italiani in Congo" (Mursia) e nel successivo "Maktub: Congo- Yemen 1965-1969" scritto da Ferrario con lo stesso Muller (Ritter edizioni). A Bruxelles uscivano annunci di reclutamento sui giornali, e per diventare mercenario bastava recarsi con il libretto militare all'ambasciata del Congo dove avveniva la prima fase del reclutamento. Una volta idonei si partiva in aereo per Léopoldville (oggi Kinshasa) dove si trovava il quartier generale dei Commando (n.5 e 6). Dopo un'istruzione breve si partiva per le missioni, che consistevano soprattutto nella bonifica dai ribelli Simba, nella protezione di stabilimenti di proprietà straniera, nella liberazione di civili e religiosi prigionieri. Gli italiani, salvo qualche eccezione, furono inquadrati nel Commando 6 (o 6 BCE "Bataillon des Commandos Etrangers) di lingua francese comandato dal "vecchio" Bob Denard, francese ex incursore della Marine Nazionale, presente in Congo dal 1961. Le storie raccontate da Robert Muller nei libri di Ferrario riguardano soprattutto l'anno 1966, quando la lotta dei mercenari contro i Simba si era combattuta con la collaborazione dell'ANC (Armée Nazionale Congolaise) di Mobutu. Il loro gruppo era stato destinato alla valle del Ruzizi al confine con il Ruanda, una delle zone considerate più a rischio per la presenza nutrita di ribelli. I due italiani parteciperanno anche alla difesa dello zuccherificio SUCRAF di proprietà di un nobile belga, attaccata in massa dai ribelli Simba che riuscirono a portare a termine un terribile massacro di civili prima di essere a loro volta annientati dalle armi mercenarie. Qui le storie dei due italiani si incrociano con quelle di altri connazionali soldati di ventura. Sono le vite di Italo Zambon, uno dei volontari italiani più noti tra gli affreux di Bob Denard. Veneziano, ex parà della Folgore, che combatte già nel 1965 nella zona di Paulis, a nord ovest del Congo. Morirà falciato da una mitragliatrice pesante a Bakavu per mano degli ex alleati dell'esercito di Mobutu. Stesso destino che toccherà ad altri due italiani: Aldo Prina, Gabriele Baldisseri e Antonio Pedersoli, torturati e fatti a pezzi a Léopoldville nel luglio 1967. E anche la storia di Pier Giorgio Norbiato, un incursore di Marina che si distinse in Congo per le operazioni anfibie e troverà la morte più tardi come mercenario in Biafra. E anche quella di Tullio Moneta, uno dei pochi italiani nel 5°BCE degli anglosassoni, quello che ispirò il famoso film "I quattro dell'oca selvaggia".
Proprio il 1967 fu l'annus horribilis per i mercenari in Congo, a causa dei rivolgimenti interni ed internazionali che seguirono l'evoluzione della guerra civile nel paese africano. I mercenari non avevano mai smesso di credere ad un Katanga indipendente nonostante l'esilio di Tschombé e l'appoggio decisivo degli Stati Uniti al regime di Mobutu in funzione antisovietica e favorevole ad un Congo unito e pacificato con il pugno di ferro. La situazione precipitò quando l'esiliato leader katanghese fu attratto in una trappola. Durante uno spostamento alle Canarie dall'esilio Spagnolo, l'aereo del leader fu dirottato ad Algeri dai servizi segreti francesi e imprigionato nella capitale, dove morirà nel 1969. Tolto di mezzo l'avversario più pericoloso, il dittatore Mobutu decise di dare un ulteriore giro di vite, dichiarando la volontà di nazionalizzare le imprese a capitale europeo e quella di cacciare i mercenari bianchi diventati ormai motivo di imbarazzo nei confronti degli altri Stati africani e degli alleati internazionali. Nacque così una nuova guerra, nota come la rivolta dei mercenari che vide contrapposti i due ex alleati nella lotta ai marxisti Simba. Già l'anno precedente gli uomini di ventura avevano cercato di rovesciare, senza successo, il dittatore congolese nella speranza che un imminente ritorno di Tschombé potesse ridare vita al nuovo sogno di indipendenza katanghese. La cattura di quest'ultimo e l'ostilità aperta di Mobutu fece scoccare la scintilla dell'ammutinamento degli uomini di Jean Schramme, Mad Mike Hoare e Bob Denard. Asserragliati a Bukavu e Stanleyville resistettero per mesi agli assalti dei regolari congolesi, nonostante la sollevazione improvvisa non fosse riuscita ad evitare massacri di mercenari e civili a causa di evidenti difetti di comunicazione tra i reparti come a Léopoldville. La fine delle ostilità avvenne alla fine del 1967 quando le colonne di mercenari di Denard e Schramme seguite da migliaia di civili passarono i confini con l'Angola ed Il Ruanda, dove i soldati di ventura furono internati per diversi mesi prima dell'intervento di una missione della Croce Rossa Internazionale per il loro rimpatrio.
Il 25 aprile 1968 un volo della compagnia olandese Transavia toccava la pista dell'aeroporto di Pisa-San Giusto. Dal charter noleggiato della Croce Rossa apparve un gruppo di uomini emaciati, le barbe lunghe, contrastati nell'aspetto dagli abiti sgargianti delle loro compagne congolesi. Erano gli ultimi volontari italiani rilasciati dopo le lunghe trattative con il governo ruandese. Ad attenderli a bordo pista, gli uomini della Digos.
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La storia e le immagini dei mercenari italiani che parteciparono alle lotte durante la crisi del Congo, coinvolti nella guerra civile interna seguita alla decolonizzazione alla quale si erano sovrapposte le pressioni internazionali delle due superpotenze al culmine della Guerra fredda.Gli esordi dei soldati di ventura in Congo (1961-1964)La presenza di mercenari italiani durante la lunga crisi del Congo può essere divisa in due fasi: la prima, durante la quale la presenza di volontari italiani fu estremamente ridotta è quella che partì dalla dichiarazione di indipendenza del Congo del luglio 1960 al colpo di stato del generale Joseph Désiré Mobutu, già Capo di Stato Maggiore del premier Patrick Lumumba, filosovietico. Alla fine della dominazione belga il territorio del Congo si era spaccato politicamente attorno alle figure di quattro leader che crearono una situazione di estrema instabilità politica che sfociò presto in una guerra civile. I quattro erano il primo presidente Kasa-Vubu, il premier Lumumba, Il generale Mobutu e Moisé Tchombè. Quest'ultimo si mise a capo di una rivolta che mirava all'indipendenza del Katanga, regione ricchissima di giacimenti di minerali preziosi e sostenuto dai Belgi e dai coloni che volevano mantenere i propri possedimenti e interessi nella regione. Per arginare le violenze l'Onu inviò una forza internazionale con la missione ONUC (Organisation des Nations Unies au Congo) alla quale partecipò anche un contingente della 46a Aerobrigata dall'Aeronautica Militare Italiana, passata tristemente alle cronache per il massacro di 13 aviatori barbaramente uccisi all'aeroporto di Kindu l'11 novembre 1961. In questa prima fase della crisi del Congo le forze mercenarie europee furono chiamate da Tchombé a supporto della resistenza all'esercito regolare congolese (ANC), coordinate inizialmente dal colono belga Jean Schramme che organizzò il primo contingente di "affreux" (letteralmente "i terribili"), i mercenari di lingua francese, assieme a Bob Denard, un reduce francese dell'Algeria e dell'Indocina. Questo primo contingente di volontari al fianco dei katanghesi di Tschombé fu inizialmente formato da parte di regolari belgi che passarono nelle file dei mercenari supportati tra gli altri anche dalla ricchissima Union des Minieres du Katanga. I nemici dei sostenitori di Tschombé erano molteplici. Non soltanto i "lumumbisti" governativi che si opponevano alla secessione del Katanga, ma anche il contingente Onu e la tribù dei Baluba, che si opponevano dall'interno ad un Katanga Indipendente. La prima fase della guerriglia mercenaria in Katanga durò poco, cioè fino al 1961 quando il generale Mobutu fece arrestare ed in seguito uccidere il leader di ispirazione marxista Lumumba, prendendo di fatto il potere in Congo e, in accordo con le truppe internazionali, impose l'espulsione dal Katanga delle truppe mercenarie e l'esilio di Tschombé in Spagna. In questa prima fase la presenza italiana tra le file dei mercenari fu estremamente ridotta. Tra i ranghi della "Compagnie Internationale" voluta da Tschombé e organizzata dal sudafricano di origini scozzesi Scott Russell Cargill i nomi italiani sono soltanto tre: Primo Belletto, Luigi D'Annunzio, Mario Ragazzi. Poco o nulla si sa delle loro storie: soltanto in un occasione, due anni dopo i fatti, il Corriere della Sera racconta dell'epopea di cinque italiani mercenari rimasti appiedati nella giungla a seguito di un attacco di Malesi dell'ONUC e salvati in extremis da una misterioso connazionale che portava su una spalla le mostrine dell'esercito katanghese e dall'altra quelle degli Alpini. Coremìo (evidentemente un nome fittizio) era reduce dai combattimenti nel Kivu contro i lumumbisti del generale Gizenga, facendo persino da uomo esca su una piroga. Dalle notizie, sporadiche, sulla stampa nazionale pare che i primissimi volontari italiani in congo fossero stati tra i cinque e i dieci elementi, tutti segnalati nei casellari giudiziari italiani. I nomi di battaglia suonavano esotici: "Il Papaia, il Negrito, Gin, Ulisse". I loro nomi di battaglia si perdono nel cuore della giungla alla fine del 1961 quando la situazione del Congo parve a una svolta, con le vittorie dei governativi affiancati dalle forze ONUC che resero sempre più remota l'idea di un Katanga indipendente, sostituita dalla realtà di uno stato unitario e fortemente centralizzato con la presenza costante dei caschi blu dell'Onu, braccio armato delle Nazioni Unite che tra i banchi delle sessioni di New York si mostravano sempre più divise sulla questione della ex colonia belga. L'ombra della Guerra Fredda aveva coperto anche il palazzo di vetro e il Congo diventava un terreno di confronto tra i blocchi contrapposti. Il governo di Kasa Vubu e del capo di Stato Maggiore Mobutu fu lungi dal garantire la stabilità politica nazionale. Già nei mesi successivi i seguaci di Lumumba andavano riorganizzandosi militarmente con l'appoggio dell'Unione Sovietica e della Cina. Fu un uomo di Lumumba, Pierre Mulele, ad appiccare nuovamente il fuoco della guerra civile organizzando un vasto movimento filo-maoista tra le tribù dei Simba (tra le più misere e superstiziose del Paese) mirato a rovesciare Mobutu e trasformare la Nazione in una dittatura marxista.La seconda ondata mercenaria e la lotta ai Simba (1964-1966)Queste furono le premesse che portarono alla seconda ondata di reclutamenti di mercenari europei e sudafricani, iniziata nel 1964 e molto più numerosa ed organizzata rispetto alla prima fase del 1960-61. L'obiettivo era quello di salvare i civili europei e i molti preti e suore nelle missioni cinti d'assedio dalle schiere dei Simba, dei quali molti non riuscirono a salvarsi da massacri e torture indicibili portati a termine da quelle schiere di giovani e giovanissimi guerriglieri ammaliati dalla stregoneria che li avrebbe protetti con l'incantesimo della "dawa" (una magia per cui le pallottole del nemico sarebbero diventate acqua). Avanzavano a schiere, come sciami di formiche, inneggiando al loro capo militare urlando "Mulele Maji!!" (l'acqua di Mulele!) resi simili a zombie grazie all'effetto di droghe come il qàt, ricavato dalle foglie di un arbusto endemico ricco di alcaloidi che provocava uno stato di forte alterazione, sovreaccitamento e senso di immortalità. Questi effetti si videro chiaramente al culmine della rivolta dei Simba, quando Stanleyville fu occupata dalle truppe inneggianti al "dio Lumumba" nel settembre 1964. Armati dai Sovietici e dai Cinesi, incitati dagli stregoni alla distruzione di tutti i bianchi e i neri che considerassero nemici del popolo Simba, si produssero in orribili massacri che si spingevano fino al cannibalismo dei prigionieri che venivano sezionati vivi e venduti come carne da macello. Questo fu il destino riservato alle vittime dell'odio Simba, che bianchi, neri, laici e religiosi delle missioni dovettero subire.I mercenari italianiNello stesso momento in cui il Congo viveva i suoi giorni peggiori, a Milano un gruppo di giovani si ritrova a discutere al Bar Bacco, un locale di Corso Vercelli considerato una sorta di "porto franco" dove si confrontano habitué che andavano dall'estrema destra neonazista, ai giovani democristiani, ai maoisti. La situazione del Congo era sulla bocca di tutti, non soltanto per le opinioni divergenti che riflettevano gli effetti della guerra fredda nella remota nazione dell'Africa occidentale, ma anche perché la guerra civile del Congo aveva toccato l'Italia da vicino, per l'orribile strage dei 13 aviatori all'aeroporto di Kindu di tre anni prima. La delusione per l'inconsistente risposta delle forze internazionali e soprattutto dei politici italiani di fronte all'orrore era pressoché totale. Per molti di quei giovani, in particolare modo per gli esponenti dell'estrema destra, quell'immobilismo era suonato come un grave disonore per l'Italia. La voglia di vendicare i 13 martiri di Kindu, che l'ONUC non aveva saputo proteggere, era tanta. Così come la spinta ad intervenire nella lotta internazionale contro il dilagare delle spinte marxiste nel terzo mondo, di cui si erano fatti promotori sul campo figure preminenti come Ernesto "Che" Guevara, presente in Congo con un piccolo contingente militare cubano con l'intento di insegnare i princìpi della revoluciòn ai Simba i ribelli durante il 1965. L'azione fallì proprio per la scarsa attitudine dei ribelli a recepire teorie politiche a loro completamente ignote e a causa delle divisioni tribali contro le quali si infrangevano i sogni di una spinta rivoluzionaria unitaria (i Simba consideravano infatti ogni forma di intellettualismo ed istruzione una caratteristica del nemico anche tra gli esponenti nativi). Molti dei giovani italiani che scelsero di affiancare gli affreux mostravano una forte insofferenza verso i valori dominanti di quello che oggi definiremmo il "mainstream", che allora era rappresentato dal conformismo e dai valori consumistici dell'occidente postbellico e dell'Italia del boom economico. In buona sostanza essere mercenari significava una possibilità di lasciarsi alle spalle il materialismo occidentale per concorrere a formare una nuova patria in terra africana, con il sogno di un nuovo Katanga indipendente.La frequentazione di molti tra i giovani milanesi (e non solo) dell'associazione d'arma dei paracadutisti, l'ANPd'I, fece il resto. Nelle sezioni i giovani parà incontravano i vecchi che avevano fatto la guerra. E non soltanto, come si potrebbe facilmente immaginare, quelli che avevano combattuto nelle file della Repubblica Sociale ma anche i paracadutisti che avevano risalito la penisola combattendo a fianco degli Alleati con l'Esercito del Sud. Il clima che si respirava in associazione, dicono i testimoni, era quello di una voglia di azione e di intervento che di sicuro le beghe interne al Movimento Sociale "inchiodato" al parlamentarismo soffocavano nei giovani di destra. Tra i racconti dei vecchi di El Alamein, i lanci e le partenze per il servizio militare nei Paracadutisti il Congo dei nuovi mercenari offrì a diversi ragazzi l'opportunità di mettere in pratica sul campo quella tensione all'avventura, all'azione, all'eroismo romantico misti alla tipica "incoscienza dei vent'anni". La decisione di partire per il fronte dei mercenari fu in tanti casi spontanea, e comprendeva ragazzi che venivano da ambienti sociali eterogenei come da diverse esperienze personali. Tra di loro vi erano alcuni pronti ad imbracciare le armi dopo una crisi coniugale o anche casi di malati di cancro che videro il Congo come il luogo dove trovare la "bella morte". Il reclutamento non era poi difficile, come raccontato da testimoni come Robert Muller e Giordano "Nony" Simonetti nel libro di Ippolito Edmondo Ferrario "Mercenari- gli italiani in Congo" (Mursia) e nel successivo "Maktub: Congo- Yemen 1965-1969" scritto da Ferrario con lo stesso Muller (Ritter edizioni). A Bruxelles uscivano annunci di reclutamento sui giornali, e per diventare mercenario bastava recarsi con il libretto militare all'ambasciata del Congo dove avveniva la prima fase del reclutamento. Una volta idonei si partiva in aereo per Léopoldville (oggi Kinshasa) dove si trovava il quartier generale dei Commando (n.5 e 6). Dopo un'istruzione breve si partiva per le missioni, che consistevano soprattutto nella bonifica dai ribelli Simba, nella protezione di stabilimenti di proprietà straniera, nella liberazione di civili e religiosi prigionieri. Gli italiani, salvo qualche eccezione, furono inquadrati nel Commando 6 (o 6 BCE "Bataillon des Commandos Etrangers) di lingua francese comandato dal "vecchio" Bob Denard, francese ex incursore della Marine Nazionale, presente in Congo dal 1961. Le storie raccontate da Robert Muller nei libri di Ferrario riguardano soprattutto l'anno 1966, quando la lotta dei mercenari contro i Simba si era combattuta con la collaborazione dell'ANC (Armée Nazionale Congolaise) di Mobutu. Il loro gruppo era stato destinato alla valle del Ruzizi al confine con il Ruanda, una delle zone considerate più a rischio per la presenza nutrita di ribelli. I due italiani parteciperanno anche alla difesa dello zuccherificio SUCRAF di proprietà di un nobile belga, attaccata in massa dai ribelli Simba che riuscirono a portare a termine un terribile massacro di civili prima di essere a loro volta annientati dalle armi mercenarie. Qui le storie dei due italiani si incrociano con quelle di altri connazionali soldati di ventura. Sono le vite di Italo Zambon, uno dei volontari italiani più noti tra gli affreux di Bob Denard. Veneziano, ex parà della Folgore, che combatte già nel 1965 nella zona di Paulis, a nord ovest del Congo. Morirà falciato da una mitragliatrice pesante a Bakavu per mano degli ex alleati dell'esercito di Mobutu. Stesso destino che toccherà ad altri due italiani: Aldo Prina, Gabriele Baldisseri e Antonio Pedersoli, torturati e fatti a pezzi a Léopoldville nel luglio 1967. E anche la storia di Pier Giorgio Norbiato, un incursore di Marina che si distinse in Congo per le operazioni anfibie e troverà la morte più tardi come mercenario in Biafra. E anche quella di Tullio Moneta, uno dei pochi italiani nel 5°BCE degli anglosassoni, quello che ispirò il famoso film "I quattro dell'oca selvaggia".Proprio il 1967 fu l'annus horribilis per i mercenari in Congo, a causa dei rivolgimenti interni ed internazionali che seguirono l'evoluzione della guerra civile nel paese africano. I mercenari non avevano mai smesso di credere ad un Katanga indipendente nonostante l'esilio di Tschombé e l'appoggio decisivo degli Stati Uniti al regime di Mobutu in funzione antisovietica e favorevole ad un Congo unito e pacificato con il pugno di ferro. La situazione precipitò quando l'esiliato leader katanghese fu attratto in una trappola. Durante uno spostamento alle Canarie dall'esilio Spagnolo, l'aereo del leader fu dirottato ad Algeri dai servizi segreti francesi e imprigionato nella capitale, dove morirà nel 1969. Tolto di mezzo l'avversario più pericoloso, il dittatore Mobutu decise di dare un ulteriore giro di vite, dichiarando la volontà di nazionalizzare le imprese a capitale europeo e quella di cacciare i mercenari bianchi diventati ormai motivo di imbarazzo nei confronti degli altri Stati africani e degli alleati internazionali. Nacque così una nuova guerra, nota come la rivolta dei mercenari che vide contrapposti i due ex alleati nella lotta ai marxisti Simba. Già l'anno precedente gli uomini di ventura avevano cercato di rovesciare, senza successo, il dittatore congolese nella speranza che un imminente ritorno di Tschombé potesse ridare vita al nuovo sogno di indipendenza katanghese. La cattura di quest'ultimo e l'ostilità aperta di Mobutu fece scoccare la scintilla dell'ammutinamento degli uomini di Jean Schramme, Mad Mike Hoare e Bob Denard. Asserragliati a Bukavu e Stanleyville resistettero per mesi agli assalti dei regolari congolesi, nonostante la sollevazione improvvisa non fosse riuscita ad evitare massacri di mercenari e civili a causa di evidenti difetti di comunicazione tra i reparti come a Léopoldville. La fine delle ostilità avvenne alla fine del 1967 quando le colonne di mercenari di Denard e Schramme seguite da migliaia di civili passarono i confini con l'Angola ed Il Ruanda, dove i soldati di ventura furono internati per diversi mesi prima dell'intervento di una missione della Croce Rossa Internazionale per il loro rimpatrio.Il 25 aprile 1968 un volo della compagnia olandese Transavia toccava la pista dell'aeroporto di Pisa-San Giusto. Dal charter noleggiato della Croce Rossa apparve un gruppo di uomini emaciati, le barbe lunghe, contrastati nell'aspetto dagli abiti sgargianti delle loro compagne congolesi. Erano gli ultimi volontari italiani rilasciati dopo le lunghe trattative con il governo ruandese. Ad attenderli a bordo pista, gli uomini della Digos.
Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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