2025-04-05
Meloni deve trattare con Trump
Giorgia Meloni (Getty Images)
La rivoluzione delle tariffe sta producendo danni. Ma può spazzare via i frutti avvelenati della globalizzazione, che ha devastato i salari e ingabbiato i consumi interni. Quel mondo è al capolinea, le vecchie regole non valgono più. Prima lo capiamo e meglio è. Avete presente quante volte la sinistra e anche il sindacato hanno criticato le aziende che decidevano di delocalizzare la propria produzione, trasferendo i macchinari all’estero, in Paesi ritenuti più convenienti per il costo della manodopera, le tasse e la flessibilità dal punto giuslavoristico? Beh, per quanto riguarda gli Stati Uniti, Donald Trump ha detto basta. E per rendersene conto è sufficiente prendere il Vietnam, ovvero un Paese che grazie a salari bassi (il reddito medio è intorno ai 300 dollari al mese) è stato trasformato in una nuova Cina, con un tasso di crescita del Pil del 7,09 per cento, superiore alle previsioni del Fondo monetario internazionale. Grazie a una manifattura nel settore tessile e dell’abbigliamento, nell’elettronica e nella chimica, da Paese più povero del mondo, con un Pil pro capite che nel 1990 era di 98 dollari, il Vietnam ha trasformato la propria economia, facendola diventare una delle più dinamiche al mondo. E come ha fatto? Semplicemente, grazie a una serie di riforme che hanno spazzato via le teorie comuniste, la Repubblica socialista di Hanoi è diventata - come un tempo fu la Cina - la fabbrica di tante multinazionali. Il caso più clamoroso è quello della Nike, che in Vietnam produce o fa produrre il 50 per cento delle proprie scarpe (e il 28 per cento dei capi di abbigliamento con la virgola rovesciata). Siccome il gruppo sforna ogni anno miliardi di sneaker, significa che miliardi di paia escono dalle 130 fabbriche in Vietnam, dove lavorano 450.000 dipendenti. Perché l’azienda di Beaverton ha deciso di produrre nel Paese asiatico? La risposta è ovvia: i salari sono al minimo e i profitti possono essere al massimo: 5,1 miliardi di utile nel 2023, il 10 per cento del fatturato, con un aumento rispetto all’anno precedente del 12 per cento. Con dazi al 56 per cento sulle importazioni da Hanoi, Trump prova a riequilibrare le cose, sperando di riportare a casa parte della produzione e far crescere l’occupazione in patria, migliorando le condizioni dei lavoratori. Ci riuscirà? Non ne ho la certezza. Però so che sta provando a invertire una tendenza che, grazie alla tanto deprecata globalizzazione, ha impoverito molti di quelli che un tempo erano considerati Paesi ricchi e sta facendo la fortuna di quelli che trent’anni fa erano ritenuti poveri. Come il Vietnam, appunto.Che cosa c’entra l’Europa in tutto ciò, vi starete chiedendo. C’entra, perché anche i Paesi Ue, come la Nike, hanno delocalizzato, andando a produrre dove conviene di più e poi assemblando pezzi di prodotto per rivenderli sui mercati come made in Ue. È ovvio che tutto ciò non riguarda il parmigiano reggiano o il Brunello di Montalcino, ma le aliquote dei dazi non sono intelligenti e non fanno molta differenza rispetto a un prodotto d’élite, come formaggi e vini di alto livello, un’auto o altro.Attenzione però, Trump non ce l’ha solo con il Vietnam, la Cina e altri Paesi asiatici, cui ha riservato le tariffe doganali più alte. Nel suo mirino c’è pure l’Europa, in particolare la Germania. Berlino non è un mio chiodo fisso: è il presidente americano che l’altro ieri presentando le misure per colpire le importazioni ha citato i tedeschi, dicendo che insieme a cinesi, giapponesi e coreani del Sud hanno perseguito politiche che comprimono il potere d’acquisto interno dei propri cittadini per aumentare artificialmente la competitività dei loro prodotti. «Tali politiche includono sistemi fiscali regressivi, sanzioni basse o non applicate per il degrado ambientale e politiche volte a sopprimere i salari dei lavoratori in relazione alla produttività». Ricordate i mini-jobs? Non li ha inventati Renzi, li introdusse con il piano Hartz più di vent’anni fa il cancelliere Gerhard Schröder, trasformandoli in un booster per la crescita della Germania. Salari bassi, qualche volta bassissimi, investimenti in infrastrutture a zero, spesa limitata dalle politiche di Maastricht e gas russo a buon mercato. Così è stato costruito il surplus tedesco. E così è stata frenata la crescita dei consumi in altri Paesi europei, Italia tra i primi. Oggi Trump presenta il conto, colpendo Paesi e giganti con lo scopo di cambiare le regole del gioco. Riuscirà? Non lo so. Di sicuro però sta dando un calcio alla globalizzazione, alle delocalizzazioni, alle politiche che tendono a frenare i consumi, a quelle che colpiscono alcuni settori, come il green deal e molte delle trovate dirigistiche di Bruxelles. E non pensate che i provvedimenti siano soltanto frutto della follia del presidente americano: è evidente che un pezzo d’America da tempo aveva in mente di rovesciare il tavolo. Non ci sono solo i rapporti del dipartimento del Tesoro negli ultimi dieci anni. Ci sono anche le misure ventilate o adottate dalle precedenti amministrazioni. Mi ha colpito l’altro ieri ascoltare in tv i lavoratori di Melfi, sulle cui catene di montaggio a un certo punto si produceva la Jeep, uno dei marchi a stelle e strisce che un tempo usciva dalle fabbriche in Michigan. Contro il trasloco della produzione, Joe Biden aveva già messo i dazi più di un anno fa. Era un segnale, che forse troppo a lungo qualcuno all’interno della Ue ha sottovalutato e ora si rischia la resa dei conti. Il crollo sui mercati azionari è una reazione isterica, che dimostra però quanto alcuni investitori che avevano scommesso tutto sulla globalizzazione oggi si sentano spiazzati e preoccupati. Ma l’isteria collettiva che sta contagiando le Borse è il modo peggiore di reagire. Il solo modo concreto e utile si racchiude in un verbo: negoziare. Altro che vendicarsi, come dice Ursula von der Leyen: urge sedersi a un tavolo per ridurre i danni. Che, secondo una stima dello Studio Ambrosetti, per l’Italia potrebbero essere contenuti e gestibili, salvo per qualche settore particolare. La sinistra che parla tanto di salari, nel frattempo, invece di invocare dazi in risposta a quelli di Trump, farebbe bene a riflettere su un modello che da mercoledì non funziona più.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Antonio Filosa, ad Stellantis (Ansa)