2019-10-12
        Meglio Abiy Ahmed che Greta Thunberg ma la Pace saudita non merita il Nobel
    
 
Premiato il premier che ha messo l'Etiopia sotto la protezione araba e islamica. In cambio della tregua e del benessere.Gli allegri ecologisti permeati dalla filosofia total green esultano, gli egiziani un po' meno. Abiy Ahmed Alì, giovane leader etiope e da ieri premio Nobel per la Pace, è noto ai primi per la stupenda trovata di marketing di piantare 350 milioni di alberi in un giorno, ma preoccupa i secondi per la ferma volontà di varare una marina da guerra che gli consenta di avere un ruolo nei delicati equilibri sul Mar Rosso. Quando compì l'impresa botanica il mondo applaudì commosso («Sta salvando il pianeta»), mentre del progetto navale in pochi sanno perché lui si guardò bene dal diffonderlo troppo. E chi giustamente obietta, cartina alla mano, che l'Etiopia non può avere una flotta perché non ha sbocchi sul mare, sappia che Abiy Ahmed ha cessato la guerra con l'Eritrea proprio per ottenerne un paio.Si rischia di passare per tignosi ma è bene dire subito che il nuovo Nobel per la Pace, uscito in trionfo dalla selezione annuale del Comitato parlamentare di Oslo, non è né il Mahatma Gandhi, né il Nelson Mandela, né il Mikhail Gorbaciov che le sinfonie pastorali dei grandi media ci inducono a credere. È certamente un premier vero, con idee concrete e il bene del proprio Paese come stella polare, quindi merita un riconoscimento al coraggio e alla determinazione. La simpatia per lui sorge spontanea, non fosse altro perché ha compiuto l'impresa di neutralizzare la Greta Thurnberg planetaria, che avrebbe sancito il punto più basso della deriva macchiettistica del premio.Detto questo, Abiy Ahmed resta pur sempre il leader muscolare di un Paese chiave del Corno d'Africa, dove senza il consenso di potenze regionali che impongono la pace con le maniere forti non si firma un trattato, non si ottengono finanziamenti, non si può immaginare uno sviluppo economico, politico e sociale per la popolazione. Il suo alleato numero uno è l'Arabia Saudita, che al di là del braccio di mare sta combattendo una guerra senza quartiere - con massacri e violazioni dei diritti umani - nello Yemen. Ma ai delegati norvegesi interessa poco, la conclusione del conflitto con l'Eritrea che durava da 20 anni è sufficiente per motivare il riconoscimento, attribuito al numero uno etiope per «i suoi sforzi per realizzare la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua iniziativa decisiva per risolvere il conflitto al confine con la vicina Eritrea».Abiy Ahmed ha 43 anni, è di etnia oromo (il gruppo maggioritario ma anche più marginalizzato nel Paese), vanta una laurea in materie tecnologiche, ha fatto carriera militare nelle Trasmissioni come Muhammar Gheddafi e Hugo Chavez quando presero il potere ed è diventato primo ministro un anno e mezzo fa dopo una lunga stagione di scontri di piazza con l'ex presidente Hailé Mariam Desalegn (etnia tigrina) durante la quale sono rimasti nella polvere 350 morti. Ha portato in Etiopia una ventata di democrazia e riformismo, ha liberato migliaia di prigionieri politici (prima i partiti di opposizione erano considerati associazioni terroristiche), ha avviato un processo di riconciliazione e ha deciso di chiudere la guerra con il cupo regime dittatoriale eritreo di Isaias Afewerki. Lo ha fatto semplicemente concedendo al nemico il territorio attorno a Badme, villaggio in mezzo a una pietraia, senza valore strategico ma con forte valore simbolico, come spesso accade quando nessuno vuole cedere un metro di ragione.La grande stretta di mano alla base del premio Nobel è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita, con la benedizione del re Salman Abdalaziz al Saud e del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres. Lì il nostro «artigiano della pace» ha vinto la partita dell'intelligenza strategica: ha concesso la pietraia, ha chiesto la revoca delle sanzioni internazionali all'Eritrea, ha fatto riaprire ambasciate, ripartire i voli diretti (quando il primo aereo arrivò ad Asmara da Addis Abeba i passeggeri si inginocchiarono a pregare), le comunicazioni telefoniche. E in cambio ha ottenuto 1 miliardo per la pace, 320 milioni sauditi in aiuti e investimenti, la realizzazione di 135 progetti industriali. E soprattutto la riapertura del valico di Bure (le Termopili del Corno d'Africa) con l'accesso ai porti eritrei di Assab e Massaua, sotto l'influenza degli alleati sauditi, per allestire la flotta. Tutto questo con l'impegno di costruire un oleodotto da Assab ad Addis Abeba per trasportare il petrolio arabo.Abiy Ahmed ha fatto bingo due volte. E se il Nobel riguarda gli statisti non necessariamente pacifisti, lui lo è. È diventato un eroe positivo agli occhi del mondo e ha sostituito i cinesi (in uscita dal Paese dopo anni di investimenti infruttuosi) con gli arabi come principali finanziatori. Con un rischio del tutto evidente, l'islamizzazione del Paese, che oggi è al 62% di religione cristiana e al 34% di religione musulmana. Ma gli equilibri economici stanno cambiando, le sfere d'influenza anche. E come sempre sarà il tempo a dire se un premio politicamente corretto oggi garantirà pace vera domani. Quello preventivo a Barack Obama fu un disastro.
        Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
    
        La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
    
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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