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2018-07-13
La telefonata di Mattarella a Conte per autorizzare la sbarco di 67 migranti
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Ansa
Matteo Salvini scopre la differenza tra essere premier «di fatto» ed esserlo per davvero quando, ieri sera alle 18, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiama al telefono il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e gli chiede di far attraccare a Trapani la nave Diciotti della Guardia costiera e far sbarcare i 67 migranti a bordo. Conte, che a Mattarella deve la sua nomina a Palazzo Chigi, non può fare altro che mettersi sull’attenti: telefona a Salvini, al ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, e al leader del M5s, Luigi Di Maio, per avvertirli dell’intervento del Quirinale, poi autorizza lo sbarco. «Sono state completate», spiega Conte, «le procedure di identificazione delle persone che erano a bordo, con particolare riguardo a quelle a cui risulterebbero imputabili le condotte che configurano ipotesi di reato». Dal Colle si fa sapere che Mattarella, al telefono con Conte, ha «sottolineato la situazione dei minorenni, delle donne e delle persone con problemi di salute che si trovano a bordo, ribadendo l'opportunità che siano fatte sbarcare dalla nave».
Dal Viminale trapela «stupore» per la decisione di Mattarella, ma in tarda serata Salvini corregge il tiro: «Nave Diciotti», twitta, «due indagati, scafisti individuati, tutti fermati e interrogati. È finita la pacchia!». Gli indagati dalla Procura di Trapani sono due dei migranti sbarcati dalla Diciotti: Ibrahim Bushara, del Sudan, e Hamid Ibrahim, del Ghana. Sulla base delle indagini dello Sco, della squadra mobile e del Nucleo speciale intervento del Comando generale della Guardia Costiera, i due sono accusati di concorso in violenza privata continuata e aggravata in danno del comandante e dell'equipaggio del rimorchiatore Vos Thalassa. I due sono a piede libero: la Procura non ha ritenuto di contestare loro i reati di impossessamento di nave e minacce, che invece avrebbero comportato l’arresto. Niente manette, quindi, ma un capo di imputazione del quale i due dovranno rispondere in Tribunale.
Non è ancora chiaro, infatti, cosa sia accaduto a bordo della Vos Thalassa, nave italiana che si occupa della sorveglianza alle piattaforme petrolifere della Total, che ha soccorso 67 migranti la sera del 9 luglio scorso, per poi «passarli» alla Diciotti, poiché, stando a quanto dichiarato in un primo momento dagli armatori, l’equipaggio sarebbe stato minacciato dai migranti quando questi avevano appreso che sarebbero stati caricati da una imbarcazione della Guardia costiera libica, per essere riportati a Tripoli. La situazione di pericolo avrebbe suggerito di chiedere l’intervento della Diciotti.
L’entità delle minacce resta il mistero da chiarire: Cristiano Vattuone, il portavoce della Vroon, la società olandese proprietaria della Vos Thalassa, parlando con la Verità aveva minimizzato: «Nessuna insurrezione a bordo», aveva detto Vattuone, «la situazione è stata ingigantita dai giornali, non c’è stato nessun ammutinamento e nessuno è stato pestato». In attesa degli sviluppi dell’inchiesta, che dovrà determinare la reale consistenza delle minacce nei confronti dell’equipaggio della Vos Thalassa, il caso è politico e riguarda gli equilibri all’interno del governo.
Questa mattina, Salvini ha smussato i toni della polemica verso il Quirinale: «Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella», ha detto il leader della Lega ai microfoni di Rtl 102.5, «non si è mai intromesso nelle mie decisioni. Non ho niente da chiarire, se Mattarella vuole capire cosa ho fatto sono a disposizione, ma la lotta ai clandestini è una delle priorità del Paese. L’unica cosa che mi farebbe arrabbiare», ha aggiunto Salvini, «è che tutti gli sbarcati della nave Diciotti finissero a piede libero: qualcuno deve pagare e ci deve esser certezza della pena».
Singolare la presa di posizione di Luigi Di Maio, vicepremier e leader del primo partito di maggioranza, che questa mattina è intervenuto sulla vicenda ad Agorà, su Rai 3: «Se il ministro dell’Interno Matteo Salvini», ha detto Di Maio, «abbia esagerato o meno non me ne frega niente. La cosa importante è che con l’intervento del presidente della Repubblica si sia sbloccata la storia. Quello è il rapporto tra il Colle e Matteo Salvini, io ieri ero impegnato sui vitalizi. Il presidente è intervenuto e bisogna rispettare il presidente».
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Il presidente della Repubblica ha chiamato ieri sera il premier per chiedergli di far attraccare a Trapani la nave Diciotti della Guardia costiera. Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, inizialmente stupido dalla mossa, oggi smussa i toni della polemica interna al governo: «Nessuna intromissione nelle mie decisioni». Mentre l'altro vicepremier, Luigi Di Maio, fa scudo attorno al Quirinale. Matteo Salvini scopre la differenza tra essere premier «di fatto» ed esserlo per davvero quando, ieri sera alle 18, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiama al telefono il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e gli chiede di far attraccare a Trapani la nave Diciotti della Guardia costiera e far sbarcare i 67 migranti a bordo. Conte, che a Mattarella deve la sua nomina a Palazzo Chigi, non può fare altro che mettersi sull’attenti: telefona a Salvini, al ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, e al leader del M5s, Luigi Di Maio, per avvertirli dell’intervento del Quirinale, poi autorizza lo sbarco. «Sono state completate», spiega Conte, «le procedure di identificazione delle persone che erano a bordo, con particolare riguardo a quelle a cui risulterebbero imputabili le condotte che configurano ipotesi di reato». Dal Colle si fa sapere che Mattarella, al telefono con Conte, ha «sottolineato la situazione dei minorenni, delle donne e delle persone con problemi di salute che si trovano a bordo, ribadendo l'opportunità che siano fatte sbarcare dalla nave».Dal Viminale trapela «stupore» per la decisione di Mattarella, ma in tarda serata Salvini corregge il tiro: «Nave Diciotti», twitta, «due indagati, scafisti individuati, tutti fermati e interrogati. È finita la pacchia!». Gli indagati dalla Procura di Trapani sono due dei migranti sbarcati dalla Diciotti: Ibrahim Bushara, del Sudan, e Hamid Ibrahim, del Ghana. Sulla base delle indagini dello Sco, della squadra mobile e del Nucleo speciale intervento del Comando generale della Guardia Costiera, i due sono accusati di concorso in violenza privata continuata e aggravata in danno del comandante e dell'equipaggio del rimorchiatore Vos Thalassa. I due sono a piede libero: la Procura non ha ritenuto di contestare loro i reati di impossessamento di nave e minacce, che invece avrebbero comportato l’arresto. Niente manette, quindi, ma un capo di imputazione del quale i due dovranno rispondere in Tribunale.Non è ancora chiaro, infatti, cosa sia accaduto a bordo della Vos Thalassa, nave italiana che si occupa della sorveglianza alle piattaforme petrolifere della Total, che ha soccorso 67 migranti la sera del 9 luglio scorso, per poi «passarli» alla Diciotti, poiché, stando a quanto dichiarato in un primo momento dagli armatori, l’equipaggio sarebbe stato minacciato dai migranti quando questi avevano appreso che sarebbero stati caricati da una imbarcazione della Guardia costiera libica, per essere riportati a Tripoli. La situazione di pericolo avrebbe suggerito di chiedere l’intervento della Diciotti.L’entità delle minacce resta il mistero da chiarire: Cristiano Vattuone, il portavoce della Vroon, la società olandese proprietaria della Vos Thalassa, parlando con la Verità aveva minimizzato: «Nessuna insurrezione a bordo», aveva detto Vattuone, «la situazione è stata ingigantita dai giornali, non c’è stato nessun ammutinamento e nessuno è stato pestato». In attesa degli sviluppi dell’inchiesta, che dovrà determinare la reale consistenza delle minacce nei confronti dell’equipaggio della Vos Thalassa, il caso è politico e riguarda gli equilibri all’interno del governo.Questa mattina, Salvini ha smussato i toni della polemica verso il Quirinale: «Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella», ha detto il leader della Lega ai microfoni di Rtl 102.5, «non si è mai intromesso nelle mie decisioni. Non ho niente da chiarire, se Mattarella vuole capire cosa ho fatto sono a disposizione, ma la lotta ai clandestini è una delle priorità del Paese. L’unica cosa che mi farebbe arrabbiare», ha aggiunto Salvini, «è che tutti gli sbarcati della nave Diciotti finissero a piede libero: qualcuno deve pagare e ci deve esser certezza della pena».Singolare la presa di posizione di Luigi Di Maio, vicepremier e leader del primo partito di maggioranza, che questa mattina è intervenuto sulla vicenda ad Agorà, su Rai 3: «Se il ministro dell’Interno Matteo Salvini», ha detto Di Maio, «abbia esagerato o meno non me ne frega niente. La cosa importante è che con l’intervento del presidente della Repubblica si sia sbloccata la storia. Quello è il rapporto tra il Colle e Matteo Salvini, io ieri ero impegnato sui vitalizi. Il presidente è intervenuto e bisogna rispettare il presidente».
Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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Ansa
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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Theodoris Kyriakou (Getty Images)
Sì, perché mentre Antenna Group, colosso greco dei media, guarda a Roma e Milano come a una scommessa di lungo periodo, qui da noi una parte dell’universo progressista sembra impegnata in una missione opposta: spiegare ai greci che stanno sbagliando, che non hanno capito niente, che questo Paese non è all’altezza. Altro che accoglienza degli investitori stranieri: qui si alza il ponte levatoio. Eppure i greci - che di crisi se ne intendon - dicono cose semplici. Dicono che l’Italia è uno dei pochi Stati europei che oggi offre stabilità politica. Un sistema che regge, che governa, che decide. In un’Europa attraversata da elezioni anticipate, governi balneari e maggioranze liquide, Roma appare improvvisamente come un porto sicuro. Ironia della storia: ci scopriamo stabili quando smettiamo di raccontarci instabili.
Antenna non parla di una scorribanda finanziaria, ma di una scelta industriale di lungo periodo. Parola grossa, quasi sospetta, in un Paese abituato ai fondi mordi-e-fuggi. Qui, invece, il messaggio è chiaro: investire in Italia perché il mercato è aperto, favorevole, accogliente per chi vuole costruire. E perché l’informazione italiana resta una delle poche in Europa con una tradizione riconosciuta di giornalismo indipendente. Detto dai greci, non da qualche patriota fuori tempo massimo.
Non solo. Antenna parla di affinità storica e culturale, di un legame che va oltre la pura logica commerciale. Insomma, non arrivano per colonizzare, ma come l’editore che vuole far crescere ciò che trova. Garantiscono - nero su bianco, nelle dichiarazioni - indipendenza, rispetto delle sensibilità culturali, continuità della collocazione del giornale. Repubblica resterà Repubblica. Non diventerà né un bollettino governativo né una dependance di Atene.
E allora dov’è il problema? Il problema è tutto politico e simbolico. Per una parte della sinistra italiana l’idea che un gruppo straniero dica che l’Italia funziona è quasi un affronto. Come se il racconto del Paese malato fosse diventato una rendita di posizione. Se qualcuno arriva e dice che l’Italia cresce, attrae capitali, ha giornalisti competenti e un mercato dinamico, scatta l’allarme: così ci rovinano la narrazione.
C’è poi il riflesso pavloviano sull’«editore straniero», come se l’italianità dell’informazione fosse stata finora custodita da mani immacolate. Dimenticando che Repubblica è già passata da De Benedetti a Elkann senza che il mondo finisse, e che la vera indipendenza non dipende dal passaporto dell’azionista ma dalle regole, dai contratti, dalla solidità industriale.
I greci, intanto, guardano avanti. Parlano di media capaci di espandersi a livello globale, di un pubblico che non si riconosce più in un’offerta sempre più polarizzata e urlata, di uno spazio crescente per notizie credibili, affidabili, di qualità. È una diagnosi che coincide, curiosamente, con quella fatta da anni dagli stessi editorialisti che oggi storcono il naso.
E qui sta il paradosso finale, degno di una commedia attica: la sinistra che difende l’indipendenza dell’informazione cercando di sabotare un investimento che la garantisce, e i greci che difendono il giornalismo italiano spiegando che è uno dei suoi punti di forza. Capovolgimento perfetto.
Antenna Group parla addirittura di un campione europeo dei media, di un progetto continentale che parta dall’Italia. In un momento in cui l’Europa discute di sovranità informativa e di pluralismo, c’è chi prova a costruire e chi preferisce gridare al complotto.
Forse, alla fine, la notizia non è che i greci comprano Repubblica. La vera notizia è che c’è ancora qualcuno che guarda all’Italia senza complessi, senza autodenigrazione, senza la tentazione masochista di raccontarsi sempre peggio di come è. E questo, per una parte del dibattito pubblico, è imperdonabile.
I greci investono perché l’Italia è in salute.
Il problema è che non tutti vogliono ammetterlo.
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