2025-07-14
«Il segreto del mio matrimonio è saper contare fino a dieci»
Orietta Berti (Getty Images)
La cantante Orietta Berti: «Dovevo esibirmi negli Usa, mia mamma disse: “O ti sposi o niente tournée” Nessuno mi ha mai fatto la corte, una donna deve farsi rispettare e non fare la civetta».Per l’Italia Orietta Berti è non soltanto un classico insostituibile della galleria nazionale del pop, ma anche un modello sociale e sociologico. Non ha mai dimenticato la saggezza della tradizione, sempre al passo con i tempi, mai cervellotica o evanescente, fedele ai propri ideali. Attenta alle congiunzioni astrali e ai flussi di energia del destino, ha costruito una famiglia e un matrimonio che rasentano la perfezione. Ha ascoltato la voce delle donne ma anche quella del marito. L’«usignolo di Cavriago» non ha mai lasciato la sua Emilia. È appena uscito il nuovo singolo, Cabaret, pubblicato dalla Time Records, con Fabio Rovazzi e il gruppo urban Fuckyourclique. «Lavorando in studio - perché devo anche fare un pezzo a Natale per i miei 60 anni di carriera - mi è capitato questo brano, forte per l’estate, con un ritornello accattivante e una riflessione su questa nostra società così esagerata dove si mettono in mostra anche le cose più negative. Allora ho telefonato a Fabio, un carissimo amico, avendo fatto tante cose insieme anche in tv, come il collegamento con la nave da Sanremo. È dello stesso segno di mio marito, Capricorno, io sono Gemelli. Gli ho fatto sentire il brano e ha detto che l’avrebbe fatto volentieri». E l’incontro con questa band di giovani?«Carini, vocalmente bravi, hanno un frasario un po’ esplicito che piace alla gioventù di adesso. Abbiamo fatto un provino, tutto bene e adesso siamo molto contenti». La vita è un cabaret?«Non ci rendiamo conto che la prendiamo o troppo seriamente o troppo ironicamente». È nata a Cavriago, provincia di Reggio Emilia e vive lì vicino, a Montecchio Emilia… «Nella casa di mio marito, perché una volta si usava così… Mi trasferii qui a Montecchio e in casa avevo un’àncora, mia mamma, rimasta vedova, che viveva qui in casa dei miei suoceri, e anche mia suocera. Quando ho avuto i bambini mi hanno dato un buon aiuto, me li hanno allevati i miei suoceri e mia madre. Quando viaggiavamo per lavoro eravamo tranquilli, sapendo che i nostri figli erano nelle mani giuste…». Cosa resta di quell’Emilia degli anni Cinquanta, con i suoi simboli, don Camillo e Peppone? «Non resta più niente. Mia mamma era comunista, perché era stata partigiana. I compagni le avevano affidato la pesa pubblica di Cavriago e aveva anche un buon stipendio. Mio papà invece molto religioso e tutti i suoi amici erano sacerdoti o persone vicine alla parrocchia. Ma in casa i miei si rispettavano. Era una situazione buffa. Da adolescente, quando vedevo i film di Peppone e don Camillo mi sembrava proprio che qui in Emilia vivessimo tutti così. Tutti rossi, ma alla festa del patrono e alla vigilia di Pasqua e Natale tutti in chiesa…». Che ricordi ha di bambina di questa Emilia comunista e cattolica? «Abitavamo vicino al sagrato della chiesa di San Terenziano. C’erano le processioni, quella di San Niccolò - io ero sotto la parrocchia di San Niccolò - e quella di San Terenziano. Si faceva la competizione a chi aveva più gente. Io andavo a tutte e due. Spargevo i petali freschi oppure le foglie secche. La mia nonna metteva fuori dalla finestre le coperte più belle, i vasi con i limoni e gli oleandri. Queste tradizioni mi mancano tanto». Come conobbe suo marito, Osvaldo Paterlini? «L’ho conosciuto qui a Montecchio, alla fiera di san Simone. Abitando nel paese vicino, c’era la corriera. Una domenica siamo partiti in una decina e l’ho incontrato perché era amico di alcuni miei amici. Me l’hanno presentato e così dopo è nata un’amicizia e poi ci fidanzammo». Quanti anni avevate? «Avevamo 18 anni. Poi lo invitai a casa mia. Da come si comportò sembrava non gli interessasse niente. Invece dopo una settimana è venuto a trovarmi e, come si usava allora, mi ha portato un pezzo di Parmigiano Reggiano perché ognuno, nei paesi, dice che ha il Parmigiano più buono. Anche lui lo disse. E io: “Guarda Osvaldo che ti sbagli di grosso, il nostro di Cavriago è il migliore perché abbiamo le vacche rosse”. Quindi l’ho battuto anche lì. E così, tra una battuta e l’altra, siamo ancora qui, nella casa di Osvaldo». Il fidanzamento fu lungo?«Due anni e poi lasciò il proprio lavoro perché mi seguiva dappertutto. Nel ’65 sono esplosa come cantante, con Tu sei quello, a Un disco per l’estate, vinto il 18 giugno 1965. Ci sposammo perché ebbi da Claudio Villa la proposta di andare in tournée un mese e mezzo in America, un’occasione unica. Mia madre disse: “O vi sposate oppure niente tournée”. Ci siamo sposati in Quaresima, il 14 di marzo del 1967, in questa chiesetta con monastero a Bismantova, in collina, di cui parla anche Dante nella Divina Commedia…»E se le chiedo delle portate del pranzo di nozze?«Ah, nella tradizione. Piccoli bocconcini di Parmigiano Reggiano ricavati da una forma, accompagnati da un bianco frizzante, poi le tagliatelle all’uovo al ragù dentro la forma per insaporirle, i classici cappelletti in brodo, chi voleva anche con la panna, poi asciutti con un po’ di Lambrusco, e poi lesso, salse, pollo ripieno, arrosto… un pranzo che non finiva più con le portate». Orietta, spieghi agli italiani il segreto del suo matrimonio azzeccato e felice. «Senz’altro si può litigare perché, quando si è giovani, non si ragiona con la testa, ma con l’impulso… Io, essendo Gemelli, sono esuberante, mentre mio marito, Capricorno, è più taciturno, di poche parole, ma quando le dice contano molto e bisogna stare molto attenti. Nei primi tempi mia mamma di disse di contare fino a dieci prima di parlare. E poi, in una coppia, non è che uno può sempre aver ragione. Bisogna essere elastici. Ma allora le donne erano diverse. Adesso alzano un po’ troppo la cresta. Ci sono delle regole». Nella sua vita c’è stato qualche uomo che, nonostante sia sposata, abbia avuto la malandrineria di farle la corte? «No, perché ero sempre con mio marito. Mio marito si è fatto tantissimi amici. E forse anche per rispetto nei riguardi di Osvaldo non ho mai incontrato nel mio ambiente qualcuno che mi abbia fatto delle avance. Mai. Ma anche una donna deve farsi rispettare e non fare la civetta, no?».Certamente sì. «Queste sono le prime cose. Il rispetto al compagno o al marito».Nella vostra famiglia ogni nome di persona inizia con la «O». Perché?«Mia mamma si chiamava Anna, ma si faceva chiamare Olga, voleva avere un nome russo. Mia suocera, Odilla, mio nonno, Oreste, mio zio, Oliviero. Quando è nato mio figlio (1975, ndr), il primogenito, non ci avevo nemmeno pensato di chiamarlo con la “O”. Ma conobbi Omar Sharif perché cantai la colonna sonora del Dottor Zivago. Venne ospite a una Canzonissima e lo rividi a Venezia a un torneo di bridge. Offrì a me e mio marito una coppa di champagne. Fu così gentile che pensai: “se avrò un figlio lo chiamerò Omar”». Il secondogenito, Otis. «Stavo andando a Milano per ricevere il disco d’oro. Avemmo un incidente ma non ci facemmo nemmeno un graffio. In auto ascoltavamo Otis Redding, che fece una brutta fine, morì in un incidente aereo. Pensai che forse fosse stato lui a salvarci e così il secondo figlio lo chiamai Otis».La stessa cosa per animali che avete?«Avevamo. Purtroppo il tempo se li è portati via. Avevamo Otello, Oscar, Otto e Olimpia, tutti cani di razza Corso, grandi come un vitello. Olimpia se n’è andata a 12 anni il 30 di aprile di quest’anno e suo fratello 2 anni prima. Una pena, una pena terribile…». Il suo primo album, del 1965, è stato Orietta Berti canta suor Sorriso.«Era una suora domenicana belga. Aveva successo in tutto il mondo, una delle prime cantautrici. Fece queste preghiere cantate scrivendo la sua storia a Gesù. Vendeva in tutto il mondo ma in Italia poco. Le Edizioni Paoline si rivolsero alla mia casa discografica cercando una cantante con la voce dolce per interpretarle tradotte in italiano. Ebbero molto successo, da lì iniziò la mia carriera e sono ancora qui...». E ne siamo felici.«Però devo sempre ringraziare Amadeus che mi ha voluto a tutti i costi dopo 29 anni di assenza. E lì ho conosciuto Fedez con cui abbiamo fatto Mille, con Achille Lauro. Poi X-Factor, Luna piena, poi Rovazzi con il collegamento dall’Ariston e, nell’estate 2023, Discoteca italiana. L’anno scorso con Fiorello, Una vespa in 2 e quest’anno Cabaret, che anche sui social va benissimo».Il suo rapporto con la fede? «Io sono molto credente, non tanto praticante perché non c’è bisogno di andar sempre in chiesa, basta pregare tutti i giorni per i propri cari, per le persone amiche, i vicini, e per chi soffre in queste guerre, questi orrori. Chi dà indietro ai genitori i giovani morti?».Il tema del doppio affascina la psicanalisi. È interessante che lei, di un abito, voglia due esemplari. «Essendo dei Gemelli prendo sempre tutto doppio, scarpe doppie, i vestiti doppi ma non uguali, uno di un colore e uno di un altro, anche adesso. Ma sono una collezionista. Faccio collezione di scarpe, acquasantiere, puffi, borsette e altre cose».Molti dubbi su quel biglietto attribuito a Luigi Tenco a Sanremo 1967 dove è citata Io, tu e le rose. Il criminologo Francesco Bruno mi disse di essere convinto che non si trattasse di suicidio. «Non ho mai creduto al bigliettino che lui ha lasciato scritto e anche suo fratello, che ora non c’è più, disse che quella non era la sua calligrafia. Anche Sandro Ciotti, carissimo amico di Tenco, disse che non avrebbe mai scritto una cosa del genere. Io, tu e le rose fu molto votata, in un sondaggio, anche dopo il Festival. L’avevo incontrato nel pomeriggio. Io a questo biglietto non crederò mai».
Beatrice Venezi (Imagoeconomica)