2023-06-19
Massimo Camisasca: «Io, ex cappellano del Milan, vi racconto chi era Silvio»
Il teologo: «Si interessava a tutto: come era tagliato il prato, l’orario degli allenamenti... E mi chiedeva quanti giocatori venissero alle mie messe. Se non era riamato, soffriva»Non è proprio scontato per un vescovo, ora emerito di Reggio Emilia-Guastalla, e teologo del calibro di monsignor Massimo Camisasca parlare di Silvio Berlusconi. Un vescovo che di politica, ci avverte subito, non vorrebbe parlare per un motivo semplice: «Non sono un politico». Accetta però di dire la sua con il consueto sguardo lucido - «mi raccomando, scriva le cose così come le dico» - sulla società italiana e sul mondo cattolico. Di Berlusconi può dire con altrettanta precisione, ché lo vide in azione molto da vicino con un incarico molto speciale.La sua conoscenza con Silvio Berlusconi ebbe inizio quando fu chiamato a ricoprire il posto di cappellano a Milanello. E lei, monsignore, per inciso, rispetto alla fede calcistica è… «Sono sempre stato milanista, fin dall’utero di mia madre. Così come mio fratello è sempre stato interista. Purtroppo, i suoi figli e i suoi nipoti, miei pronipoti, sono tutti una caterva di interisti». Fu quindi, si può immaginare, ottima notizia essere così a contatto con la squadra del cuore. Come è capitato?«Mi arrivò una lettera di Adriano Galliani, che mi chiedeva se ero disposto a assumermi il compito di cappellano del Milan. Rimasi sorpreso. Probabilmente a Galliani il mio nome fu fatto da Giancarlo Foscale, cugino di Silvio Berlusconi, che mi conosceva molto bene». Da lì i primi contatti? «Il primo momento in cui ci vedemmo con Berlusconi - posso sbagliarmi perché sono passati tanti anni - fu credo un’udienza con Giovanni Paolo II con la squadra. All’epoca non allenava ancora Sacchi, come mister c’era ancora Nils Liedholm». Berlusconi dal Papa poi ci tornò tante volte, anche nella veste di presidente del Consiglio. «Ma fu in quell’occasione che Berlusconi disse che aveva imparato dal Papa a fare delle azioni che avevano un significato per tutto il mondo. E che avrebbe voluto che questa squadra avesse un significato mondiale per la storia del calcio». Cosa che poi realizzò. A lei che impegno toccava?«Si trattava - io vivevo a Roma - di andare a Milanello il sabato pomeriggio nelle settimane in cui la domenica il Milan giocava in casa. Celebravo la messa. Fu quello un punto di partenza. E di arrivo in un certo senso, perché la messa è un punto di partenza e di arrivo. Ma fu la possibilità per me di un contatto con molti giocatori e molte persone dello staff, che man mano in quegli anni, dal 1986 al 1991, si intensificarono, e divennero in alcuni casi anche rapporti amicali molto profondi, come con Arrigo Sacchi, Roberto Donadoni, Filippo Galli…». Il Cavaliere veniva a messa in quei sabato?«Berlusconi non partecipava, no, veniva al sabato ma presto. La messa era invece alle 18. Io penso che non partecipasse per non apparire divisivo nei confronti del calciatori mentre molte persone dello staff erano presenti, anche le più qualificate. Però di fronte alla domanda di Berlusconi, o alla possibile domanda che anche lei vorrebbe forse farmi, su chi veniva a messa, io non ho risposto perché questa è una cosa privata. Gli dissi: viene più della media degli italiani». Si offese, per la sua evasività? Che rapporto avevate?«Un rapporto molto cordiale. Era un uomo profondamente empatico, che amava e desiderava essere amato. Quindi creava simpatia, ma desiderava anche la risposta della simpatia dell’altro. Soffriva, se un altro si considerava un nemico, e cercava di farlo diventare amico». L’aneddotica di Camisasca?«Ricordo che si interessava di tutto. Persino di come venivano tagliati i prati di Milanello. Degli orari degli allenamenti, e delle modalità. Con Sacchi discuteva ingaggi e formazioni… Una volta all’inizio dell’anno calcistico volle che partecipassi a una tre giorni con tutti i giocatori, lo staff e i dirigenti. Mi misi in ultima fila, perché sinceramente non avevo niente da dire su temi specifici e anzi forse non volevo neanche essere interpellato». Ma?«Naturalmente alla fine Berlusconi disse: “Don Camisasca, venga, venga, venga avanti a parlare”». Cosa disse?«Onestamente non ricordo. Lì capii però che era un uomo che realmente non lasciava mai nessuno in secondo piano». L’omelia del funerale, dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini, ha fatto molto discutere. «Per me, un capolavoro letterario. Anche di sentimenti, e giudizi. Un testo che ho trovato molto manzoniano. Forse nessuno ha fatto caso che non si nomina mai Cristo. Un po’ come nei Promessi Sposi: non c’è mai la parola Cristo».Si cita però Dio, ovviamente. «Come giudice. Quel che ha detto l’arcivescovo è profondamente lombardo: ha dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi e a Dio quel che è di Dio». Le critiche: strana omelia, una carezza negata, è stata molto dura… Dava l’addio a un uomo che lei come definirebbe, con quale aggettivo?«Controverso direi che è il termine giusto». Dall’altra parte c’è chi ha sottolineato che non si poteva fare l’agiografia di Berlusconi. Dio giustifica tutto, monsignore? Si può utilizzare così la fede?«Assolutamente no. Dio non giustifica tutto. Non si può fare tutto impunemente. Ma solo Dio vede nel cuore dell’uomo. Ricordiamoci Il cinque maggio, sempre di Alessandro Manzoni». L’ode per Napoleone. «Che aveva portato a morire centinaia di migliaia di uomini. Napoleone portò nel mondo europeo le leggi dei codici rivoluzionari che certo poco avevano a che fare con il cattolicesimo. Allo stesso tempo Manzoni parla di un’orma divina. Allora: dobbiamo vedere tutti gli aspetti di una personalità e non essere ideologici. Dobbiamo sapere ammirare la grandezza e dire quello su cui non siamo d’accordo. Lasciando agli storici, per quanto attiene l’umano, il giudizio. E a Dio, appunto, quel che è di Dio».A lei le notizie su cene eleganti e altro che effetto fecero?«Non mi piacevano certe sue uscite sulle donne e certi suoi comportamenti. Non per bacchettonismo, ma perché non rendevano ragione di un uomo di grandi orizzonti, quale era lui».Chi lo ha avversato ha ribadito in questi giorni: ha distrutto il Paese. «Media, magistratura e cosiddetti poteri forti ne hanno fatto uno degli uomini più attaccati della storia della democrazia italiana». E ora che non c’è più un nemico? Se ne troverà un altro?«Penso che la società, o meglio la politica italiana - e oso dire anche la Chiesa italiana - siano eccessivamente polarizzate. Non dobbiamo assolutamente ragionare in termini di amici e nemici. Casomai ci sono avversari politici, nel campo della politica. Per persone che sentono diversamente da noi in politica e sono come noi credenti, deve prevalere l’unità e la comunione dell’unica fede. Quando ci si scomunica a vicenda non si è più cristiani». Nella rivoluzione liberale lei ha mai sperato?«No, semmai nell’incontro tra mondo liberale e il mondo cattolico, in tutte le loro diverse sfumature. Mi sembra di poter dire, non da storico ma da cittadino italiano qualunque, che questo incontro non c’è stato. Quella sì che era una questione a cui guardavo con estremo interesse».E come mai questo non è avvenuto?«Perché molta parte del mondo cattolico in questi trent’anni ha guardato a sinistra. E quindi non poteva esserci un incontro. Berlusconi ha detto apertamente trent’anni fa come tre mesi fa di voler creare una forza liberale e cattolica. Forse però fin dal principio della sua parabola politica il mondo cattolico organizzato si stava disfacendo e il mondo liberale non esisteva più». In che senso il mondo cattolico si stava disfacendo?«L’appartenenza ecclesiale è diventata più debole nell’appartenenza politica. C’era chi aderiva a Forza Italia e chi aderiva al Pd. Mi riferisco al rapporto tra fede e politica, ovviamente». Secondo Camisasca questa possibilità di scelta va bene?«Ritengo molto negativo che l’appartenenza di fede sia messa in secondo piano rispetto alla appartenenza politica». Come andrà a finire, adesso?«Possibilità per il futuro ci sono sempre perché Dio è più grande del nostro cuore, sta a noi uomini catturarle e realizzarle». Risposta diplomatica. Quindi non ne vede?«Le parlo per me: sto lavorando perché la fede cristiana formi la personalità degli uomini che liberamente e lietamente vi aderiscono, e dia luogo a delle scelte politiche coerenti e convincenti».
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)