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2022-09-12
L'armistizio e il mare. La Regia Marina e l'8 settembre
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La corazzata «Roma» a Trieste nel 1943 (Getty Images)
L’alba del giorno dopo. l’impresa di Bastia (9 settembre 1943).
L’armistizio breve, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile, non avrebbe dovuto originariamente essere divulgato prima di 15-20 giorni, per permettere agli Alleati di preparare uno sbarco in grande stile a Salerno. In realtà le cose andarono molto diversamente e portarono allo sbando i reparti dell’esercito italiano rimasti in balìa di ordini contraddittori in seguito alla fuga del Re, di Badoglio e dei vertici militari verso Brindisi occupata dagli Alleati. Lo sbarco alleato fu cancellato. Se in terraferma la dissoluzione delle armate favorì lo svolgimento delle operazioni di occupazione del territorio italiano da parte dell’ex alleato germanico (operazione Achse) e le rimanenti forze in armi non riuscirono a raggiungere gli obiettivi fissati dall’armistizio (ad esempio la mancata difesa di Roma), per la Regia Marina dislocata nel Mediterraneo le cose non andarono certo meglio. Anche il naviglio da guerra italiano, infatti, fu colto di sorpresa dall’anticipazione dell’annuncio della resa l’8 settembre. Gli ordini stabiliti dalle clausole armistiziali per la Regia Marina comprendevano la consegna della flotta agli Alleati, la resistenza agli attacchi della Kriegsmarine o dei bombardieri della Luftwaffe e l’autoaffondamento in caso di impossibilità di lasciare i porti, che spesso fino a quel giorno fatale erano occupati dalle due marine militari tedesca ed italiana. Fu questo il caso del porto di Bastia, in Corsica, dove alcune unità della Regia Marina dirette in Sardegna fecero scalo nel porto dell’isola francese a fianco di sette unità della marina tedesca. Tra le unità italiane ormeggiate, le torpediniere Ardito e Aliseo di scorta alle navi del convoglio italiano protette dal pattugliamento al largo di Bastia assegnato alla corvetta Cormorano. La notizia della resa italiana creò una situazione surreale, di fronte alla quale inizialmente i comandanti delle navi di Bastia risposero con un accordo tra gentiluomini che avrebbe dovuto comprendere la partenza del naviglio germanico verso i porti del continente italiano. In realtà i comandi della Kriegsmarine avevano già dato disposizioni alle unità tedesche di procedere alla cattura delle navi italiane agendo di sorpresa. Gli ufficiali tedeschi all’ancora a Bastia presero l’ordine alla lettera e attaccarono quando le navi italiane si preparavano a salpare in direzione della Sardegna. Alle 23:45 le squadre di arrembaggio della marina tedesca salirono a bordo dell’Ardito e ingaggiarono una violenta sparatoria con gli ex alleati. Fu una carneficina da una parte e dall’altra, dopo che il concorso delle altre navi tedesche in porto aprirono il fuoco, causando anche diverse vittime per il fuoco amico esploso nel buio dalle navi vicine. Mentre l’Ardito finiva sotto i colpi dell’artiglieria costiera caduta in mani tedesche la torpediniera Aliseo, ai comandi del Capitano di fregata Carlo Fecia di Cossato già eroe della caccia ai sommergibili britannici, riusciva ad uscire dal porto di Bastia. Accortosi dell’attacco alla nave gemella, il capitano fece invertire la rotta ed armò l’Aliseo in assetto da battaglia: l’ordine fu quello di affrontare le 7 unità della Kriegsmarine lanciate all’inseguimento. La torpediniera italiana aprì il fuoco nel cuore della notte con i due cannoni da 100mm. e le mitragliere da 20mm. Mentre la battaglia navale infuriava in vista della costa di Bastia, un’unità di Bersaglieri giunse in soccorso dell’Ardito dopo che i comandi italiani diramarono l’ordine di rispondere al «fuoco con il fuoco». Era ormai la mattina del 9 settembre quando i colpi precisi della Aliseo colpivano le unità antisommergibili tedesche UJ-2203, UJ-2219 (distrutto dall’esplosione delle munizioni in stiva). Il successo della nave italiana fu coronata con l’affondamento del restante naviglio germanico, motozattere F366, F459 e F623 con il recupero dei naufraghi tedeschi. Poco dopo giungeva in supporto la corvetta Cormorano, che finì l’opera con l’affondamento di una motovedetta, della F387 e della F612. Cessato il fuoco, la Aliseo fu raggiunta dalla Ardito gravemente danneggiata ed assieme raggiunsero l’Isola d’Elba facendo ingresso a Portoferraio il 10 settembre. Mentre la Aliseo fu in grado di proseguire per la Sicilia e da lì a Malta, la Ardito troppo danneggiata per riprendere il mare cadde in mano tedesca dopo l’invasione dell’isola da parte della Wehrmacht. Ribattezzata TA-26 ed utilizzata dalla Kriegsmarine, scampò alle mine e ad un bombardamento al largo dell’isola d’Elba. Il suo destino si compì al largo di Rapallo quando, attaccata dalle siluranti americane, saltò in aria inabissandosi. Tragico fu anche il destino dell’eroe di Bastia, Carlo Fecia di Cossato. Profondamente monarchico (proveniva da una nobile famiglia del biellese di antiche tradizioni militari) rimase al comando della Aliseo nelle operazioni di co-belligeranza. Era il giugno del 1944 quando il nuovo governo di Ivanoe Bonomi per la prima volta dall’Unità d’Italia si rifiutò di giurare fedeltà alla casa Savoia. Fecia di Cossato ne rimase sconvolto e ordinò l’insubordinazione all’equipaggio dell’Aliseo, unità già destinata a confluire nel computo delle riparazioni di guerra una volta terminate le ostilità. Arrestato per il suo ammutinamento, l’ammiraglio eroe di Bastia si tolse la vita a Napoli il 27 agosto 1944.
La fine della Regia nave «Roma».
L’armistizio colse l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante la IX divisione navale della Regia Marina, nei porti di La Spezia e Genova. L’ordine seguito alla comunicazione della resa fu lo stesso dato alla formazione di Fecia di Cossato: raggiungere al più presto la base sarda de La Maddalena e consegnarsi agli Alleati. Un ordine che per buona parte degli uomini della Regia marina, un corpo compatto e combattivo, appariva indigesto. Lo stesso Bergamini obbedì ai comandi non certo con animo entusiasta ma da militare eseguì quanto gli fu richiesto nel rovesciamento dei fronti dai comandi di Supermarina e fece uscire dal porto di La Spezia diciotto unità navali, raggiunte poco dopo dalle navi italiane uscite dal porto di Genova. Tra le unità della grande formazione il fiore del naviglio da guerra italiano: gli incrociatori «Vittorio Veneto», «Italia» e «Roma». Bergamini si trovava su quest’ultima, una nave tecnologicamente avanzata e dotata di sistema radar DETE. La mattina del 9 settembre 1943 il convoglio si trovava al largo dell’isola del Tino a sud di Portovenere quando arrivarono i dispacci che mettevano in guardia gli equipaggi sul possibile attacco di aerosiluranti. Per questo motivo, furono approntati al tiro i cannoni da 90mm. antiaerei pronti al fuoco. Tra i membri dell’equipaggio figurava Arturo Catalano Gonzaga, figlio del nobile comandante del porto didi Bastia che la sera precedente aveva subìto l’arrembaggio dei tedeschi. Poco dopo le ore 15:00 scattò come temuto l’allarme aereo e dalle bocche del «Roma» e delle altre unità italiane partì il fuoco di sbarramento contro una formazione di 28 Dornier Do-217 tedeschi sulla verticale del convoglio giunto al largo dell’isola dell’Asinara. Il «Roma» fu l’inconsapevole bersaglio di una nuova tecnologia bellica, le bombe teleguidate Ruhrstahl FD 1400 «Fritz», dotate di impennaggi e aerofreni controllati da remoto. Il primo ordigno colpì la corazzata italiana sotto la carena, danneggiando i sistemi di brandeggimento dei cannoni che non poterono più essere puntati contro i velivoli nemici. Fu la seconda «Fritz» però a dare il colpo di grazia alla nave della Regia Marina. Il secondo colpo colpì a prora del primo, centrando in pieno la micidiale carica della santa barbara con i barilotti dei cannoni da 381mm. L’effetto, raccontarono poi i pochi superstiti, fu niente di meno che quello di un’eruzione vulcanica. La torre di comando dei pezzi fu letteralmente proiettata in aria assieme ai corpi di Bergamini e degli ufficiali della nave mentre sul ponte si riversava una vera e propria colata lavica per effetto del calore che sciolse l’acciaio della nave. L’agonia durò poco più di venti minuti durante i quali una raccapricciante teoria di uomini anche gravemente feriti, ustionati o mutilati si accalcava presso le scialuppe o si gettava in mare con l’acqua ormai a livello del ponte di coperta. Alle ore 16:11 il «Roma» scompariva tra i flutti dopo essersi spezzato in due tronconi a circa 16 miglia dalla costa dell’Asinara. Con la nave furono inghiottite dal mare 1.352 vite umane. I superstiti, recuperati dalle altre unità del convoglio italiano sotto ripetuti attacchi aerei tedeschi, furono 622. Le unità superstiti con i naufraghi a bordo fecero rotta per le Baleari, sperando nell’assistenza delle autorità della Spagna neutrale. A causa delle difficoltà diplomatiche del momento, il comandante della nave «Pegaso» Capitano di fregata Riccardo Imperiali di Francavilla scelse l’autoaffondamento. Tra i feriti gravi, 26 morirono dopo il ricovero all’ospedale dell’Isola del Rey e sono sepolti nel piccolo cimitero di Porto Mahon. Gli altri superstiti furono internati in diverse località della Spagna. Per decenni il relitto del «Roma» fu cercato sulla base delle informazioni ricevute a terra in quel tragico 9 settembre. Il suo scafo spezzato è stato individuato nel giugno del 2012 dopo che lunghe ed accurate ricerche precedenti, promosse dalla Marina Militare e da privati, chiusero il cerchio. Il piccolo ROV «Pluto Palla», guidato e progettato dall’ingegnere Guido Gay registrò le inequivocabili immagini dell’ammiraglia italiana ferita a morte il 9 settembre 1943. Giace alla profondità di 1.000 metri in una fossa, spezzata in quattro parti. Poco distante dal relitto, il robottino ha individuato anche i resti dell’idrovolante Imam Ro.41 imbarcato quel giorno drammatico sul ponte del «Roma».
Cefalonia: una strage in terra e un’altra in mare.
L’ampia storiografia disponibile ha reso ampiamente note le tragiche vicende che videro il sacrificio della Divisione «Acqui», colta dalla vendetta tedesca sull’isola greca di Cefalonia. La strage che si compì nell’isola verde e montagnosa non ebbe fine dopo l’8 settembre e non si fermò sulle sponde rocciose dell’isola ionica. Il dramma proseguirà in mare, e vedrà quali vittime i superstiti delle fucilazioni di pochi giorni prima. La resistenza italiana contro l’ex alleato durò fino al 22 settembre 1943 e durante i violenti e ripetuti attacchi dei Tedeschi il mare fece da tomba ai soldati caduti sull’isola, come nel caso della tragedia nella tragedia che si compì il 24 settembre, due giorni dopo la resa italiana. Fucilati a gruppi di quattro, i corpi di 180 ufficiali italiani furono caricati su un’imbarcazione sulla quale furono fatti salire 17 marinai italiani con il compito di piombarli e gettarli in mare. Al termine del macabro rito furono tutti passati per le armi e a loro volta gettati nelle acque cristalline dello Ionio. Quello che seguì non fece altro che aumentare il numero dei caduti della «Acqui» nel momento in cui i Tedeschi ne decisero l’evacuazione via mare per i campi di concentramento. In questo periodo si consumarono le tragedie del piroscafo «Ardena» e del piroscafo ”Marguerita», colmi oltre la capienza di prigionieri italiani catturati a Cefalonia. L’«Ardena», una nave greca confiscata dai tedeschi e adibita a trasporto prigionieri, salpò dal capoluogo dell’Isola Argostoli il 28 settembre 1943 con a bordo 840 prigionieri italiani e 60 militari tedeschi. Il suo viaggio fu breve perché giunto poco a Sud di Argostoli (circa mezzo miglio) urtava una mina e colava a picco. Solo 120 furono gli italiani superstiti, mentre tutti i marinai tedeschi si salvarono con le poche scialuppe di bordo. Sorte altrettanto drammatica spettò al piroscafo «Marguerita», anch’esso utilizzato per il trasporto dei prigionieri della «Acqui». A differenza del primo piroscafo, il «Marguerita» era quasi giunto alla destinazione nel porto di Patrasso dopo essere salpato da Argostoli il 13 ottobre 1943, con a bordo stipati come animali 900 italiani, tra cui molti feriti della battaglia di Cefalonia. All’imbocco del porto il piroscafo urtò una mina e affondò. Al dramma della Divisione italiana si aggiungevano altri 500 morti inghiottiti dal mare.
Oltre alla nave ammiraglia «Roma», il prezzo di sangue pagato dalla Regia Marina per cause riconducibili agli effetti dell’armistizio comprese l’affondamento di unità di prim’ordine della flotta italiana operante nel Mediterraneo. Il cacciatorpediniere «Antonio da Noli» salpò da La Spezia l’8 settembre con destinazione Civitavecchia, dove avrebbe dovuto trasportare il Re in fuga da Roma. Dopo la scelta di Pescara, alla nave fu dato l’ordine, come fu per il «Roma» di raggiungere la roccaforte de La Maddalena. Qui ricevette l’ulteriore compito di uscire dal porto a caccia di naviglio tedesco, che incontrò nelle tormentate acque delle Bocche di Bonifacio nel tardo pomeriggio del 9 settembre ingaggiando battaglia. Danneggiato dal fuoco delle artiglierie costiere tedesche della costa Corsa, l’«Antonio da Noli» stava per allontanarsi dal tiro quando urtò una mina che squarciò la nave all’altezza della plancia uccidendo il comandante e gli ufficiali di bordo. I naufraghi non poterono essere recuperati dalle altre unità italiane perché nel frattempo una formazione di cacciabombardieri tedeschi iniziò un violento bombardamento. Oltre ai marinai affondati con il cacciatorpediniere, altri perirono per il mitragliamento aereo. Soltanto il 12 settembre i superstiti furono issati dalle scialuppe su un sommergibile della Royal Navy. Erano solo 39 e finirono la guerra nei campi di prigionia in Algeria.
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Annunciata in anticipo, la resa italiana colse di sorpresa anche la Marina nei porti del «Mare nostrum». Tre storie tra le più drammatiche nelle acque di guerra del Mediterraneo.L’alba del giorno dopo. l’impresa di Bastia (9 settembre 1943).L’armistizio breve, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile, non avrebbe dovuto originariamente essere divulgato prima di 15-20 giorni, per permettere agli Alleati di preparare uno sbarco in grande stile a Salerno. In realtà le cose andarono molto diversamente e portarono allo sbando i reparti dell’esercito italiano rimasti in balìa di ordini contraddittori in seguito alla fuga del Re, di Badoglio e dei vertici militari verso Brindisi occupata dagli Alleati. Lo sbarco alleato fu cancellato. Se in terraferma la dissoluzione delle armate favorì lo svolgimento delle operazioni di occupazione del territorio italiano da parte dell’ex alleato germanico (operazione Achse) e le rimanenti forze in armi non riuscirono a raggiungere gli obiettivi fissati dall’armistizio (ad esempio la mancata difesa di Roma), per la Regia Marina dislocata nel Mediterraneo le cose non andarono certo meglio. Anche il naviglio da guerra italiano, infatti, fu colto di sorpresa dall’anticipazione dell’annuncio della resa l’8 settembre. Gli ordini stabiliti dalle clausole armistiziali per la Regia Marina comprendevano la consegna della flotta agli Alleati, la resistenza agli attacchi della Kriegsmarine o dei bombardieri della Luftwaffe e l’autoaffondamento in caso di impossibilità di lasciare i porti, che spesso fino a quel giorno fatale erano occupati dalle due marine militari tedesca ed italiana. Fu questo il caso del porto di Bastia, in Corsica, dove alcune unità della Regia Marina dirette in Sardegna fecero scalo nel porto dell’isola francese a fianco di sette unità della marina tedesca. Tra le unità italiane ormeggiate, le torpediniere Ardito e Aliseo di scorta alle navi del convoglio italiano protette dal pattugliamento al largo di Bastia assegnato alla corvetta Cormorano. La notizia della resa italiana creò una situazione surreale, di fronte alla quale inizialmente i comandanti delle navi di Bastia risposero con un accordo tra gentiluomini che avrebbe dovuto comprendere la partenza del naviglio germanico verso i porti del continente italiano. In realtà i comandi della Kriegsmarine avevano già dato disposizioni alle unità tedesche di procedere alla cattura delle navi italiane agendo di sorpresa. Gli ufficiali tedeschi all’ancora a Bastia presero l’ordine alla lettera e attaccarono quando le navi italiane si preparavano a salpare in direzione della Sardegna. Alle 23:45 le squadre di arrembaggio della marina tedesca salirono a bordo dell’Ardito e ingaggiarono una violenta sparatoria con gli ex alleati. Fu una carneficina da una parte e dall’altra, dopo che il concorso delle altre navi tedesche in porto aprirono il fuoco, causando anche diverse vittime per il fuoco amico esploso nel buio dalle navi vicine. Mentre l’Ardito finiva sotto i colpi dell’artiglieria costiera caduta in mani tedesche la torpediniera Aliseo, ai comandi del Capitano di fregata Carlo Fecia di Cossato già eroe della caccia ai sommergibili britannici, riusciva ad uscire dal porto di Bastia. Accortosi dell’attacco alla nave gemella, il capitano fece invertire la rotta ed armò l’Aliseo in assetto da battaglia: l’ordine fu quello di affrontare le 7 unità della Kriegsmarine lanciate all’inseguimento. La torpediniera italiana aprì il fuoco nel cuore della notte con i due cannoni da 100mm. e le mitragliere da 20mm. Mentre la battaglia navale infuriava in vista della costa di Bastia, un’unità di Bersaglieri giunse in soccorso dell’Ardito dopo che i comandi italiani diramarono l’ordine di rispondere al «fuoco con il fuoco». Era ormai la mattina del 9 settembre quando i colpi precisi della Aliseo colpivano le unità antisommergibili tedesche UJ-2203, UJ-2219 (distrutto dall’esplosione delle munizioni in stiva). Il successo della nave italiana fu coronata con l’affondamento del restante naviglio germanico, motozattere F366, F459 e F623 con il recupero dei naufraghi tedeschi. Poco dopo giungeva in supporto la corvetta Cormorano, che finì l’opera con l’affondamento di una motovedetta, della F387 e della F612. Cessato il fuoco, la Aliseo fu raggiunta dalla Ardito gravemente danneggiata ed assieme raggiunsero l’Isola d’Elba facendo ingresso a Portoferraio il 10 settembre. Mentre la Aliseo fu in grado di proseguire per la Sicilia e da lì a Malta, la Ardito troppo danneggiata per riprendere il mare cadde in mano tedesca dopo l’invasione dell’isola da parte della Wehrmacht. Ribattezzata TA-26 ed utilizzata dalla Kriegsmarine, scampò alle mine e ad un bombardamento al largo dell’isola d’Elba. Il suo destino si compì al largo di Rapallo quando, attaccata dalle siluranti americane, saltò in aria inabissandosi. Tragico fu anche il destino dell’eroe di Bastia, Carlo Fecia di Cossato. Profondamente monarchico (proveniva da una nobile famiglia del biellese di antiche tradizioni militari) rimase al comando della Aliseo nelle operazioni di co-belligeranza. Era il giugno del 1944 quando il nuovo governo di Ivanoe Bonomi per la prima volta dall’Unità d’Italia si rifiutò di giurare fedeltà alla casa Savoia. Fecia di Cossato ne rimase sconvolto e ordinò l’insubordinazione all’equipaggio dell’Aliseo, unità già destinata a confluire nel computo delle riparazioni di guerra una volta terminate le ostilità. Arrestato per il suo ammutinamento, l’ammiraglio eroe di Bastia si tolse la vita a Napoli il 27 agosto 1944.La fine della Regia nave «Roma».L’armistizio colse l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante la IX divisione navale della Regia Marina, nei porti di La Spezia e Genova. L’ordine seguito alla comunicazione della resa fu lo stesso dato alla formazione di Fecia di Cossato: raggiungere al più presto la base sarda de La Maddalena e consegnarsi agli Alleati. Un ordine che per buona parte degli uomini della Regia marina, un corpo compatto e combattivo, appariva indigesto. Lo stesso Bergamini obbedì ai comandi non certo con animo entusiasta ma da militare eseguì quanto gli fu richiesto nel rovesciamento dei fronti dai comandi di Supermarina e fece uscire dal porto di La Spezia diciotto unità navali, raggiunte poco dopo dalle navi italiane uscite dal porto di Genova. Tra le unità della grande formazione il fiore del naviglio da guerra italiano: gli incrociatori «Vittorio Veneto», «Italia» e «Roma». Bergamini si trovava su quest’ultima, una nave tecnologicamente avanzata e dotata di sistema radar DETE. La mattina del 9 settembre 1943 il convoglio si trovava al largo dell’isola del Tino a sud di Portovenere quando arrivarono i dispacci che mettevano in guardia gli equipaggi sul possibile attacco di aerosiluranti. Per questo motivo, furono approntati al tiro i cannoni da 90mm. antiaerei pronti al fuoco. Tra i membri dell’equipaggio figurava Arturo Catalano Gonzaga, figlio del nobile comandante del porto didi Bastia che la sera precedente aveva subìto l’arrembaggio dei tedeschi. Poco dopo le ore 15:00 scattò come temuto l’allarme aereo e dalle bocche del «Roma» e delle altre unità italiane partì il fuoco di sbarramento contro una formazione di 28 Dornier Do-217 tedeschi sulla verticale del convoglio giunto al largo dell’isola dell’Asinara. Il «Roma» fu l’inconsapevole bersaglio di una nuova tecnologia bellica, le bombe teleguidate Ruhrstahl FD 1400 «Fritz», dotate di impennaggi e aerofreni controllati da remoto. Il primo ordigno colpì la corazzata italiana sotto la carena, danneggiando i sistemi di brandeggimento dei cannoni che non poterono più essere puntati contro i velivoli nemici. Fu la seconda «Fritz» però a dare il colpo di grazia alla nave della Regia Marina. Il secondo colpo colpì a prora del primo, centrando in pieno la micidiale carica della santa barbara con i barilotti dei cannoni da 381mm. L’effetto, raccontarono poi i pochi superstiti, fu niente di meno che quello di un’eruzione vulcanica. La torre di comando dei pezzi fu letteralmente proiettata in aria assieme ai corpi di Bergamini e degli ufficiali della nave mentre sul ponte si riversava una vera e propria colata lavica per effetto del calore che sciolse l’acciaio della nave. L’agonia durò poco più di venti minuti durante i quali una raccapricciante teoria di uomini anche gravemente feriti, ustionati o mutilati si accalcava presso le scialuppe o si gettava in mare con l’acqua ormai a livello del ponte di coperta. Alle ore 16:11 il «Roma» scompariva tra i flutti dopo essersi spezzato in due tronconi a circa 16 miglia dalla costa dell’Asinara. Con la nave furono inghiottite dal mare 1.352 vite umane. I superstiti, recuperati dalle altre unità del convoglio italiano sotto ripetuti attacchi aerei tedeschi, furono 622. Le unità superstiti con i naufraghi a bordo fecero rotta per le Baleari, sperando nell’assistenza delle autorità della Spagna neutrale. A causa delle difficoltà diplomatiche del momento, il comandante della nave «Pegaso» Capitano di fregata Riccardo Imperiali di Francavilla scelse l’autoaffondamento. Tra i feriti gravi, 26 morirono dopo il ricovero all’ospedale dell’Isola del Rey e sono sepolti nel piccolo cimitero di Porto Mahon. Gli altri superstiti furono internati in diverse località della Spagna. Per decenni il relitto del «Roma» fu cercato sulla base delle informazioni ricevute a terra in quel tragico 9 settembre. Il suo scafo spezzato è stato individuato nel giugno del 2012 dopo che lunghe ed accurate ricerche precedenti, promosse dalla Marina Militare e da privati, chiusero il cerchio. Il piccolo ROV «Pluto Palla», guidato e progettato dall’ingegnere Guido Gay registrò le inequivocabili immagini dell’ammiraglia italiana ferita a morte il 9 settembre 1943. Giace alla profondità di 1.000 metri in una fossa, spezzata in quattro parti. Poco distante dal relitto, il robottino ha individuato anche i resti dell’idrovolante Imam Ro.41 imbarcato quel giorno drammatico sul ponte del «Roma». Cefalonia: una strage in terra e un’altra in mare.L’ampia storiografia disponibile ha reso ampiamente note le tragiche vicende che videro il sacrificio della Divisione «Acqui», colta dalla vendetta tedesca sull’isola greca di Cefalonia. La strage che si compì nell’isola verde e montagnosa non ebbe fine dopo l’8 settembre e non si fermò sulle sponde rocciose dell’isola ionica. Il dramma proseguirà in mare, e vedrà quali vittime i superstiti delle fucilazioni di pochi giorni prima. La resistenza italiana contro l’ex alleato durò fino al 22 settembre 1943 e durante i violenti e ripetuti attacchi dei Tedeschi il mare fece da tomba ai soldati caduti sull’isola, come nel caso della tragedia nella tragedia che si compì il 24 settembre, due giorni dopo la resa italiana. Fucilati a gruppi di quattro, i corpi di 180 ufficiali italiani furono caricati su un’imbarcazione sulla quale furono fatti salire 17 marinai italiani con il compito di piombarli e gettarli in mare. Al termine del macabro rito furono tutti passati per le armi e a loro volta gettati nelle acque cristalline dello Ionio. Quello che seguì non fece altro che aumentare il numero dei caduti della «Acqui» nel momento in cui i Tedeschi ne decisero l’evacuazione via mare per i campi di concentramento. In questo periodo si consumarono le tragedie del piroscafo «Ardena» e del piroscafo ”Marguerita», colmi oltre la capienza di prigionieri italiani catturati a Cefalonia. L’«Ardena», una nave greca confiscata dai tedeschi e adibita a trasporto prigionieri, salpò dal capoluogo dell’Isola Argostoli il 28 settembre 1943 con a bordo 840 prigionieri italiani e 60 militari tedeschi. Il suo viaggio fu breve perché giunto poco a Sud di Argostoli (circa mezzo miglio) urtava una mina e colava a picco. Solo 120 furono gli italiani superstiti, mentre tutti i marinai tedeschi si salvarono con le poche scialuppe di bordo. Sorte altrettanto drammatica spettò al piroscafo «Marguerita», anch’esso utilizzato per il trasporto dei prigionieri della «Acqui». A differenza del primo piroscafo, il «Marguerita» era quasi giunto alla destinazione nel porto di Patrasso dopo essere salpato da Argostoli il 13 ottobre 1943, con a bordo stipati come animali 900 italiani, tra cui molti feriti della battaglia di Cefalonia. All’imbocco del porto il piroscafo urtò una mina e affondò. Al dramma della Divisione italiana si aggiungevano altri 500 morti inghiottiti dal mare.Oltre alla nave ammiraglia «Roma», il prezzo di sangue pagato dalla Regia Marina per cause riconducibili agli effetti dell’armistizio comprese l’affondamento di unità di prim’ordine della flotta italiana operante nel Mediterraneo. Il cacciatorpediniere «Antonio da Noli» salpò da La Spezia l’8 settembre con destinazione Civitavecchia, dove avrebbe dovuto trasportare il Re in fuga da Roma. Dopo la scelta di Pescara, alla nave fu dato l’ordine, come fu per il «Roma» di raggiungere la roccaforte de La Maddalena. Qui ricevette l’ulteriore compito di uscire dal porto a caccia di naviglio tedesco, che incontrò nelle tormentate acque delle Bocche di Bonifacio nel tardo pomeriggio del 9 settembre ingaggiando battaglia. Danneggiato dal fuoco delle artiglierie costiere tedesche della costa Corsa, l’«Antonio da Noli» stava per allontanarsi dal tiro quando urtò una mina che squarciò la nave all’altezza della plancia uccidendo il comandante e gli ufficiali di bordo. I naufraghi non poterono essere recuperati dalle altre unità italiane perché nel frattempo una formazione di cacciabombardieri tedeschi iniziò un violento bombardamento. Oltre ai marinai affondati con il cacciatorpediniere, altri perirono per il mitragliamento aereo. Soltanto il 12 settembre i superstiti furono issati dalle scialuppe su un sommergibile della Royal Navy. Erano solo 39 e finirono la guerra nei campi di prigionia in Algeria.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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