2023-05-25
Da Manzoni a Mazzini: perché un Risorgimento «antirazzista» è impossibile
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La partenza da Quarto (Museo del Risorgimento)
Le recenti parole di Sergio Mattarella riaprono la diatriba sulla vera eredità politica dei nostri padri nobili. Purtroppo per la sinistra, però, la storia parla sin troppo chiaramente.Ci mancava solo l'Alessandro Manzoni «boldrinizzato». Le recenti parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul padre dei Promessi sposi, lette – forse non a torto – come una risposta indiretta alle esternazioni dei membri del governo sulla «sostituzione etnica», ripropongono un tema antico. Dalle brigate partigiane intitolate a Garibaldi, fino a casi più recenti (una lista dell'estrema sinistra per il Comune di Roma venne chiamata pochi anni fa «Repubblica romana»), il problema della conciliabilità di tradizione antifascista e memoria risorgimentale non ha mai cessato di porsi. A osservarlo da vicino, il rapporto tra Risorgimento e Resistenza appare in realtà più complicato di quanto non sembri a prima vista. Esaminando i riferimenti garibaldini presenti nella Rsi, la studiosa Elena Pala ha concluso, qualche anno fa, che, a parte il nome della celebre brigata partigiana, la Resistenza fu assai meno incline delle ultime camice nere a richiamarsi all’Eroe dei due mondi. Lo storico Simon Levis Sullam, dal canto suo, ha affrontato la storia della posterità mazziniana, dichiarando che l’appropriazione «ideologica» dei fascisti fosse comunque più legittimata della appropriazione «simbolica» degli antifascisti.Quanto agli antifascisti storici, loro sembravano in realtà avere le idee chiare su temi come il mazzinianesimo: «Se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Mazzini» (Piero Gobetti). «Noi non siamo seguaci del Mazzini, noi non accettiamo il suo sistema» (Carlo Rosselli). «[Mazzini] non riuscì a formulare e dedurre teoricamente il concetto di libertà, e anzi teoricamente lo compromise, e quasi lo negò» (Benedetto Croce). «Mazzini, se fosse vivo, plaudirebbe alle dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini» (Palmiro Togliatti). «[Mazzini offre] affermazioni nebulose… vuote chiacchiere» (Antonio Gramsci).Non solo. Per quanto possa disturbare gli esegeti moderni, la verità è che tutto il nostro Risorgimento gronda di riferimenti al sangue e al suolo, malgrado un’idea consolidata dai tempi di Chabod, che operò la famosa distinzione tra un romanticismo tedesco «cattivo», ispirato al sangue e al suolo, e un pensiero italiano che «svolge invece l’idea di nazione su basi decisamente volontaristiche». E tuttavia è Mazzini, nel suo testo del giugno 1858, Al conte di Cavour, a scrivere: «Unità e libertà nazionale non si fondano se non per insurrezione di popolo, per modo collettivo, operoso degli elementi interni, col sangue e col sacrificio degli abitatori del suolo». Così, invece, Mazzini si rivolge agli operai italiani: «Dio v’ha fatti ventidue milioni d’uomini, con una stessa fisionomia per conoscervi, con una stessa lingua madre di tutti i vostri dialetti per intendervi, con una stessa indole svegliata, attiva, robusta, per associarvi». È quindi Dio in persona, non il caso, la storia o la libera scelta degli individui, che ha creato gli italiani così come sono, con la loro fisionomia, lingua e indole nazionale.Poi c’è appunto Alessandro Manzoni, che in Marzo 1821 parla di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor» e poco dopo fa appello proprio al «suolo» e alla «terra»: «O stranieri, nel proprio retaggio / torna Italia, e il suo suolo riprende; / o stranieri, strappate le tende / da una terra che madre non v’è». Riferimenti al «sangue», al «tipo fisico», appaiono anche in Vincenzo Gioberti – «v’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre» – e Francesco De Sanctis – «saremo una nazione di ventisei milioni di uomini, una di lingua, di religione, di memorie, di coltura, d’ingegno e di tipo».Giovanni Berchet, dal canto suo, nelle Fantasie, traccia un analogo perimetro ideale: «Perché ignoti che qui non han padri, / Qui staran come in proprio retaggio? / Una terra, un costume, un linguaggio / Dio lor anco non diede a fruir?». Ha diritto a stare qui, su questa terra, chi ha qui i suoi padri, cioè il suo sangue. In Cuore di Edmondo De Amicis, poi, il padre di Enrico Bottini spiega così al figlio che cosa sia l’amor patrio: «Poiché il racconto del Tamburino t’ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d’esame: Perché amate l’Italia? Perché amo l’Italia? Non ti si son presentate subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano». Altrettanto significativa la voce «Nazione» data da Tommaseo e Bellini nel loro Dizionario del 1869: «Nazione, Schiatta d’uomini avente la medesima origine e parlante la lingua medesima. Unione di gente in vincolo di tradizioni civili, morali, intellettuali. Società di famiglie in vincolo comune e costante di discendenza, di tradizioni, d’affetti, di linguaggio, d’istituzione, di fatti, d’abitazione: massime d’abitazione e d’affetti».Non è quindi a torto se lo storico Alberto Maria Banti ha molto insistito su questo punto, individuando sin da subito, nel patriottismo italiano risorgimentale, il tema della nazione come una comunità di parentela e di discendenza, dotata di una sua genealogia e di una sua specifica storicità, domandandosi se, per l’Italia di oggi, non sia più coerentemente antirazzista rinunciare tout court a tale retaggio.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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