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2022-03-24
Mannaia dell’Europa sull’agricoltura. In nome del «green» avremo la fame
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L’Europa sull’agricoltura ha fatto una scelta ideologica e neppure sotto le bombe di Kiev e di fronte alla carestia che affamerà i Paesi più deboli è disposta a cambiarla: va sacrificata la produzione a vantaggio dell’ambiente. La crisi del grano è derubricata ad accidente temporaneo. Per questo esce un pacchetto di aiuti di modestissima portata: 1,5 miliardi di sostegni, una parziale rinuncia a tenere i terreni incolti, nessuna risposta alla crisi dei mangimi.
Sono le linee guida disegnate dalla lobby dei verdi e vegana per cui la resistenza a Vladimir Putin passa dal no alla bistecca. Parola del ministro tedesco, Cem Ozdemir, un ultras del veganismo ambientalista. Che poi - come avverte Emmanuel Macron - la crisi del grano, del mais, dello zucchero innescata dalla guerra in Ucraina finisca per determinare nell’arco di un anno una delle più gravi crisi alimentari mai viste portando l’Africa alla fame non interessa a Bruxelles. Non ci sarà alcuna deviazione dalla traiettoria del «Farm to fork», che prevede una riduzione di produzioni agricole del 30% nel continente, nessun ripensamento sul Green deal e solo un parziale allentamento di alcune regole. Il Paese più svantaggiato è come al solito l’Italia.
C’è stato, lunedì, a Bruxelles, il Consiglio dei ministri agricoli. Pare preceduto da un colloquio tra il ministro tedesco e Ursula von der Leyen sulle misure da adottare dopo l’invasione in Ucraina. Ozdemir, leader dei Verdi tedeschi, ha un passato alla «corte» di Barack Obama, dove si «rifugiò» dopo uno scandalo relativo a contributi elettorali ricevuti nel 1994, quando divenne il primo deputato di origine turca eletto nel Bundestag. I suoi legami con la lobby ambientalista americana sono fortissimi. La sua idea è che il mondo deve diventare progressivamente vegano - è il nuovo business delle multinazionali - e agli altri ministri sui mangimi che mancano ha detto chiaro: «Dobbiamo consumare meno carne: preoccuparsi dei mangimi non è decisivo né per gli uomini né per l’ambiente.» Ozdemir aveva già espresso questo suo concetto in una intervista a Der Spiegel una settimana fa. «Mangiare meno carne», sostiene, «sarebbe un contributo contro Putin, un sistema basato sugli allevamenti intensivi in cui il 60% del grano finisce nelle mangiatoie è insostenibile e non funziona in un contesto globale». E così si toglie il grano agli allevamenti - per la verità le vacche mangiano mais, ma alla causa verde non fa comodo dirlo - per evitare di aumentare le produzioni, perché l’idea rimane che l’agricoltura è nemica dell’ambiente. Che sia così lo conferma anche Eleonora Evi, europarlamentare verde, che in totale dissenso dalle richieste avanzate al Consiglio d’Europa dal nostro ministro, Stefano Patuanelli, sostiene: «Ho scritto con il gruppo Greens/Ale alla Commissione per chiedere di andare avanti col “Farm to fork”: la guerra non deve diventare un pretesto per disattendere gli impegni europei a tutela della natura a medio e lungo termine.» Ovviamente tanto la von der Leyen quanto il suo vice, Frans Timmermans, impegnato ad ascoltare le richieste delle multinazionali dell’alimentazione, sono lieti del sostegno verde. Stefano Patuanelli ha chiesto invece che siano sospesi gli effetti della Pac, si possano mettere a coltura i terreni ora a riposo, sia sospesa la rotazione delle colture, ci siano più aiuti economici ai campi e per la pesca e si possa usare come concimi i digestati per il biogas. La risposta della Commissione è esigua: aiuti di Stato limitati a 35.000 euro, uso dei terreni incolti solo per un anno.
Severa la critica di Luigi Scordamaglia, di Filiera Italia: «Il pacchetto di misure riflette la scarsa consapevolezza che la Commissione sembra avere sulla gravità della crisi ucraina. La Commissione considera scarsamente gli allarmi venuti da molti capi di Stato e di governo sull’emergenza alimentare che si abbatterà sulle popolazioni più deboli. I 35.000 euro come plafond massimo di aiuti per le aziende agricole, che stanno subendo costi enormi è inaccettabile, così come è assurdo il limite di 400.000 euro per le imprese agroalimentari. Il nostro governo pensa ad aiuti ben più consistenti che saranno però vanificati da questa misura europea». Per quanto riguarda le modifiche alla Pac, Scordamaglia nota: «Se è stata accettata la sospensione dei terreni a riposo non è invece stata data la deroga sul limite di superficie per coltura, lasciando l’obbligo di un numero minimo di colture per azienda, che è l’opposto di quello che servirebbe oggi con la grave carenza di mais e di altri prodotti». Anche lo sblocco di 200.000 ettari da coltivare a mais - salutato con favore da Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - risolve in minima parte la penuria di mangimi. Del resto solo una telefonata tra Mario Draghi e Viktor Orbán - l’Ungheria, che ha dato lo stop all’export, è il nostro primo fornitore di grano e di mais - ha in parte riaperto le spedizioni verso l’Italia nel silenzio dell’Ue. La crisi dei cereali però non è affatto risolta. Ma non c’è fretta: per fermare Putin basta un’insalata.
Torna l’incubo dell’arma migratoria
La crisi ucraina potrebbe determinare un impatto pericoloso sui flussi migratori provenienti dal continente africano: un’area, questa, che rischia dei contraccolpi indiretti a causa di quanto sta accadendo nell’Europa orientale. In particolare, si delinea un duplice problema, che riguarda energia e cereali.
L’Ucraina e la Russia figurano tra i principali fornitori del continente per quanto riguarda il grano. Ora, la guerra e le sanzioni stanno causando un incremento significativo del prezzo dei cereali, provocando un effetto negativo sugli Stati africani. La Libia, che dipende dal grano ucraino per il 40%, ha per esempio registrato un considerevole incremento del prezzo della farina. Un discorso simile vale per l’approvvigionamento di carburante. In Nigeria si è verificato un deciso aumento del prezzo del diesel, mentre l’inflazione sta attanagliando Paesi come il Kenya e l’Uganda.
Nei giorni scorsi, Human rights watch ha non a caso sottolineato che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe aggravare la crisi alimentare in Nord Africa e in Medio Oriente; dello stesso avviso si è detto ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Non va del resto trascurato che Russia e Ucraina, insieme, rappresentano il 14% di tutta la produzione mondiale di grano e il 29% di tutte le esportazioni di grano. È dunque chiaro che la crisi alimentare ed energetica rischia di creare forte instabilità nel continente africano. Certo: va sottolineato che alcuni Paesi africani dispongono di risorse energetiche. Tuttavia in molti casi incontrano problemi di produzione (secondo Deutsche Welle, la Nigeria e l’Angola riescono per esempio a pompare soltanto il 94% e il 78% della loro quota Opec).
In tutto questo, non bisogna dimenticare che, nel corso degli anni, Russia e Cina hanno portato avanti una progressiva espansione politica ed economica nell’area. E Mosca e Pechino puntano a mantenere tale influenza. Basti pensare che, appena pochi giorni fa, la Repubblica popolare ha siglato un accordo da 7 miliardi di dollari con l’Algeria per la produzione di fertilizzanti: in particolare, il progetto punta a produrre oltre 5 milioni di tonnellate di fertilizzante all’anno nella regione di Tébessa e ha come ulteriore obiettivo quello di creare almeno 12.000 posti di lavoro. In effetti, a causa della guerra in Ucraina, si stanno verificando problemi di approvvigionamento dalla Russia proprio nel settore dei fertilizzanti: un fattore di cui il Dragone ha evidentemente intenzione di approfittare.
La scaltra mossa di Pechino ricalca del resto una strategia che abbiamo già visto all’opera l’anno scorso, quando il regime di Xi Jinping ha consolidato la propria influenza su Africa e Medio Oriente a colpi di diplomazia vaccinale. Dall’altra parte, non dobbiamo trascurare che la Russia ha intensificato la propria presenza in varie parti del continente africano negli ultimi anni: basti pensare all’incremento di influenza politica su Paesi come la Repubblica Centrafricana e il Mali. Proprio in Mali, Vladimir Putin è riuscito a sfruttare la crescente impopolarità francese, rafforzando i suoi legami con Bamako e portando all’uscita delle truppe di Parigi dallo Stato. Ricordiamo, per inciso, che una parte consistente di questa influenza viene veicolata dal Cremlino attraverso i mercenari del Wagner group, che hanno esteso la propria longa manus sulla Libia orientale e su parte del Sahel. Quel Sahel che risulta notoriamente un’area cruciale per i flussi migratori diretti verso le nostre coste.
Ed è qui che arriviamo al nocciolo del problema. Gli impatti della crisi ucraina saranno prevedibilmente utilizzati da Mosca e Pechino per consolidare la propria posizione in Africa. Un elemento, questo, che sarà indirizzato a due obiettivi principali. Entrambe le potenze vogliono innanzitutto aumentare il proprio peso in sede Onu e, all’occorrenza, utilizzare la leva migratoria per mettere sotto pressione l’Unione europea. D’altronde, il pericolo che la fame inneschi altre ondate di sbarchi, lo ha evocato pure Volodymyr Zelensky, nel suo discorso a Montecitorio. Bruxelles, stavolta, non può farsi trovare impreparata.
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Nonostante guerra e crisi alimentare, Bruxelles conferma il taglio «ecologico» delle produzioni e autorizza solo aiuti esigui alle aziende. La linea (surreale) la dà il ministro tedesco: «Meno carne per fermare Mosca».Il conflitto aggraverà la scarsità di cibo e gasolio in Africa, stimolando il «soccorso» di Cina e Russia, già dilaganti nel continente. E capaci di sfruttare il ricatto degli sbarchi.Lo speciale contiene due articoli.L’Europa sull’agricoltura ha fatto una scelta ideologica e neppure sotto le bombe di Kiev e di fronte alla carestia che affamerà i Paesi più deboli è disposta a cambiarla: va sacrificata la produzione a vantaggio dell’ambiente. La crisi del grano è derubricata ad accidente temporaneo. Per questo esce un pacchetto di aiuti di modestissima portata: 1,5 miliardi di sostegni, una parziale rinuncia a tenere i terreni incolti, nessuna risposta alla crisi dei mangimi. Sono le linee guida disegnate dalla lobby dei verdi e vegana per cui la resistenza a Vladimir Putin passa dal no alla bistecca. Parola del ministro tedesco, Cem Ozdemir, un ultras del veganismo ambientalista. Che poi - come avverte Emmanuel Macron - la crisi del grano, del mais, dello zucchero innescata dalla guerra in Ucraina finisca per determinare nell’arco di un anno una delle più gravi crisi alimentari mai viste portando l’Africa alla fame non interessa a Bruxelles. Non ci sarà alcuna deviazione dalla traiettoria del «Farm to fork», che prevede una riduzione di produzioni agricole del 30% nel continente, nessun ripensamento sul Green deal e solo un parziale allentamento di alcune regole. Il Paese più svantaggiato è come al solito l’Italia. C’è stato, lunedì, a Bruxelles, il Consiglio dei ministri agricoli. Pare preceduto da un colloquio tra il ministro tedesco e Ursula von der Leyen sulle misure da adottare dopo l’invasione in Ucraina. Ozdemir, leader dei Verdi tedeschi, ha un passato alla «corte» di Barack Obama, dove si «rifugiò» dopo uno scandalo relativo a contributi elettorali ricevuti nel 1994, quando divenne il primo deputato di origine turca eletto nel Bundestag. I suoi legami con la lobby ambientalista americana sono fortissimi. La sua idea è che il mondo deve diventare progressivamente vegano - è il nuovo business delle multinazionali - e agli altri ministri sui mangimi che mancano ha detto chiaro: «Dobbiamo consumare meno carne: preoccuparsi dei mangimi non è decisivo né per gli uomini né per l’ambiente.» Ozdemir aveva già espresso questo suo concetto in una intervista a Der Spiegel una settimana fa. «Mangiare meno carne», sostiene, «sarebbe un contributo contro Putin, un sistema basato sugli allevamenti intensivi in cui il 60% del grano finisce nelle mangiatoie è insostenibile e non funziona in un contesto globale». E così si toglie il grano agli allevamenti - per la verità le vacche mangiano mais, ma alla causa verde non fa comodo dirlo - per evitare di aumentare le produzioni, perché l’idea rimane che l’agricoltura è nemica dell’ambiente. Che sia così lo conferma anche Eleonora Evi, europarlamentare verde, che in totale dissenso dalle richieste avanzate al Consiglio d’Europa dal nostro ministro, Stefano Patuanelli, sostiene: «Ho scritto con il gruppo Greens/Ale alla Commissione per chiedere di andare avanti col “Farm to fork”: la guerra non deve diventare un pretesto per disattendere gli impegni europei a tutela della natura a medio e lungo termine.» Ovviamente tanto la von der Leyen quanto il suo vice, Frans Timmermans, impegnato ad ascoltare le richieste delle multinazionali dell’alimentazione, sono lieti del sostegno verde. Stefano Patuanelli ha chiesto invece che siano sospesi gli effetti della Pac, si possano mettere a coltura i terreni ora a riposo, sia sospesa la rotazione delle colture, ci siano più aiuti economici ai campi e per la pesca e si possa usare come concimi i digestati per il biogas. La risposta della Commissione è esigua: aiuti di Stato limitati a 35.000 euro, uso dei terreni incolti solo per un anno. Severa la critica di Luigi Scordamaglia, di Filiera Italia: «Il pacchetto di misure riflette la scarsa consapevolezza che la Commissione sembra avere sulla gravità della crisi ucraina. La Commissione considera scarsamente gli allarmi venuti da molti capi di Stato e di governo sull’emergenza alimentare che si abbatterà sulle popolazioni più deboli. I 35.000 euro come plafond massimo di aiuti per le aziende agricole, che stanno subendo costi enormi è inaccettabile, così come è assurdo il limite di 400.000 euro per le imprese agroalimentari. Il nostro governo pensa ad aiuti ben più consistenti che saranno però vanificati da questa misura europea». Per quanto riguarda le modifiche alla Pac, Scordamaglia nota: «Se è stata accettata la sospensione dei terreni a riposo non è invece stata data la deroga sul limite di superficie per coltura, lasciando l’obbligo di un numero minimo di colture per azienda, che è l’opposto di quello che servirebbe oggi con la grave carenza di mais e di altri prodotti». Anche lo sblocco di 200.000 ettari da coltivare a mais - salutato con favore da Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - risolve in minima parte la penuria di mangimi. Del resto solo una telefonata tra Mario Draghi e Viktor Orbán - l’Ungheria, che ha dato lo stop all’export, è il nostro primo fornitore di grano e di mais - ha in parte riaperto le spedizioni verso l’Italia nel silenzio dell’Ue. La crisi dei cereali però non è affatto risolta. 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Ora, la guerra e le sanzioni stanno causando un incremento significativo del prezzo dei cereali, provocando un effetto negativo sugli Stati africani. La Libia, che dipende dal grano ucraino per il 40%, ha per esempio registrato un considerevole incremento del prezzo della farina. Un discorso simile vale per l’approvvigionamento di carburante. In Nigeria si è verificato un deciso aumento del prezzo del diesel, mentre l’inflazione sta attanagliando Paesi come il Kenya e l’Uganda. Nei giorni scorsi, Human rights watch ha non a caso sottolineato che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe aggravare la crisi alimentare in Nord Africa e in Medio Oriente; dello stesso avviso si è detto ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Non va del resto trascurato che Russia e Ucraina, insieme, rappresentano il 14% di tutta la produzione mondiale di grano e il 29% di tutte le esportazioni di grano. È dunque chiaro che la crisi alimentare ed energetica rischia di creare forte instabilità nel continente africano. Certo: va sottolineato che alcuni Paesi africani dispongono di risorse energetiche. Tuttavia in molti casi incontrano problemi di produzione (secondo Deutsche Welle, la Nigeria e l’Angola riescono per esempio a pompare soltanto il 94% e il 78% della loro quota Opec). In tutto questo, non bisogna dimenticare che, nel corso degli anni, Russia e Cina hanno portato avanti una progressiva espansione politica ed economica nell’area. E Mosca e Pechino puntano a mantenere tale influenza. Basti pensare che, appena pochi giorni fa, la Repubblica popolare ha siglato un accordo da 7 miliardi di dollari con l’Algeria per la produzione di fertilizzanti: in particolare, il progetto punta a produrre oltre 5 milioni di tonnellate di fertilizzante all’anno nella regione di Tébessa e ha come ulteriore obiettivo quello di creare almeno 12.000 posti di lavoro. In effetti, a causa della guerra in Ucraina, si stanno verificando problemi di approvvigionamento dalla Russia proprio nel settore dei fertilizzanti: un fattore di cui il Dragone ha evidentemente intenzione di approfittare. La scaltra mossa di Pechino ricalca del resto una strategia che abbiamo già visto all’opera l’anno scorso, quando il regime di Xi Jinping ha consolidato la propria influenza su Africa e Medio Oriente a colpi di diplomazia vaccinale. Dall’altra parte, non dobbiamo trascurare che la Russia ha intensificato la propria presenza in varie parti del continente africano negli ultimi anni: basti pensare all’incremento di influenza politica su Paesi come la Repubblica Centrafricana e il Mali. Proprio in Mali, Vladimir Putin è riuscito a sfruttare la crescente impopolarità francese, rafforzando i suoi legami con Bamako e portando all’uscita delle truppe di Parigi dallo Stato. Ricordiamo, per inciso, che una parte consistente di questa influenza viene veicolata dal Cremlino attraverso i mercenari del Wagner group, che hanno esteso la propria longa manus sulla Libia orientale e su parte del Sahel. Quel Sahel che risulta notoriamente un’area cruciale per i flussi migratori diretti verso le nostre coste. Ed è qui che arriviamo al nocciolo del problema. Gli impatti della crisi ucraina saranno prevedibilmente utilizzati da Mosca e Pechino per consolidare la propria posizione in Africa. Un elemento, questo, che sarà indirizzato a due obiettivi principali. Entrambe le potenze vogliono innanzitutto aumentare il proprio peso in sede Onu e, all’occorrenza, utilizzare la leva migratoria per mettere sotto pressione l’Unione europea. D’altronde, il pericolo che la fame inneschi altre ondate di sbarchi, lo ha evocato pure Volodymyr Zelensky, nel suo discorso a Montecitorio. Bruxelles, stavolta, non può farsi trovare impreparata.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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