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2022-03-24
Mannaia dell’Europa sull’agricoltura. In nome del «green» avremo la fame
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L’Europa sull’agricoltura ha fatto una scelta ideologica e neppure sotto le bombe di Kiev e di fronte alla carestia che affamerà i Paesi più deboli è disposta a cambiarla: va sacrificata la produzione a vantaggio dell’ambiente. La crisi del grano è derubricata ad accidente temporaneo. Per questo esce un pacchetto di aiuti di modestissima portata: 1,5 miliardi di sostegni, una parziale rinuncia a tenere i terreni incolti, nessuna risposta alla crisi dei mangimi.
Sono le linee guida disegnate dalla lobby dei verdi e vegana per cui la resistenza a Vladimir Putin passa dal no alla bistecca. Parola del ministro tedesco, Cem Ozdemir, un ultras del veganismo ambientalista. Che poi - come avverte Emmanuel Macron - la crisi del grano, del mais, dello zucchero innescata dalla guerra in Ucraina finisca per determinare nell’arco di un anno una delle più gravi crisi alimentari mai viste portando l’Africa alla fame non interessa a Bruxelles. Non ci sarà alcuna deviazione dalla traiettoria del «Farm to fork», che prevede una riduzione di produzioni agricole del 30% nel continente, nessun ripensamento sul Green deal e solo un parziale allentamento di alcune regole. Il Paese più svantaggiato è come al solito l’Italia.
C’è stato, lunedì, a Bruxelles, il Consiglio dei ministri agricoli. Pare preceduto da un colloquio tra il ministro tedesco e Ursula von der Leyen sulle misure da adottare dopo l’invasione in Ucraina. Ozdemir, leader dei Verdi tedeschi, ha un passato alla «corte» di Barack Obama, dove si «rifugiò» dopo uno scandalo relativo a contributi elettorali ricevuti nel 1994, quando divenne il primo deputato di origine turca eletto nel Bundestag. I suoi legami con la lobby ambientalista americana sono fortissimi. La sua idea è che il mondo deve diventare progressivamente vegano - è il nuovo business delle multinazionali - e agli altri ministri sui mangimi che mancano ha detto chiaro: «Dobbiamo consumare meno carne: preoccuparsi dei mangimi non è decisivo né per gli uomini né per l’ambiente.» Ozdemir aveva già espresso questo suo concetto in una intervista a Der Spiegel una settimana fa. «Mangiare meno carne», sostiene, «sarebbe un contributo contro Putin, un sistema basato sugli allevamenti intensivi in cui il 60% del grano finisce nelle mangiatoie è insostenibile e non funziona in un contesto globale». E così si toglie il grano agli allevamenti - per la verità le vacche mangiano mais, ma alla causa verde non fa comodo dirlo - per evitare di aumentare le produzioni, perché l’idea rimane che l’agricoltura è nemica dell’ambiente. Che sia così lo conferma anche Eleonora Evi, europarlamentare verde, che in totale dissenso dalle richieste avanzate al Consiglio d’Europa dal nostro ministro, Stefano Patuanelli, sostiene: «Ho scritto con il gruppo Greens/Ale alla Commissione per chiedere di andare avanti col “Farm to fork”: la guerra non deve diventare un pretesto per disattendere gli impegni europei a tutela della natura a medio e lungo termine.» Ovviamente tanto la von der Leyen quanto il suo vice, Frans Timmermans, impegnato ad ascoltare le richieste delle multinazionali dell’alimentazione, sono lieti del sostegno verde. Stefano Patuanelli ha chiesto invece che siano sospesi gli effetti della Pac, si possano mettere a coltura i terreni ora a riposo, sia sospesa la rotazione delle colture, ci siano più aiuti economici ai campi e per la pesca e si possa usare come concimi i digestati per il biogas. La risposta della Commissione è esigua: aiuti di Stato limitati a 35.000 euro, uso dei terreni incolti solo per un anno.
Severa la critica di Luigi Scordamaglia, di Filiera Italia: «Il pacchetto di misure riflette la scarsa consapevolezza che la Commissione sembra avere sulla gravità della crisi ucraina. La Commissione considera scarsamente gli allarmi venuti da molti capi di Stato e di governo sull’emergenza alimentare che si abbatterà sulle popolazioni più deboli. I 35.000 euro come plafond massimo di aiuti per le aziende agricole, che stanno subendo costi enormi è inaccettabile, così come è assurdo il limite di 400.000 euro per le imprese agroalimentari. Il nostro governo pensa ad aiuti ben più consistenti che saranno però vanificati da questa misura europea». Per quanto riguarda le modifiche alla Pac, Scordamaglia nota: «Se è stata accettata la sospensione dei terreni a riposo non è invece stata data la deroga sul limite di superficie per coltura, lasciando l’obbligo di un numero minimo di colture per azienda, che è l’opposto di quello che servirebbe oggi con la grave carenza di mais e di altri prodotti». Anche lo sblocco di 200.000 ettari da coltivare a mais - salutato con favore da Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - risolve in minima parte la penuria di mangimi. Del resto solo una telefonata tra Mario Draghi e Viktor Orbán - l’Ungheria, che ha dato lo stop all’export, è il nostro primo fornitore di grano e di mais - ha in parte riaperto le spedizioni verso l’Italia nel silenzio dell’Ue. La crisi dei cereali però non è affatto risolta. Ma non c’è fretta: per fermare Putin basta un’insalata.
Torna l’incubo dell’arma migratoria
La crisi ucraina potrebbe determinare un impatto pericoloso sui flussi migratori provenienti dal continente africano: un’area, questa, che rischia dei contraccolpi indiretti a causa di quanto sta accadendo nell’Europa orientale. In particolare, si delinea un duplice problema, che riguarda energia e cereali.
L’Ucraina e la Russia figurano tra i principali fornitori del continente per quanto riguarda il grano. Ora, la guerra e le sanzioni stanno causando un incremento significativo del prezzo dei cereali, provocando un effetto negativo sugli Stati africani. La Libia, che dipende dal grano ucraino per il 40%, ha per esempio registrato un considerevole incremento del prezzo della farina. Un discorso simile vale per l’approvvigionamento di carburante. In Nigeria si è verificato un deciso aumento del prezzo del diesel, mentre l’inflazione sta attanagliando Paesi come il Kenya e l’Uganda.
Nei giorni scorsi, Human rights watch ha non a caso sottolineato che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe aggravare la crisi alimentare in Nord Africa e in Medio Oriente; dello stesso avviso si è detto ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Non va del resto trascurato che Russia e Ucraina, insieme, rappresentano il 14% di tutta la produzione mondiale di grano e il 29% di tutte le esportazioni di grano. È dunque chiaro che la crisi alimentare ed energetica rischia di creare forte instabilità nel continente africano. Certo: va sottolineato che alcuni Paesi africani dispongono di risorse energetiche. Tuttavia in molti casi incontrano problemi di produzione (secondo Deutsche Welle, la Nigeria e l’Angola riescono per esempio a pompare soltanto il 94% e il 78% della loro quota Opec).
In tutto questo, non bisogna dimenticare che, nel corso degli anni, Russia e Cina hanno portato avanti una progressiva espansione politica ed economica nell’area. E Mosca e Pechino puntano a mantenere tale influenza. Basti pensare che, appena pochi giorni fa, la Repubblica popolare ha siglato un accordo da 7 miliardi di dollari con l’Algeria per la produzione di fertilizzanti: in particolare, il progetto punta a produrre oltre 5 milioni di tonnellate di fertilizzante all’anno nella regione di Tébessa e ha come ulteriore obiettivo quello di creare almeno 12.000 posti di lavoro. In effetti, a causa della guerra in Ucraina, si stanno verificando problemi di approvvigionamento dalla Russia proprio nel settore dei fertilizzanti: un fattore di cui il Dragone ha evidentemente intenzione di approfittare.
La scaltra mossa di Pechino ricalca del resto una strategia che abbiamo già visto all’opera l’anno scorso, quando il regime di Xi Jinping ha consolidato la propria influenza su Africa e Medio Oriente a colpi di diplomazia vaccinale. Dall’altra parte, non dobbiamo trascurare che la Russia ha intensificato la propria presenza in varie parti del continente africano negli ultimi anni: basti pensare all’incremento di influenza politica su Paesi come la Repubblica Centrafricana e il Mali. Proprio in Mali, Vladimir Putin è riuscito a sfruttare la crescente impopolarità francese, rafforzando i suoi legami con Bamako e portando all’uscita delle truppe di Parigi dallo Stato. Ricordiamo, per inciso, che una parte consistente di questa influenza viene veicolata dal Cremlino attraverso i mercenari del Wagner group, che hanno esteso la propria longa manus sulla Libia orientale e su parte del Sahel. Quel Sahel che risulta notoriamente un’area cruciale per i flussi migratori diretti verso le nostre coste.
Ed è qui che arriviamo al nocciolo del problema. Gli impatti della crisi ucraina saranno prevedibilmente utilizzati da Mosca e Pechino per consolidare la propria posizione in Africa. Un elemento, questo, che sarà indirizzato a due obiettivi principali. Entrambe le potenze vogliono innanzitutto aumentare il proprio peso in sede Onu e, all’occorrenza, utilizzare la leva migratoria per mettere sotto pressione l’Unione europea. D’altronde, il pericolo che la fame inneschi altre ondate di sbarchi, lo ha evocato pure Volodymyr Zelensky, nel suo discorso a Montecitorio. Bruxelles, stavolta, non può farsi trovare impreparata.
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Nonostante guerra e crisi alimentare, Bruxelles conferma il taglio «ecologico» delle produzioni e autorizza solo aiuti esigui alle aziende. La linea (surreale) la dà il ministro tedesco: «Meno carne per fermare Mosca».Il conflitto aggraverà la scarsità di cibo e gasolio in Africa, stimolando il «soccorso» di Cina e Russia, già dilaganti nel continente. E capaci di sfruttare il ricatto degli sbarchi.Lo speciale contiene due articoli.L’Europa sull’agricoltura ha fatto una scelta ideologica e neppure sotto le bombe di Kiev e di fronte alla carestia che affamerà i Paesi più deboli è disposta a cambiarla: va sacrificata la produzione a vantaggio dell’ambiente. La crisi del grano è derubricata ad accidente temporaneo. Per questo esce un pacchetto di aiuti di modestissima portata: 1,5 miliardi di sostegni, una parziale rinuncia a tenere i terreni incolti, nessuna risposta alla crisi dei mangimi. Sono le linee guida disegnate dalla lobby dei verdi e vegana per cui la resistenza a Vladimir Putin passa dal no alla bistecca. Parola del ministro tedesco, Cem Ozdemir, un ultras del veganismo ambientalista. Che poi - come avverte Emmanuel Macron - la crisi del grano, del mais, dello zucchero innescata dalla guerra in Ucraina finisca per determinare nell’arco di un anno una delle più gravi crisi alimentari mai viste portando l’Africa alla fame non interessa a Bruxelles. Non ci sarà alcuna deviazione dalla traiettoria del «Farm to fork», che prevede una riduzione di produzioni agricole del 30% nel continente, nessun ripensamento sul Green deal e solo un parziale allentamento di alcune regole. Il Paese più svantaggiato è come al solito l’Italia. C’è stato, lunedì, a Bruxelles, il Consiglio dei ministri agricoli. Pare preceduto da un colloquio tra il ministro tedesco e Ursula von der Leyen sulle misure da adottare dopo l’invasione in Ucraina. Ozdemir, leader dei Verdi tedeschi, ha un passato alla «corte» di Barack Obama, dove si «rifugiò» dopo uno scandalo relativo a contributi elettorali ricevuti nel 1994, quando divenne il primo deputato di origine turca eletto nel Bundestag. I suoi legami con la lobby ambientalista americana sono fortissimi. La sua idea è che il mondo deve diventare progressivamente vegano - è il nuovo business delle multinazionali - e agli altri ministri sui mangimi che mancano ha detto chiaro: «Dobbiamo consumare meno carne: preoccuparsi dei mangimi non è decisivo né per gli uomini né per l’ambiente.» Ozdemir aveva già espresso questo suo concetto in una intervista a Der Spiegel una settimana fa. «Mangiare meno carne», sostiene, «sarebbe un contributo contro Putin, un sistema basato sugli allevamenti intensivi in cui il 60% del grano finisce nelle mangiatoie è insostenibile e non funziona in un contesto globale». E così si toglie il grano agli allevamenti - per la verità le vacche mangiano mais, ma alla causa verde non fa comodo dirlo - per evitare di aumentare le produzioni, perché l’idea rimane che l’agricoltura è nemica dell’ambiente. Che sia così lo conferma anche Eleonora Evi, europarlamentare verde, che in totale dissenso dalle richieste avanzate al Consiglio d’Europa dal nostro ministro, Stefano Patuanelli, sostiene: «Ho scritto con il gruppo Greens/Ale alla Commissione per chiedere di andare avanti col “Farm to fork”: la guerra non deve diventare un pretesto per disattendere gli impegni europei a tutela della natura a medio e lungo termine.» Ovviamente tanto la von der Leyen quanto il suo vice, Frans Timmermans, impegnato ad ascoltare le richieste delle multinazionali dell’alimentazione, sono lieti del sostegno verde. Stefano Patuanelli ha chiesto invece che siano sospesi gli effetti della Pac, si possano mettere a coltura i terreni ora a riposo, sia sospesa la rotazione delle colture, ci siano più aiuti economici ai campi e per la pesca e si possa usare come concimi i digestati per il biogas. La risposta della Commissione è esigua: aiuti di Stato limitati a 35.000 euro, uso dei terreni incolti solo per un anno. Severa la critica di Luigi Scordamaglia, di Filiera Italia: «Il pacchetto di misure riflette la scarsa consapevolezza che la Commissione sembra avere sulla gravità della crisi ucraina. La Commissione considera scarsamente gli allarmi venuti da molti capi di Stato e di governo sull’emergenza alimentare che si abbatterà sulle popolazioni più deboli. I 35.000 euro come plafond massimo di aiuti per le aziende agricole, che stanno subendo costi enormi è inaccettabile, così come è assurdo il limite di 400.000 euro per le imprese agroalimentari. Il nostro governo pensa ad aiuti ben più consistenti che saranno però vanificati da questa misura europea». Per quanto riguarda le modifiche alla Pac, Scordamaglia nota: «Se è stata accettata la sospensione dei terreni a riposo non è invece stata data la deroga sul limite di superficie per coltura, lasciando l’obbligo di un numero minimo di colture per azienda, che è l’opposto di quello che servirebbe oggi con la grave carenza di mais e di altri prodotti». Anche lo sblocco di 200.000 ettari da coltivare a mais - salutato con favore da Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - risolve in minima parte la penuria di mangimi. Del resto solo una telefonata tra Mario Draghi e Viktor Orbán - l’Ungheria, che ha dato lo stop all’export, è il nostro primo fornitore di grano e di mais - ha in parte riaperto le spedizioni verso l’Italia nel silenzio dell’Ue. La crisi dei cereali però non è affatto risolta. Ma non c’è fretta: per fermare Putin basta un’insalata.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mannaia-europa-agricoltura-green-fame-2657026327.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="torna-lincubo-dellarma-migratoria" data-post-id="2657026327" data-published-at="1648065419" data-use-pagination="False"> Torna l’incubo dell’arma migratoria La crisi ucraina potrebbe determinare un impatto pericoloso sui flussi migratori provenienti dal continente africano: un’area, questa, che rischia dei contraccolpi indiretti a causa di quanto sta accadendo nell’Europa orientale. In particolare, si delinea un duplice problema, che riguarda energia e cereali. L’Ucraina e la Russia figurano tra i principali fornitori del continente per quanto riguarda il grano. Ora, la guerra e le sanzioni stanno causando un incremento significativo del prezzo dei cereali, provocando un effetto negativo sugli Stati africani. La Libia, che dipende dal grano ucraino per il 40%, ha per esempio registrato un considerevole incremento del prezzo della farina. Un discorso simile vale per l’approvvigionamento di carburante. In Nigeria si è verificato un deciso aumento del prezzo del diesel, mentre l’inflazione sta attanagliando Paesi come il Kenya e l’Uganda. Nei giorni scorsi, Human rights watch ha non a caso sottolineato che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe aggravare la crisi alimentare in Nord Africa e in Medio Oriente; dello stesso avviso si è detto ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Non va del resto trascurato che Russia e Ucraina, insieme, rappresentano il 14% di tutta la produzione mondiale di grano e il 29% di tutte le esportazioni di grano. È dunque chiaro che la crisi alimentare ed energetica rischia di creare forte instabilità nel continente africano. Certo: va sottolineato che alcuni Paesi africani dispongono di risorse energetiche. Tuttavia in molti casi incontrano problemi di produzione (secondo Deutsche Welle, la Nigeria e l’Angola riescono per esempio a pompare soltanto il 94% e il 78% della loro quota Opec). In tutto questo, non bisogna dimenticare che, nel corso degli anni, Russia e Cina hanno portato avanti una progressiva espansione politica ed economica nell’area. E Mosca e Pechino puntano a mantenere tale influenza. Basti pensare che, appena pochi giorni fa, la Repubblica popolare ha siglato un accordo da 7 miliardi di dollari con l’Algeria per la produzione di fertilizzanti: in particolare, il progetto punta a produrre oltre 5 milioni di tonnellate di fertilizzante all’anno nella regione di Tébessa e ha come ulteriore obiettivo quello di creare almeno 12.000 posti di lavoro. In effetti, a causa della guerra in Ucraina, si stanno verificando problemi di approvvigionamento dalla Russia proprio nel settore dei fertilizzanti: un fattore di cui il Dragone ha evidentemente intenzione di approfittare. La scaltra mossa di Pechino ricalca del resto una strategia che abbiamo già visto all’opera l’anno scorso, quando il regime di Xi Jinping ha consolidato la propria influenza su Africa e Medio Oriente a colpi di diplomazia vaccinale. Dall’altra parte, non dobbiamo trascurare che la Russia ha intensificato la propria presenza in varie parti del continente africano negli ultimi anni: basti pensare all’incremento di influenza politica su Paesi come la Repubblica Centrafricana e il Mali. Proprio in Mali, Vladimir Putin è riuscito a sfruttare la crescente impopolarità francese, rafforzando i suoi legami con Bamako e portando all’uscita delle truppe di Parigi dallo Stato. Ricordiamo, per inciso, che una parte consistente di questa influenza viene veicolata dal Cremlino attraverso i mercenari del Wagner group, che hanno esteso la propria longa manus sulla Libia orientale e su parte del Sahel. Quel Sahel che risulta notoriamente un’area cruciale per i flussi migratori diretti verso le nostre coste. Ed è qui che arriviamo al nocciolo del problema. Gli impatti della crisi ucraina saranno prevedibilmente utilizzati da Mosca e Pechino per consolidare la propria posizione in Africa. Un elemento, questo, che sarà indirizzato a due obiettivi principali. Entrambe le potenze vogliono innanzitutto aumentare il proprio peso in sede Onu e, all’occorrenza, utilizzare la leva migratoria per mettere sotto pressione l’Unione europea. D’altronde, il pericolo che la fame inneschi altre ondate di sbarchi, lo ha evocato pure Volodymyr Zelensky, nel suo discorso a Montecitorio. Bruxelles, stavolta, non può farsi trovare impreparata.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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