2022-11-10
«Mandato allo sbaraglio nella prima zona rossa. Poi cacciato dall’Arma»
L’ex carabiniere Marco Billeci: «A febbraio 2020 ci hanno spediti nel Lodigiano senza protezioni. Mi sono ammalato e mi hanno congedato perché invalido».Si prese il Covid a inizio pandemia mentre era in servizio nella Bassa Lodigiana, dove insieme con altri colleghi controllava un territorio di dieci Comuni blindati. Finì in ospedale, con gravi danni al cuore e al polmone sinistro. Non ha voluto vaccinarsi, già aveva il fisico a pezzi, si è fatto 500 giorni di malattia. Senza una riga di encomio per il lavoro svolto, solo punizioni per aver parlato privo di autorizzazioni, la scorsa estate è stato congedato perché ritenuto non più idoneo. Marco Billeci, 37 anni, oggi ex maresciallo dei carabinieri, racconta la vergogna di quel periodo, quando militari, carabinieri, Guardia di finanza, Vigili del fuoco furono inviati a combattere a mani nude e a volto scoperto contro un virus micidiale. Originario di Capaci, provincia di Palermo, vive a Prato dove ha moglie e due figli. La sua è una testimonianza sconcertante, che conferma quanto sia urgente e doverosa una commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid nel nostro Paese.Quando arrivò nella zona rossa?«Il 22 febbraio 2020. Ci avevano avvisati il giorno prima, eravamo 127 carabinieri di otto reparti mobili di tutta Italia. Facevo parte del Cio, la compagnia di intervento operativo, taskforce dell’Arma. Comandavo il contingente di Firenze, 35 uomini. Chiesi subito dove fosse l’abbigliamento previsto dal protocollo Nbcr per l’emergenza nucleare, biologica, chimica, radiologica».Si riferisce alle tute scafandrate che si vedono nei film americani?«Proprio quelle. Sono dotate di auto protettori che consentono la respirazione anche in ambienti contaminati. I superiori mi dissero che non erano necessarie. Dovevamo indossare solo le nostre uniformi operative nere e, senza mascherine né guanti, presidiare giorno e notte i posti di blocco, isolando gli abitanti della zona».Dove eravate alloggiati? «All’hotel Lodi, con due ascensori e una sola scala, quella antincendio esterna. Feci presente che poteva diventare un focolaio tremendo e che era meglio se ci accampavamo nel vicino campo da calcio, con tende che si potevano isolare in caso di contagio. Altra richiesta respinta, il prefetto aveva già requisito l’hotel per i carabinieri».I pasti dove venivano serviti?«Il ristorante dell’albergo era stato chiuso, così pranzo e cena venivano consumati in un locale convenzionato per tutte le forze di soccorso. Sedevamo gli uni accanto agli altri, senza distanziamento».Qualcuno di voi si infettò?«Di sicuro un militare del battaglione Lombardia, il 6 marzo 2020. Pensavamo che facessero il tampone a tutti i 127 carabinieri, considerato che dividevamo gli stessi spazi, invece no. E venne isolato solo il collega con il quale aveva fatto l’ultimo turno ai check point».Vi è andata bene, considerata la rapidità con cui si diffuse il Sars-CoV-2.«Ma non potevamo essere mandati allo sbaraglio così, senza precauzione, privi di mascherine che divennero obbligatorie solo dal 12 marzo di quell’anno. Non c’era uno straccio di piano pandemico. Per non parlare della visita medica, una vergogna». Perché, che cosa accadde?«Il 10 marzo, con il primo lockdown nazionale, i contingenti vennero spostati in altri territori. Stavamo partendo, quando all’ultimo minuto avvisarono che era prevista una visita di controllo. E meno male, ci siamo detti, almeno sapremo se siamo negativi o se ci portiamo in giro il virus». Vi hanno fatto un test anti Covid?«Macché. Ammassati tutti 127 in un corridoio dell’hotel, abbiamo atteso di entrare nella stanza dove un colonnello medico in pensione auscultava, dopo averci fatto stendere a torace nudo sul medesimo copriletto».Il massimo dell’igiene e della prevenzione. Nessuno protestò?«Il medico disse che si andava di fretta. Quando fu il mio turno, chiese che cosa prendessi per l’asma. “Non ne soffro” risposi stupito. Cercai di sapere che cosa avesse sentito nei polmoni ma alzò la voce dicendo che la visita era finita».Poi che cosa fece?«Ero destinato a Bergamo, dove due giorni dopo venni ricoverato per Covid. Stavo malissimo, polmoni compromessi, la funzionalità del sinistro ridotta al 30% per cento. Non può essere successo tutto in 48 ore, quel medico aveva sentito che c’era un’infiammazione in atto e non fece nulla». Come ha superato il Covid?«Con enorme fatica. Ho fatto 500 giorni di malattia, hanno impiegato più di un anno per riconoscermi la causa di servizio e quando sono rientrato al lavoro, nel luglio 2021, mi imposero di fare il vaccino. Non ci pensavo proprio, con le miocarditi e pericarditi che avevo subito. Poi arrivò l’esenzione e, a luglio di quest’anno, il congedo perché non più idoneo fisicamente a prestare servizio come militare».Quindi si ritrova ad essere invalido a 37 anni.«Con una pensione che sarà al massimo di 1.200 euro. Appena riceverò la prima mensilità, dovrò restituire il 50% dei 28.000 euro di indennizzo che mi sono stati riconosciuti. Così vuole questo Stato, che ho servito per quasi 18 anni. Due giorni persi, quando le cure tempestive fanno la differenza, hanno rovinato la mia vita. E sa qual è la beffa peggiore?».Mi dica.«Dopo il congedo, ho chiesto la mia scheda personale e in data 10 marzo 2020 si legge: “Superata visita di idoneità”. Quella che si svolse in una camera dell’hotel di Lodi sarebbe stata la visita medico legale, con la quale si dichiara l’idoneità o meno di prestare servizio incondizionatamente? Guarda caso, 48 ore dopo finivo in ospedale ma quel certificato, più volte sollecitato, non esiste».
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)