2022-08-05
Mancano soldi per reggere il Pnrr sanitario
I 18,5 miliardi del Recovery fund porteranno ospedali più moderni, nuove strutture, tecnologie all’avanguardia: ma come mantenere l’impalcatura? Il governo punta sui risparmi, ma l’Ufficio parlamentare di bilancio lancia l’allarme: «Rischioso, difficili altri tagli».Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Allo stesso modo, tramite il Pnrr, si stanziano risorse sul medio periodo; poi, però, per mantenere a regime gli investimenti, bisognerà trovare soldi anche a piano ultimato. Una matassa difficile da sbrogliare soprattutto nel comparto sanitario, come evidenzia la relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, pubblicata ieri l’altro.Il principio è elementare. Con il denaro del Recovery fund e di altri programmi di sostegno collegati, si può destinare un totale di 18,5 miliardi alla sanità, disastrata dagli anni dell’austerità e uscita con le ossa rotte dalla pandemia. I capitoli di spesa sono molti e promettenti: strutture per l’assistenza domiciliare e territoriale, modernizzazione degli ospedali, lavori di adeguamento sismico, aumento dei posti letto in terapia intensiva, rinnovo delle attrezzature, digitalizzazione, interventi nell’ambito della ricerca e della formazione. Ora, ammettiamo che si riescano a rispettare i tempi di attuazione del piano e che la macroprogrammazione si traduca in una declinazione concreta e soddisfacente, in un adattamento oculato alla specificità delle singole Regioni; dopodiché, a effetti del Pnrr esauriti, quindi dal 2027 in avanti, si dovrà comunque tenere in piedi l’impalcatura ristrutturata, con oneri proporzionalmente accresciuti. L’Upb, su questo aspetto, è esplicito: «Sarà indispensabile in futuro», annota, «assicurare le risorse necessarie a finanziare gli oneri permanenti, principalmente per il personale, necessari a gestire i servizi sanitari potenziati grazie al Pnrr». È scontato: se compri un apparecchio per la Tac, ti serve qualcuno che lo utilizzi. Ed è qui che casca l’asino.Nella versione di aprile del piano italiano si parlava di un fabbisogno di 2,8 miliardi l’anno, a partire dal 2027. L’idea era che le spese correnti sarebbero state coperte dal finanziamento ordinario del Sistema sanitario nazionale, un po’ rimpinguandone la dotazione e un po’ facendo affidamento sui risparmi garantiti dalla riorganizzazione e dall’innovazione tecnologica e digitale. Tuttavia, avvisa l’Ufficio di bilancio, «contare su futuri risparmi di spesa può essere poco prudente, soprattutto in un settore, come quello della sanità, in cui spesso l’assorbimento del progresso tecnico può implicare un aumento dei costi. Inoltre è difficile potenziare il sistema attraverso misure di razionalizzazione, soprattutto dopo gli sforzi già realizzati in passato in questa direzione». Margini per fare ulteriore economica, in breve, non ci sono più. Auspicare che l’architettura si regga sulle somme accantonate in virtù di minori esborsi è un azzardo: all’orizzonte, si scorgono voragini che ci verrebbero puntualmente contestate dai ragionieri di Bruxelles. La soluzione? Al momento, si è optato «per una gradualità degli interventi, volta ad assicurare il rispetto delle scadenze, pur lasciando alcuni aspetti, anche importanti, a una definizione successiva». Per la serie: tiriamo i remi in barca, che domani è un altro giorno e si vedrà. Solo che il domani, inesorabilmente, arriva. E il governo sembra non aver fatto bene i conti: nel documento dell’Upb si parla di stime sui «costi unitari del personale che appaiono a volte incoerenti; mancata copertura degli oneri delle strutture addizionali previste dal Pnrr definitivo rispetto a quello presentato ad aprile; mancata valutazione delle spese per acquisti di beni e servizi; assunzione di livelli di intensità assistenziale mediamente contenuti per l’assistenza domiciliare, sia pure corrispondenti all’esperienza avanzata di alcune Regioni; limitata dotazione di personale per le terapie intensive». E pensare che, proprio per redigere con certosina minuzia il nostro vademecum per la ripresa, s’è dovuto scomodare il dottor professor Mario Draghi. Il pilota automatico della politica, invece, è pieno di contraddizioni. Così, a fronte degli otto infermieri che si considerava necessario assumere per ogni casa di comunità, il Pnrr di aprile individuava un portafoglio per soli due operatori a struttura, peraltro sottostimando di 10.000 euro, rispetto a una precedente relazione tecnica, il costo unitario di quei lavoratori. E ancora: per l’assistenza domiciliare, il calcolo dei costi si è fondato su livelli di riferimento insufficienti, mentre, per gli ospedali della comunità, i 239 milioni di spesa a regime stimati non includevano il denaro necessario all’acquisto di beni e servizi. Ma la svista più clamorosa riguardava le rianimazioni: le risorse per collocarvi il personale erano state conteggiate «prendendo a riferimento soltanto il 40% dei posti in terapia intensiva da incrementare». A ciò si aggiunga un’aggravante: come ricorda l’Upb, «il Pnrr non risolve la questione delle carenze di personale», che pure è la più urgente da affrontare dopo decenni di tagli selvaggi, poiché, con esso, è proibito finanziare spese correnti continuative. Ergo, si ammodernano i nosocomi, si procurano macchinari più raffinati, si digitalizza il sistema sanitario, ma del cosiddetto «capitale umano» tocca occuparsi in legge di bilancio. E, per ovvi motivi, il Ssn avrebbe bisogno di tanti più dipendenti quanto maggiori saranno le risorse pompate per migliorarlo. In parole povere, dietro la retorica soteriologica costruita attorno al Piano di ripresa e resilienza e alla celebrata «solidarietà europea», si cela il pericolo di inciampare nell’ennesima illusione fatale: promettere mari, monti e manna dal cielo, ma infine svegliarsi di nuovo con le pezze al culo.