La Polonia ha acceso le polveri della guerra energetica. Stop al metano russo per chi non paga in rubli. I tedeschi sono pronti ad allinearsi alle regole di Vladimir Putin. L’Eni non ha ancora deciso. Tra pochi giorni il governo dovrà scegliere se aggirare le sanzioni oppure no. Per l’Italia rinunciare alle forniture di Mosca sarebbe un mezzo suicidio. Altissimo il rischio di blackout e recessione.
La Polonia ha acceso le polveri della guerra energetica. Stop al metano russo per chi non paga in rubli. I tedeschi sono pronti ad allinearsi alle regole di Vladimir Putin. L’Eni non ha ancora deciso. Tra pochi giorni il governo dovrà scegliere se aggirare le sanzioni oppure no. Per l’Italia rinunciare alle forniture di Mosca sarebbe un mezzo suicidio. Altissimo il rischio di blackout e recessione.Stiamo correndo verso la guerra a luci spente. Sì, mentre la Corte costituzionale, guidata da un dinosauro della prima Repubblica, sentenzia che i figli debbano portare anche il cognome della madre, ma non trova nulla da dire sulla violazione dell’articolo 11 della Carta, quello che ripudia i conflitti armati come mezzo di soluzione delle controversie internazionali, l’Italia si avvia verso una crisi al buio, forse peggiore di quella del 1973. Non cito a caso quell’anno. Come forse non tutti ricordano, nell’ottobre di quasi cinquant’anni fa, il giorno della ricorrenza dello Yom Kippur, ovvero della festa ebraica dell’espiazione, l’Egitto e la Siria attaccarono Israele e i Paesi arabi associati all’Opec, per sostenere la guerra, decisero di aumentare i prezzi del petrolio, attuando un embargo nei confronti degli Stati filoisraeliani. Fu l’inizio di una crisi energetica che colpì l’intera Europa e per l’Italia l’avvio di una stagione di austerity economica. In pratica, alla domenica fu vietata la circolazione delle auto, i programmi televisivi serali furono spenti per mandare gli italiani a letto presto e l’illuminazione stradale e commerciale fu ridotta al minimo. Lo shock petrolifero di fatto segnò la fine del periodo di crescita del Paese, perché gli anni a venire avrebbero portato la grande inflazione, la contrazione dei consumi e la recessione.Oggi, a rischiare di mandare al tappeto la nostra economia non sono i Paesi arabi, ma la Russia e le conseguenze del conflitto in Ucraina. Già stiamo pagando a caro prezzo le sanzioni economiche che avrebbero dovuto stendere Vladimir Putin e invece, come dimostra la recente decisione dei calzaturieri marchigiani di partecipare a una rassegna in Russia, rischiamo di spedire a ko l’industria nazionale, ma il peggio a quanto pare deve ancora arrivare. Già, perché più si prolunga questa guerra e più si rischia che il conflitto si estenda, con tutte le conseguenze immaginabili. Chi crede alla bubbola che inviando più armi a Kiev si conquista la pace non sa quel che dice. Dagli arsenali difensivi, quelli che avrebbero dovuto consentire agli ucraini di resistere all’invasione, siamo già passati - senza che il Parlamento battesse ciglio, anzi senza che le Camere fossero neppure convocate per decidere - agli arsenali offensivi. Sì: se prima il mandato era respingere i russi, ora l’obiettivo dichiarato dagli Stati Uniti ai propri alleati è rendere inoffensiva la Russia. Tradotto in poche parole, ciò equivale a dichiarare guerra a Mosca e a questo punto credo che non servano molte spiegazioni riguardo agli sviluppi a cui andiamo incontro.Maria Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri, uno dei volti del regime putiniano, ha replicato al viceministro della Difesa inglese, che rivendicava il diritto degli ucraini a colpire il territorio russo, dicendo che la logica conseguenza sarà il diritto di Mosca di colpire il territorio dei Paesi che hanno armato gli ucraini. Cioè, l’escalation procede senza che nessuno paia aver voglia di fermarla. «L’operazione militare speciale», come la chiamano ipocritamente i russi, giorno dopo giorno assume l’aspetto di un’operazione militare mondiale e, temo, nucleare. Tuttavia, il conflitto non si limita alle bombe, alle città rase al suolo, ai milioni di profughi e alle migliaia di morti. C’è anche una guerra economica ed è quella verso cui procediamo a fari spenti e occhi chiusi. L’altro ieri Mosca ha interrotto le forniture a Polonia e Bulgaria, come conseguenza del mancato pagamento in rubli. Se gli altri Paesi non accetteranno le condizioni imposte da Putin, ossia un meccanismo che di fatto aggira le sanzioni economiche consentendo a Mosca di finanziarsi e sostenere la moneta nazionale grazie all’export di gas, è quindi molto probabile che presto anche Germania e Italia, per restare a quelli più dipendenti dal metano russo, vedranno interrompersi le forniture. Per l’economia tedesca sarebbe una catastrofe stimata in 180 miliardi di euro e la condannerebbe a una pesante recessione. Non molto diverse sarebbero le conseguenze per noi. A differenza della Germania, l’Italia potrebbe cercare di recuperare una parte del gas di cui abbiamo bisogno da alcuni Paesi africani, ossia dall’Algeria, dalla Libia e dal Congo, ma con enormi rischi, perché in quelle zone non è garantita la stabilità politica e potremmo trovarci all’improvviso senza le forniture su cui facciamo conto. Inoltre, anche se tutto filasse liscio, non riusciremmo a rimpiazzare tutti i 30 miliardi di metri cubi che importiamo dalla Russia. Secondo uno studio della fondazione Mattei, a completamento del fabbisogno mancherebbero 10 miliardi di metri cubi. Dunque? La risposta è semplice: andremmo incontro a periodi di blackout, ovvero di distacchi. In casa o in azienda avremmo la luce a singhiozzo. Lascio a voi tirare la conclusione, mettendo in fila solo alcuni fatti: inviando altre armi si prosegue la guerra; più il conflitto si estende e più rischiamo di esserne coinvolti; nel frattempo, dobbiamo far fronte ai danni collaterali delle sanzioni; a questo si aggiunge la crisi energetica che rischia di lasciarci al buio; da ultimo dovete sapere che la crisi alimentare che si scatenerà in Africa a seguito della mancanza di grano provocherà una nuova ondata migratoria verso l’Europa. Che altro si deve aggiungere se non che se Putin è pazzo altri non sono da meno?
Maurizio Landini
Dopo i rinnovi da 140 euro lordi in media per 3,5 milioni di lavoratori della Pa, sono in partenza le trattative per il triennio 2025-27. Stanziate già le risorse: a inizio 2026 si può chiudere. Maurizio Landini è rimasto solo ad opporsi.
Sta per finire quella che tra il serio e il faceto nelle stanze di Palazzo Vidoni, ministero della Pa, è stata definita come la settimana delle firme. Lunedì è toccato ai 430.000 dipendenti di Comuni, Regioni e Province che grazie al rinnovo del contratto di categoria vedranno le buste paga gonfiarsi con più di 150 euro lordi al mese. Mercoledì è stata la volta dei lavoratori della scuola, 1 milione e 260.000 lavoratori (850.000 sono docenti) che oltre agli aumenti di cui sopra porteranno a casa arretrati da 1.640 euro per gli insegnanti e 1.400 euro per il personale Ata (amministrativi tecnici e ausiliari). E il giorno prima, in questo caso l’accordo era stato già siglato qualche mese fa, la Uil aveva deciso di sottoscrivere un altro contratto, quello delle funzioni centrali (chi presta opera nei ministeri o nell’Agenzia delle Entrate), circa 180.000 persone, per avere poi la possibilità di sedersi al tavolo dell’integrativo.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Dopo aver predicato il rigore assoluto sulla spesa, ora l’opposizione attacca Giancarlo Giorgetti per una manovra «poco ambiziosa». Ma il ministro la riporta sulla terra: «Quadro internazionale incerto, abbiamo tutelato i redditi medi tenendo i conti in ordine».
Improvvisamente, dopo anni di governi dell’austerity, in cui stringere la cinghia era considerato buono e giusto, la sinistra scopre che il controllo del deficit, il calo dello spread e il minor costo del debito non sono un valore. Così la legge di Bilancio, orientata a un difficile equilibrio tra il superamento della procedura d’infrazione e la distribuzione delle scarse risorse disponibili nei punti nevralgici dell’economia puntando a far scendere il deficit sotto il 3% del Pil, è per l’opposizione una manovra «senza ambizioni». O una strategia per creare un tesoretto da spendere in armi o per la prossima manovra del 2027 quando in ballo ci saranno le elezioni, come rimarcato da Tino Magni di Avs.
Da sinistra, Antonio Laudati e Pasquale Striano. Sotto, Gianluca Savoini e Francesca Immacolata Chaouqui (Ansa)
Pasquale Striano e Antonio Laudati verso il processo. Assieme a tre cronisti di «Domani» risponderanno di accessi abusivi alle banche dati. Carroccio nel mirino: «attenzionati» tutti i protagonisti del Metropol, tranne uno: Gialuca Meranda.
Quando l’ex pm della Procura nazionale antimafia Antonio Laudati aveva sollevato la questione di competenza, chiedendo che l’inchiesta sulla presunta fabbrica dei dossier fosse trasferita da Perugia a Roma, probabilmente la riteneva una mossa destinata a spostare il baricentro del procedimento. Il fascicolo è infatti approdato a Piazzale Clodio, dove la pm Giulia Guccione e il procuratore aggiunto Giuseppe Falco hanno ricostruito la sequenza di accessi alle banche dati ai danni di esponenti di primo piano del mondo della politica, delle istituzioni e non solo. Il trasferimento del fascicolo, però, non ha fermato la corsa dell’inchiesta. E ieri è arrivato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari.
Angelina Jolie a Kherson (foto dai social)
La star di Hollywood visita Kherson ma il bodyguard viene spedito al fronte, fino al contrordine finale. Mosca: «Decine di soldati nemici si sono arresi a Pokrovsk».
Che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, trovi escamotage per mobilitare i cittadini ucraini è risaputo, ma il tentativo di costringere la guardia del corpo di una star hollywoodiana ad arruolarsi sembra la trama di un film. Invece è successo al bodyguard di Angelina Jolie: l’attrice, nota per il suo impegno nel contesto umanitario internazionale, si trovava a Kherson in una delle sue missioni.






