2025-09-18
Ora i Maga non cadano in trappola limitando la libertà di espressione
La procuratrice generale Pam Bondi ha rivendicato di voler perseguire chi si rallegra per la morte di Kirk (Getty Images)
L’idea di perseguire chi infanga l’attivista caduto contraddice la lotta per il free speech. Charlie Kirk è morto, e neppure la trita nenia secondo cui «la tua libertà finisce dove comincia la mia» sta tanto bene. Dove termina la libertà di odiare? E dove si arresta il rigetto della violenza come metodo politico, davanti al cadavere del trentunenne americano? Nel confuso dibattito italiano seguito all’eccidio di Orem (Utah), sotto la polvere delle strumentalizzazioni si iniziano a intravvedere almeno due grosse e allarmanti tentazioni: sommariamente, la prima interroga la sinistra (come postura antropologica, non come Angelo Bonelli) e la seconda la destra (sempre come postura antropologica e non come singolo partito o coalizione).Purtroppo, infatti, nel mondo progressista è emersa una certa balbuzie nel condannare una pubblica esecuzione senza aggiungere capziosi distinguo sul bersaglio: quasi che, una volta inquadrato quest’ultimo in una categoria di vario grado d’impresentabilità, fosse - se non comprensibile - un po’ meno grave prendersela con lui. Piergiorgio Odifreddi e Roberto Saviano non sono per forza le punte più avanzate di questo «ragionamento», ma ne sono un ottimo esempio. Esiste però un’altra tentazione (anche se meno spregevole), ed è quella che porta a porre eccezioni anche alla libertà di espressione, a seconda di chi ne debba disporre o di come ne faccia uso. Come ovvio, nessuna libertà è priva di limiti: esistono i codici e i reati per stabilirli. Ma è sotto gli occhi di tutti l’infelicità della dichiarata nemesi trumpiana, che non si cura molto del principio di non contraddizione. Ieri l’attorney general Pam Bondi ha di fatto rivendicato in modo esplicito di voler perseguire chiunque si rallegri della morte di Kirk, dopo che il mondo conservatore si è battuto con molte ragioni per il free speech minacciato negli atenei e nel dibattito pubblico proprio dai rivali democratici.Sono zoppie per certi versi simili, figlie - se vogliamo buttarla sul filosofico - delle grandi aporie del costrutto liberale, che postula assoluti che non è in grado di garantire, e tende a diventare pretesto per il dispiegarsi di un puro potere. Subordinare la gravità di un omicidio alla statura morale del morto è un atteggiamento da cui trapela una differenza irriducibile col resto del consesso umano; riconoscere la libertà d’espressione solo una volta appurato che ci va bene ciò che ne potrà derivare non pare una risposta convincente. La faccenda non è confinabile alla società e alla politica americane, malgrado il tasso di delirio che sembra accompagnarle: da tempo il bilanciamento tra il rigetto alla violenza e la tutela della libertà è a dir poco instabile anche qui, come hanno mostrato le crisi finanziarie e la stagione pandemica, in cui parlamenti e opinioni pubbliche hanno deglutito misure irrazionali e dannose senza un vero dibattito, e linciando in ogni modo il dissenso: il che è una forma di violenza non trascurabile. Ieri J.K. Rowling, da tempo sulla breccia del dibattito su questi temi, ha scritto su X: «Le parole non sono violenza. Quando fingi che le opinioni contrarie alle tue siano violenza, stai giustificando l’uso di violenza reale nei confronti di chi parla». Esiste un punto su cui i due errori possono convergere, e la popolarissima scrittrice pare coglierne l’essenza: è proprio la possibile traduzione legislativa del cosiddetto «hate speech», già ampiamente dispiegatasi nel Digital service act varato dalle istituzioni comunitarie. Tale approccio, finalizzato anche in molti documenti prodotti per esempio dalla «Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza», presieduti dalla senatrice Liliana Segre, espone infatti al rischio paradossale - ma non troppo - di indirizzare un odio legittimato verso chi si renda colpevole di «odio» (termine giuridicamente a dir poco scivoloso). Il celebre rovello popperiano sulla tolleranza, molto citato dalla morte di Kirk, rischia così di trovare una soluzione molto simile a un randello: quella in cui è il potere a dire contro quali idee si possa diventare intolleranti perché esse portano «odio», proteggendo solo le altre (quelle delle «categorie target», identificate come potenziali bersagli d’odio). Proprio la convergenza della tentazione «di sinistra» (sintesi brutale: se spari all’avversario in fondo va bene) e di quella «di destra» (altra sintesi brutale: free speech sì, ma non contro di me) in approcci simili conduce a un punto infuocato: non ne usciremo mai con una procedura che chiuda la questione. Il limite dell’illusione liberale appare invalicabile: o ciò che chiamiamo verità emerge in un incontro tra uomini inviolabili, o è un prodotto del potere, e allora vale letteralmente tutto: da zittire a sparare.
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