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2019-12-02
L’integrazione che funziona:
il patto tra le mafie straniere
In Lombardia l'hanno chiamato «patto di non belligeranza». In Campania è «tolleranza». A Bari lo definiscono «accordo mafioso». Su Palermo parlano di «integrazione criminale e sociale». Le mafie straniere sono ormai ben integrate. E alcune, come quella nigeriana, sono riuscite a scalare così tanto la classifica criminale italiana da entrare nella
top five della mala. E se in Lombardia il «patto di non belligeranza» riguarda tutte le espressioni criminali, si va dagli albanesi in joint venture con i romeni per gestire il business della prostituzione, ai nigeriani che controllano piazzole delle grandi città, ai clan della 'ndrangheta che trafficano in droga, fanno pagare il pizzo alle imprese e riciclano a go go, mentre nel resto dello Stivale gli accordi, di solito, si fanno in due.
Nel capoluogo lombardo è questione di mercato: «È così ampio che ce n'è per tutti», sostiene il tenente colonnello
Piergiorgio Samaja, capo centro a Milano della Direzione investigativa antimafia. Ma è l'unico esempio di relazione paritaria. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ritiene che i gruppi criminali stranieri, compresa la mafia africana, «operino in subappalto rispetto alle mafie nostrane».
«Se la mafia nigeriana entra nel nostro territorio», sostiene il numero uno dell'antimafia, «è evidente che le è consentito dalle mafie già presenti: è da escludere una mafia nigeriana che possa partecipare e operare autonomamente, così come quella albanese. Oggi sono le nostre mafie che comandano, che si dedicano agli affari e che hanno raggiunto un livello superiore». Hanno messo da parte coppola e lupara, insomma. «La mafia nigeriana, invece», afferma
de Raho, «è dedita al traffico di stupefacenti e allo sfruttamento della prostituzione. La mafia albanese fa altrettanto. Le nostre mafie reinvestono e sono le più pericolose perché in modo più insidioso entrano nei mercati e nell'economia. Sono soggetti che non si muovono più con i comportamenti tradizionalmente criminosi ma con comportamenti da industriali, imprenditori, professionisti».
Lo spazio per la manovalanza e per quelli che ormai sono considerati degli affarucci da 'ndrangheta, Cosa nostra e camorra, è stato coperto dagli stranieri. Che pagano per poter stare sul territorio. E che, a quel punto, non solo vengono tollerati, ma anche protetti. Un'integrazione criminale che è arrivata prima di quella sociale. È il caso di Palermo, dove tra gli uomini di Cosa nostra e quelli della mafia di Benin City, Black Axe, Viking ed Eye, sono in sintonia.
C'è un luogo, il mercato di Ballarò, in pieno centro del capoluogo siciliano, in cui i boss della mafia che fecero saltare in aria
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato il posto ai «don» neri della mala africana. Quella fetta di territorio è cosa loro. E proprio come è accaduto a Cosa Nostra, anche tra i nigeriani sono saltati fuori i collaboratori di giustizia. Sono due, in particolare, quelli che hanno messo in crisi il sistema: Don Emeka e Austine Johnbull. Il primo, tra il 2014 e il 2015, cominciò a spifferare ciò che sapeva dei suoi compari, dopo aver subito un'aggressione per la quale Johnbull fu condannato a 12 anni e 4 mesi per tentato omicidio.
La condanna ha convinto anche
Johnbull a vuotare il sacco. Ed è stato il primo a svelare i riti d'affiliazione e gli affari dei Black Axe. E, altra coincidenza con Cosa nostra, si è meritato il nomignolo di Buscetta della mafia nigeriana. Ormai anche durante i processi lo chiamano così. Ma dalla cupola messa su da Bernardo Provenzano, Totò Riina e Matteo Messina Denaro, la mafia nera nigeriana ha mutuato anche l'organizzazione interna: piramidale. E forse anche per questo motivo si è integrata con più facilità.
In Triveneto, invece, è in atto un altro esperimento: lì, nei territori controllati dalle famiglie di 'ndrangheta emigrate negli anni Ottanta e Novanta, i gruppi albanesi e nigeriani sono accomunati da reciproco rispetto, non solo nell'attività di sfruttamento della prostituzione, ma anche nel traffico di stupefacenti. In particolare, le arterie interne dei centri di Padova, Mestre, Verona, Vicenza, Treviso, Bolzano, Udine e quelle di grande viabilità, che collegano i vari capoluoghi di provincia, sono battute da prostitute nigeriane e albanesi, che operano in territori contigui e senza conflitti.
Fenomeni dello stesso tipo sono stati registrati anche nel Lazio e in Campania. Dove questo meccanismo viene definito dagli analisti come «una inusuale promiscuità». In Campania, d'altra parte, il meccanismo è ben rodato. Castel Volturno, nel Casertano, è l'esempio più noto: lì la mafia nigeriana gestisce in modo autonomo rispetto alla camorra il traffico di droga e piccoli racket. I clan camorristi, poi, a volte sfruttano la collaborazione dei neri per reati minori. A Napoli, addirittura, come ricostruito dal sito web
Stylo24.it, per suggellare definitivamente il patto tra mafia nera e Scissionisti di Secondigliano, i nigeriani hanno affidato in modo illegale un bambino di colore a un componente di spicco degli Scissionisti. Il bimbo pare faccia da garante al patto scellerato chiuso tra la cosca dei ribelli dell'area Nord di Napoli e la mafia siciliana con base a Castel Volturno. Di solito, però, non c'è bisogno di un atto così eclatante. Basta intendersi sugli interessi.
Tra i modelli di cooperazione c'è quello triestino, dove i sodalizi criminali stranieri a volte sono partecipati da pregiudicati italiani. Come nel caso del caporalato: lì prospera una importante comunità di etnia serba, la cui componente criminale è tendenzialmente dedita alla gestione del lavoro nero, in prevalenza nel settore dell'edilizia, attraverso lo sfruttamento della manodopera di operai e manovali provenienti dall'Est Europa. Gli italiani di solito fanno i mediatori tra i datori di lavoro e i caporali serbi.
In Calabria e in Puglia, invece, la mafia tradizionale ha scelto come alleata quella albanese. Relazione che, spiega il procuratore di Catanzaro
Nicola Gratteri, rende le mafie globalizzate. Gratteri ricorda il caso di un trafficante di San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, che non aveva pagato una partita di droga ai cartelli colombiani e che è stato intercettato dai terroristi spagnoli dell'Eta. È la prova che varie forme di criminalità collaborano e trovano intese sugli affari comuni.
E tra questi interessi comuni c'è la difficile gestione criminale dei porti. Gioia Tauro, Taranto, Napoli. Lì gli interessi si intrecciano. E le mafie straniere convivono con quelle locali. «In molti casi», scrivono il procuratore aggiunto
Giovanni Russo e il sostituto Cesare Sirignano nell'ultima relazione antimafia al Parlamento, «è stato accertato il pagamento di un quantum da parte delle mafie straniere a quelle tradizionali come riconoscimento della sovranità territoriale, ma il dato non può essere esteso a tutto il territorio nazionale».
C'è poi ancora molto che sfugge agli investigatori. Della mafia nigeriana, sottovalutata per anni, solo oggi si comincia a scoprire qualcosa in più. E il bacio della morte tra mafie straniere e clan tradizionali fa ancora parte della metà oscura del fenomeno criminale.
Boss africano preso a postare sui social le foto del «Padrino»
Il 15 ottobre 2017 è una domenica. In via Siracusa a Caltanissetta c'è uno strano fermento tra i nigeriani. In una piccola casa nascosta nel centro storico entrano ed escono neri in cappellino e scarpe da tennis. Per gli investigatori è un summit della mafia nigeriana. Uno dei pochi che è stato possibile filmare. Un summit importante. Perché oltre alle nuove affiliazioni e alla soluzione delle beghe interne, stando ai racconti dei collaboratori di giustizia, si sarebbe discusso anche delle relazioni con le mafie italiane.
L'inchiesta è stata ribattezzata No fly zone, perché è grazie all'intercettazione di questo sms che in Procura hanno scoperto l'organizzazione del summit: «Tutti gli uccelli devono tornare al nido». Una frase neanche troppo criptica, con la quale Silver Obasuyi, noto nel mondo della mala con il nome Silver Paculty, in quel momento capo del gruppo cultista di Caltanissetta, aveva richiamato gli Eye siciliani a raccolta. E che Silver abbia trovato profonda ispirazione nella mafia siciliana lo dimostrano le immagini di scene del Padrino che aveva postato sul suo profilo Facebook.
«Inizi a dare fastidio quando te la fai con gente più pesante». In questa intercettazione Davide Barberis, classe 1976, di professione personal trainer, indicato come uno dei narcos romani del gruppo di Fabrizio Piscitelli, l'ultrà della Lazio freddato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto scorso mentre era seduto su una panchina di un parco pubblico della Capitale, parla della mala albanese. Per la Procura antimafia di Roma, Barberis sarebbe legato a doppio filo con Dorian Petoku, luogotenente di Arben Zogu, detto Riccardino. Stando alle ricostruzioni dei magistrati romani, gli albanesi della Capitale erano «al servizio dei napoletani ormai insediati a Roma Nord, tra cui i fratelli Salvatore e Jenny Esposito, facenti capo a Michele Senese». Detto o' Pazzo, Senese viene indicato dalla Dia come il Re del Tuscolano. Per molti è «il capo della camorra a Roma».
Sono loro, i camorristi romani, ad aver siglato il patto dei Balcani. Gli albanesi vengono chiamati «la batteria di Ponte Milvio». E anche se gli albanesi sono suddivisi in quattro o cinque gruppi criminali, c'è una figura carismatica che li tiene insieme: e per gli investigatori è proprio Petoku. Ed è il personaggio che tiene i contatti con i narcotrafficanti sudamericani. Per questo motivo, nelle intercettazioni viene definito uno «pesante».
Il montenegrino Tomislav Pavlovic, invece, sarebbe l'uomo addetto a far superare alla droga i controlli negli aeroporti sudamericani grazie ai suoi contatti sul posto e ad agenti di polizia corrotti. Si reca personalmente in Brasile in un paio di occasioni per organizzare il trasporto della sostanza stupefacente. È un personaggio già apparso nelle indagini su Mafia Capitale e viene definito da Riccardo Brugia, indicato in quell'inchiesta (miseramente fallita in Cassazione) come il braccio destro di Massimo Carminati, come «uno che prende la pistola e spara».
In Puglia, sul Gargano, in provincia di Foggia, invece, la mafia albanese è punto di equilibrio tra i clan locali. «Prima comandava Marco Raduano, gli ho sparato! Mo' voglio comandare io!», dice a sua madre Giovanni Iannoli. Raduano però è rimasto in piedi. E Iannoli continua a raccontare: «No, non è morto... e siamo rivali... prima che ci uccidevano loro a noi, ci abbiamo provato noi e non ci siamo riusciti». Da quel momento il gruppo avvia una trattativa tra mafia garganica e clan albanesi, ricostruito dagli investigatori in un'inchiesta ribattezzata Ultimo avamposto. E alla fine gli albanesi si schierano. Due di loro che, messi di guardia a un carico di droga nascosto in un capannone in località Tomarosso, a Vieste, dove la polizia ha sequestrato 570 chili di marijuana, oltre a una pistola Beretta calibro 9 e a una calibro 7,65 con matricola abrasa, all'irruzione degli investigatori in borghese, pensando che fossero gli uomini di uno dei clan locali si qualificarono: «Siamo amici di Claudio». Il patto era stato siglato. E quel Claudio, per gli investigatori, era Iannoli, ritenuto un elemento di spicco della criminalità viestana.
L'ultimo accordo che vede gli albanesi protagonisti è con la 'ndrangheta. Ed è legato alla gestione del racket a Perugia. Lì, dove le famiglie della Locride ormai controllano il territorio da anni, era arrivato un tizio, che i calabresi chiamavano «lo zio». «Un albanese di Napoli», lo definiscono in una intercettazione, per via degli anni passati in Campania. Un passato che, secondo gli investigatori, gli avrebbe permesso poi a Perugia di fare «da collante» tra le vecchie e le nuove amicizie.
Ed è a Perugia che il cartello si allarga. Tanto da diventare «un laboratorio» internazionale. Gli affari crescono. A due affiliati, uno di Cirò, l'altro di Crotone ma entrambi residenti da anni in Umbria, viene un'idea: dopo aver tirato dentro l'albanese si era creata l'occasione per agganciare anche «l'amico colombiano». D'altra parte, il carattere internazionale della 'ndrangheta è ormai noto. Uno dei boss, in contatto con tale Ervis Lyte, albanese che trafficava armi prodotte in Russia, in una conversazione telefonica dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, «tramite un afgano». Lyte avrebbe venduto in Calabria non solo pistole o fucili. Ma anche gli Sniper e i Tokarev, armi da guerra prodotte ai tempi dell'ex Unione Sovietica e oggi disponibili solo in Albania. Uno dei boss cerca di procurarsele e gli dice al telefono: «Servono veramente giù, giù mi servono veramente».
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I clan nigeriani, albanesi, rumeni, serbi sono ormai consolidati in tutta Italia. La criminalità nostrana si accorda per delegare la manovalanza e tenere gli affari più redditizi. La mappa di un'integrazione che funziona alla grande. Boss africano preso a postare sui social le foto del «Padrino». Le reti delle complicità e i meccanismi di affiliazione scoperti nelle indagini: le bande di immigrati agiscono in «subappalto». Lo speciale comprende due articoli. In Lombardia l'hanno chiamato «patto di non belligeranza». In Campania è «tolleranza». A Bari lo definiscono «accordo mafioso». Su Palermo parlano di «integrazione criminale e sociale». Le mafie straniere sono ormai ben integrate. E alcune, come quella nigeriana, sono riuscite a scalare così tanto la classifica criminale italiana da entrare nella top five della mala. E se in Lombardia il «patto di non belligeranza» riguarda tutte le espressioni criminali, si va dagli albanesi in joint venture con i romeni per gestire il business della prostituzione, ai nigeriani che controllano piazzole delle grandi città, ai clan della 'ndrangheta che trafficano in droga, fanno pagare il pizzo alle imprese e riciclano a go go, mentre nel resto dello Stivale gli accordi, di solito, si fanno in due. Nel capoluogo lombardo è questione di mercato: «È così ampio che ce n'è per tutti», sostiene il tenente colonnello Piergiorgio Samaja, capo centro a Milano della Direzione investigativa antimafia. Ma è l'unico esempio di relazione paritaria. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ritiene che i gruppi criminali stranieri, compresa la mafia africana, «operino in subappalto rispetto alle mafie nostrane».«Se la mafia nigeriana entra nel nostro territorio», sostiene il numero uno dell'antimafia, «è evidente che le è consentito dalle mafie già presenti: è da escludere una mafia nigeriana che possa partecipare e operare autonomamente, così come quella albanese. Oggi sono le nostre mafie che comandano, che si dedicano agli affari e che hanno raggiunto un livello superiore». Hanno messo da parte coppola e lupara, insomma. «La mafia nigeriana, invece», afferma de Raho, «è dedita al traffico di stupefacenti e allo sfruttamento della prostituzione. La mafia albanese fa altrettanto. Le nostre mafie reinvestono e sono le più pericolose perché in modo più insidioso entrano nei mercati e nell'economia. Sono soggetti che non si muovono più con i comportamenti tradizionalmente criminosi ma con comportamenti da industriali, imprenditori, professionisti». Lo spazio per la manovalanza e per quelli che ormai sono considerati degli affarucci da 'ndrangheta, Cosa nostra e camorra, è stato coperto dagli stranieri. Che pagano per poter stare sul territorio. E che, a quel punto, non solo vengono tollerati, ma anche protetti. Un'integrazione criminale che è arrivata prima di quella sociale. È il caso di Palermo, dove tra gli uomini di Cosa nostra e quelli della mafia di Benin City, Black Axe, Viking ed Eye, sono in sintonia. C'è un luogo, il mercato di Ballarò, in pieno centro del capoluogo siciliano, in cui i boss della mafia che fecero saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato il posto ai «don» neri della mala africana. Quella fetta di territorio è cosa loro. E proprio come è accaduto a Cosa Nostra, anche tra i nigeriani sono saltati fuori i collaboratori di giustizia. Sono due, in particolare, quelli che hanno messo in crisi il sistema: Don Emeka e Austine Johnbull. Il primo, tra il 2014 e il 2015, cominciò a spifferare ciò che sapeva dei suoi compari, dopo aver subito un'aggressione per la quale Johnbull fu condannato a 12 anni e 4 mesi per tentato omicidio.La condanna ha convinto anche Johnbull a vuotare il sacco. Ed è stato il primo a svelare i riti d'affiliazione e gli affari dei Black Axe. E, altra coincidenza con Cosa nostra, si è meritato il nomignolo di Buscetta della mafia nigeriana. Ormai anche durante i processi lo chiamano così. Ma dalla cupola messa su da Bernardo Provenzano, Totò Riina e Matteo Messina Denaro, la mafia nera nigeriana ha mutuato anche l'organizzazione interna: piramidale. E forse anche per questo motivo si è integrata con più facilità. In Triveneto, invece, è in atto un altro esperimento: lì, nei territori controllati dalle famiglie di 'ndrangheta emigrate negli anni Ottanta e Novanta, i gruppi albanesi e nigeriani sono accomunati da reciproco rispetto, non solo nell'attività di sfruttamento della prostituzione, ma anche nel traffico di stupefacenti. In particolare, le arterie interne dei centri di Padova, Mestre, Verona, Vicenza, Treviso, Bolzano, Udine e quelle di grande viabilità, che collegano i vari capoluoghi di provincia, sono battute da prostitute nigeriane e albanesi, che operano in territori contigui e senza conflitti. Fenomeni dello stesso tipo sono stati registrati anche nel Lazio e in Campania. Dove questo meccanismo viene definito dagli analisti come «una inusuale promiscuità». In Campania, d'altra parte, il meccanismo è ben rodato. Castel Volturno, nel Casertano, è l'esempio più noto: lì la mafia nigeriana gestisce in modo autonomo rispetto alla camorra il traffico di droga e piccoli racket. I clan camorristi, poi, a volte sfruttano la collaborazione dei neri per reati minori. A Napoli, addirittura, come ricostruito dal sito web Stylo24.it, per suggellare definitivamente il patto tra mafia nera e Scissionisti di Secondigliano, i nigeriani hanno affidato in modo illegale un bambino di colore a un componente di spicco degli Scissionisti. Il bimbo pare faccia da garante al patto scellerato chiuso tra la cosca dei ribelli dell'area Nord di Napoli e la mafia siciliana con base a Castel Volturno. Di solito, però, non c'è bisogno di un atto così eclatante. Basta intendersi sugli interessi. Tra i modelli di cooperazione c'è quello triestino, dove i sodalizi criminali stranieri a volte sono partecipati da pregiudicati italiani. Come nel caso del caporalato: lì prospera una importante comunità di etnia serba, la cui componente criminale è tendenzialmente dedita alla gestione del lavoro nero, in prevalenza nel settore dell'edilizia, attraverso lo sfruttamento della manodopera di operai e manovali provenienti dall'Est Europa. Gli italiani di solito fanno i mediatori tra i datori di lavoro e i caporali serbi. In Calabria e in Puglia, invece, la mafia tradizionale ha scelto come alleata quella albanese. Relazione che, spiega il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rende le mafie globalizzate. Gratteri ricorda il caso di un trafficante di San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, che non aveva pagato una partita di droga ai cartelli colombiani e che è stato intercettato dai terroristi spagnoli dell'Eta. È la prova che varie forme di criminalità collaborano e trovano intese sugli affari comuni. E tra questi interessi comuni c'è la difficile gestione criminale dei porti. Gioia Tauro, Taranto, Napoli. Lì gli interessi si intrecciano. E le mafie straniere convivono con quelle locali. «In molti casi», scrivono il procuratore aggiunto Giovanni Russo e il sostituto Cesare Sirignano nell'ultima relazione antimafia al Parlamento, «è stato accertato il pagamento di un quantum da parte delle mafie straniere a quelle tradizionali come riconoscimento della sovranità territoriale, ma il dato non può essere esteso a tutto il territorio nazionale». C'è poi ancora molto che sfugge agli investigatori. Della mafia nigeriana, sottovalutata per anni, solo oggi si comincia a scoprire qualcosa in più. 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Perché oltre alle nuove affiliazioni e alla soluzione delle beghe interne, stando ai racconti dei collaboratori di giustizia, si sarebbe discusso anche delle relazioni con le mafie italiane. L'inchiesta è stata ribattezzata No fly zone, perché è grazie all'intercettazione di questo sms che in Procura hanno scoperto l'organizzazione del summit: «Tutti gli uccelli devono tornare al nido». Una frase neanche troppo criptica, con la quale Silver Obasuyi, noto nel mondo della mala con il nome Silver Paculty, in quel momento capo del gruppo cultista di Caltanissetta, aveva richiamato gli Eye siciliani a raccolta. E che Silver abbia trovato profonda ispirazione nella mafia siciliana lo dimostrano le immagini di scene del Padrino che aveva postato sul suo profilo Facebook. «Inizi a dare fastidio quando te la fai con gente più pesante». In questa intercettazione Davide Barberis, classe 1976, di professione personal trainer, indicato come uno dei narcos romani del gruppo di Fabrizio Piscitelli, l'ultrà della Lazio freddato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto scorso mentre era seduto su una panchina di un parco pubblico della Capitale, parla della mala albanese. Per la Procura antimafia di Roma, Barberis sarebbe legato a doppio filo con Dorian Petoku, luogotenente di Arben Zogu, detto Riccardino. Stando alle ricostruzioni dei magistrati romani, gli albanesi della Capitale erano «al servizio dei napoletani ormai insediati a Roma Nord, tra cui i fratelli Salvatore e Jenny Esposito, facenti capo a Michele Senese». Detto o' Pazzo, Senese viene indicato dalla Dia come il Re del Tuscolano. Per molti è «il capo della camorra a Roma». Sono loro, i camorristi romani, ad aver siglato il patto dei Balcani. Gli albanesi vengono chiamati «la batteria di Ponte Milvio». E anche se gli albanesi sono suddivisi in quattro o cinque gruppi criminali, c'è una figura carismatica che li tiene insieme: e per gli investigatori è proprio Petoku. Ed è il personaggio che tiene i contatti con i narcotrafficanti sudamericani. Per questo motivo, nelle intercettazioni viene definito uno «pesante». Il montenegrino Tomislav Pavlovic, invece, sarebbe l'uomo addetto a far superare alla droga i controlli negli aeroporti sudamericani grazie ai suoi contatti sul posto e ad agenti di polizia corrotti. Si reca personalmente in Brasile in un paio di occasioni per organizzare il trasporto della sostanza stupefacente. È un personaggio già apparso nelle indagini su Mafia Capitale e viene definito da Riccardo Brugia, indicato in quell'inchiesta (miseramente fallita in Cassazione) come il braccio destro di Massimo Carminati, come «uno che prende la pistola e spara». In Puglia, sul Gargano, in provincia di Foggia, invece, la mafia albanese è punto di equilibrio tra i clan locali. «Prima comandava Marco Raduano, gli ho sparato! Mo' voglio comandare io!», dice a sua madre Giovanni Iannoli. Raduano però è rimasto in piedi. E Iannoli continua a raccontare: «No, non è morto... e siamo rivali... prima che ci uccidevano loro a noi, ci abbiamo provato noi e non ci siamo riusciti». Da quel momento il gruppo avvia una trattativa tra mafia garganica e clan albanesi, ricostruito dagli investigatori in un'inchiesta ribattezzata Ultimo avamposto. E alla fine gli albanesi si schierano. Due di loro che, messi di guardia a un carico di droga nascosto in un capannone in località Tomarosso, a Vieste, dove la polizia ha sequestrato 570 chili di marijuana, oltre a una pistola Beretta calibro 9 e a una calibro 7,65 con matricola abrasa, all'irruzione degli investigatori in borghese, pensando che fossero gli uomini di uno dei clan locali si qualificarono: «Siamo amici di Claudio». Il patto era stato siglato. E quel Claudio, per gli investigatori, era Iannoli, ritenuto un elemento di spicco della criminalità viestana. L'ultimo accordo che vede gli albanesi protagonisti è con la 'ndrangheta. Ed è legato alla gestione del racket a Perugia. Lì, dove le famiglie della Locride ormai controllano il territorio da anni, era arrivato un tizio, che i calabresi chiamavano «lo zio». «Un albanese di Napoli», lo definiscono in una intercettazione, per via degli anni passati in Campania. Un passato che, secondo gli investigatori, gli avrebbe permesso poi a Perugia di fare «da collante» tra le vecchie e le nuove amicizie. Ed è a Perugia che il cartello si allarga. Tanto da diventare «un laboratorio» internazionale. Gli affari crescono. A due affiliati, uno di Cirò, l'altro di Crotone ma entrambi residenti da anni in Umbria, viene un'idea: dopo aver tirato dentro l'albanese si era creata l'occasione per agganciare anche «l'amico colombiano». D'altra parte, il carattere internazionale della 'ndrangheta è ormai noto. Uno dei boss, in contatto con tale Ervis Lyte, albanese che trafficava armi prodotte in Russia, in una conversazione telefonica dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, «tramite un afgano». Lyte avrebbe venduto in Calabria non solo pistole o fucili. Ma anche gli Sniper e i Tokarev, armi da guerra prodotte ai tempi dell'ex Unione Sovietica e oggi disponibili solo in Albania. Uno dei boss cerca di procurarsele e gli dice al telefono: «Servono veramente giù, giù mi servono veramente».
Ursula von der Leyen e Volodymyr Zelensky (Ansa)
Non a caso sui cannoni compariva non di rado l’iscrizione: «Ultima ratio regum» e cioè ultimo argomento al quale i re, quali capi di Stato, ricorrevano a sostegno delle reciproche pretese. E le guerre finivano quando uno dei contendenti, senza essere stato totalmente debellato, si rendeva conto della inferiorità delle proprie forze e della convenienza, quindi, di venire a patti con l’avversario per evitare danni maggiori. Questo modello cominciò gradualmente ad affermarsi a partire dalla fine, nel 1648, della guerra dei trent’anni (ultima tra le guerre europee riconducibili a motivazioni di ordine religioso) e durò, sostanzialmente, fino all’inizio della prima guerra mondiale. Il primo segno della sua crisi fu costituito dalla pace di Versailles, che pose fine a quella guerra. Essa non fu, infatti, a differenza delle precedenti, frutto di vere e proprie trattative, ma assunse la forma del diktat nei confronti dei Paesi sconfitti, ai quali si volle addebitare anche la esclusiva responsabilità morale di quella che si era rivelata come un’imprevista e immane tragedia, della quale occorreva scongiurare il ripetersi.
La guerra cominciò, quindi, a non essere più considerata, secondo la nota formula di Karl von Clausevitz, una prosecuzione della politica con altri mezzi e, pertanto, un legittimo strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Per metterla al bando fu creata la Società delle nazioni, seguita poi, dopo la fine della seconda guerra mondiale (che essa non aveva potuto impedire), dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), nel cui statuto era, per la prima volta, espressamente affermato, all’articolo 2, comma 3, che le controversie internazionali dovevano essere risolte solo «con mezzi pacifici». Si ammetteva soltanto, all’articolo 51, il diritto di autodifesa di ciascuno Stato a fronte di un attacco armato, ma solo «fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali».
Ma il Consiglio di sicurezza quasi mai si è dimostrato in grado di assolvere a tali compiti, essenzialmente a causa della pressoché costante contrapposizione, nell’ambito dei cinque membri permanenti, ciascuno dotato del potere di veto, tra Russia e Cina, da una parte, e Usa, Francia e Gran Bretagna, dall’altra. Di conseguenza le controversie internazionali hanno continuato imperterrite a dar luogo a conflitti armati non più preceduti, però, da formali dichiarazioni di guerra, essendo queste da evitarsi se non altro per non incorrere in una conclamata violazione dello Statuto dell’Onu. Ed ecco, allora, che l’azione di guerra viene, molto semplicemente, posta in essere ex abrupto, confidando nell’effetto sorpresa e nell’altrui acquiescenza al fatto compiuto. Fu questo il caso, ad esempio, dell’occupazione del territorio portoghese di Goa, nella penisola indiana, ad opera dell’India governata dal «pacifista» Jawaharlal Nehru, nel 1961; quello dell’occupazione di parte dell’isola di Cipro ad opera della Turchia, nel 1974 o, ancora, quello dell’occupazione delle isole Falkland, sotto sovranità britannica, da parte dell’Argentina, nel 1982. Caso, quest’ultimo, in cui, però, a differenza dei precedenti, l’aggressore ebbe a subire l’imprevisto, vittorioso contrattacco dell’aggredito. In altri casi, più recenti, le azioni di guerra, condotte da Usa e alleati vari (ivi compresa, talvolta, l’Italia) , sono state contrabbandate sotto mentite spoglie quali, ad esempio, quelle di: «operazione di polizia internazionale» (guerre contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 1990 e nel 2003); «intervento umanitario» (guerra aerea, nel 1999, contro la Serbia di Slobodan Milosevic, presunta responsabile di violenze in danno degli abitanti del Kosovo); sostegno alla «primavera araba» (altra guerra aerea, nel 2011, contro la Libia del «dittatore» Muhammar Gheddafi). Non stupisce, quindi, che, alla luce di tali esempi, sia stata definita «operazione militare speciale» la guerra intrapresa nel 2022 dalla Russia di Vladimir Putin, volta a impedire l’adesione dell’Ucraina alla Nato e ad annetterne i territori a popolazione russofona.
Alla mancanza della dichiarazione di guerra fa poi da riscontro quella di un trattato di pace che la concluda. Le ostilità cessano per effetto del completo e irreversibile successo di uno dei due contendenti ovvero quando la loro prosecuzione si appalesa, per le più varie ragioni, almeno al momento e per un tempo più o meno lungo, come impossibile o inutile, senza che, però, ne segua una stabile definizione del contenzioso dal quale il conflitto armato ha avuto origine. E proprio quest’ultima, con riguardo al conflitto russo - ucraino, appare la più realistica delle ipotesi. La Russia, infatti, vincitrice o, comunque, in posizione di forte vantaggio sul campo, mai potrebbe accettare una vera e propria «pace» che non comportasse il riconoscimento del passaggio sotto la sua sovranità dei territori ucraini da essa rivendicati e, per buona parte, occupati. Ma a una tale soluzione non si rassegnano quanti - a cominciare dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per finire alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, passando per il gruppo anglo-franco-tedesco dei cosiddetti - vogliono, in realtà, per occulte (ma non tanto) ragioni, la prosecuzione della guerra. E costoro hanno buon gioco nell’appellarsi al principio, chiaramente desumibile dallo statuto dell’Onu, secondo cui non sono ammissibili modifiche territoriali ottenute con la forza. Di qui una paradossale ma ineludibile conclusione: quella, cioè, che proprio il generalizzato divieto di uso della forza per la soluzione delle controversie internazionali, non essendo presidiato da un’autorità in grado di farlo rispettare, può finire per porsi come ostacolo - pretestuoso, forse, ma non per questo meno efficace - al conseguimento di quella che, come nel caso del conflitto russo-ucraino, appaia, piaccia o non piaccia, l’unica «pace» effettivamente possibile. Chissà se, allora, tutto sommato, non sarebbe forse meglio per tutti un ritorno a Von Clausevitz.
Pietro Dubolino
Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione
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D’accordo, le feste non sono ancora terminate, ma di sicuro un po’ di avanzi li avete già accumulati e, soprattutto pensando al cenone di San Silvestro, potete dare prova – stupendo gli ospiti – di una insospettata abilità di pasticceria semplicemente dedicandovi a uno dei dolci più tradizionali d’Italia che in questo caso trattiamo alla fiorentina, cioè a forma di zuccotto, con anche una finalità anti-spreco.
Ingredienti - 800 gr di panettone, 1L di latte, 8 cucchiai di farina 00, 8 cucchiai colmi di zucchero semolato, 4 uova, un limone non trattato, 4 cucchiai di cacao in polvere o 80 gr di cioccolata meglio se fondente, 125 cc di Alchermes (nel caso abbiate dei bambini e non volete usare alcol allora 125 ml di latte più una fialetta di colore rosso per dolci).
Procedimento - Iniziate a fare la crema scaldando in una pentolina capiente il latte, aggiungete a poco a poco la farina sempre girando con la frusta in modo che non si formino grumi, poi lo zucchero, la buccia del limone evitando di intaccare l’albedo e infine fuori fuoco le uova continuando a girare sempre con la frusta. Quando le uova si sono ben incorporate rimettete sul fuoco a fiamma molto bassa e fate addensare la crema sempre rigirando. A questo punto eliminate la scorza di limone e prendete un terzo della crema e versatela in un altro pentolino aggiungendo la polvere di cacao oppure la cioccolata sbriciolata. In questo secondo caso fate prendere ancora un po’ di calore per far sciogliere la cioccolata. Dovete sempre girare il composto per evitare che si formino grumi. Ora prendete una forma da zuccotto (basta una bastardella) e rivestitela di pellicola trasparente all’interno, vi faciliterà il distacco della zuppa inglese una volta freddata. Fate a fette abbastanza sottili il panettone e rivestite le pareti dello stampo. Bagnate con l’Alchermes poi versate la crema al cioccolato. Compattate bene e chiudete lo strato con altro panettone bagnato di liquore. Ora versate la crema bianca e chiudete con altre fettine di panettone. Sigillate con la pellicola e andate in frigo per almeno un’ora. Una volta che lo zuccotto si è consolidato, sformatelo sul piatto di portata togliendo la pellicola.
Come far divertire i bambini - Date a loro l’incombenza di rivestire lo stampo con le fette di panettone, scoprirete quanto sanno essere precisi.
Abbinamento - Abbiamo optato per un Marsala stravecchio, vanno benissimo un Sagrantino di Montefalco passito, una Vernaccia di Serrapetrona amabile oppure se volete un impatto più sofisticato un Torcolato di Breganze o una Malvasia delle Lipari passita.
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Getty Images
Da tempo è osservabile una penetrazione statunitense con fini condizionanti in tutta l’Africa con priorità a quella atlantica. Esempi. Il (progetto di) corridoio ferroviario dall’interno dell’Africa mineraria australe con terminale il porto di Lobito in Angola, programma che vede l’Italia tra gli investitori insieme – se confermato – agli americani con probabile (sembra) contributo dell’Ue. L’accordo in strutturazione tra Stati Uniti e Marocco (forse Spagna) per creare un porto sulla costa del Sahara meridionale connesso con gli Stati dell’Africa centro-settentrionale produttori di minerali critici. La pressione crescente statunitense contro il Sudafrica per renderlo meno dipendente da Pechino. Ecc. Queste e altre mosse sono spiegate da una strategia di decinesizzazione dell’Africa (anche motivo di negoziato tra Russia ed America in Alaska) in generale e, in particolare, dalla priorità statunitense di rompere il monopolio cinese sulle terre rare secondo la linea del nuovo progetto Pax silica (impero minerario) in fase di elaborazione a Washington. L’obiettivo non è semplice perché, controstrategia cinese e banditismo locale a parte, più della metà dell’Africa mineraria rilevante è vulnerabile a irruzioni jihadiste organizzate da uno Stato islamico che dopo la confitta in Siria ed Iraq si è riorganizzato nel Sahel (semi)desertico e si sta strutturando in alcune parti dell’Africa sub-sahariana. Pertanto l’attacco all’Isis-Africa va visto come strategia sistemica e non come contingenza per motivi interni. L’Isis recluta gruppi di banditi o insorgenti locali offrendo loro mezzi e sinergie. Attaccandolo con certa pesantezza l’America manda un messaggio di dissuasione che limita il reclutamento jihadista. Inoltre, la collaborazione pur forzata del governo nigeriano con la volontà statunitense mostra utilità: i flussi di investimento estero in Nigeria sono calati a causa del suo disordine interno ed un intervento di riordino potrebbe farli riprendere. La Cina tende a fare accordi con le fonti di disordine, mantenendole tali in parecchi Stati africani, mentre l’America le elimina con la forza. Questo mi sembra il messaggio che Washington stia tentando di dare alla comunità africana.
Messaggio compatibile con l’azione compressiva americana verso il regime filo cinese e russo (dove Mosca però non sta interferendo) di Nicolàs Maduro in Venezuela. Qui Washington usa una «strategia del boa», stritolamento lento, per non causare una reazione «anti gringos» nel continente, combinata con una motivazione più simbolica che causa reale, cioè l’eliminazione delle infrastrutture venezuelane per il traffico di droga prodotta in nazioni contigue, queste bersagli successivi. In sintesi, la conduzione Trump vuole l’influenza su tutto il Sudamerica, Argentina, Cile ed altri già presi a seguito di elezioni interne, a cui va aggiunto il nuovo presidente dell’Honduras, nazione chiave della Mesoamerica tra Guatemala a Nord e Nicaragua a Sud. Il Messico dovrà allinearsi, il Brasile non potrà contrapporsi oltre misura, Panama pur tentando una neutralità tra America e Cina difficilmente potrà sottrarsi alla convergenza prevalente con la prima.
Sul piano globale, inserendo oltre ad Africa e Sudamerica la proiezione anticinese nel Pacifico e quella mineraria e geoestrategica verso la Groenlandia (territorio danese ad ampia autonomia) mi sembra evidente che l’America First della conduzione Trump non sia isolazionista, ma «imperiale globalista» nonostante la forte presenza dell’isolazionismo nella sua area di consenso, ma appunto convertito da una comunicazione tipo «salviamo i cristiani» e simili. Se così, mi chiedo quali e quanti alleati servano all’America per (ri)fare impero, valutando improbabile (pensiero controllato con diversi think tank statunitensi) che possa riuscirci senza alleanze: avrà bisogno di tante alleanze. Non con l’Ue, al momento, ma con nazioni europee e del G7 compatibili sì. L’ipotesi, poi eliminata, di includere la Russia nuovamente nel G8 entro un’azione di riduzione del potere globale cinese, fa ipotizzare che l’America cercherà alleanze diverse da quelle tradizionali basate sulla convergenza di Stati democratici. In sintesi, nella discontinuità di un cambio di mondo è osservabile la continuità del modello imperiale statunitense: una forma stellare come relazione tra un astro grande e tanti pianeti più piccoli, non permettendo a questi di unirsi per formare un aggregato maggiore. Siamo in fase di metastabilità dove lo scenario può prendere direzioni diverse, ma, pensando all’Italia, i vettori probabilistici più convenienti mi sembrano chiari:
- partenariato strategico bilaterale con l’America per la collaborazione in Africa;
- tenere l’Ue in posizione il più possibile convergente con l’America;
- massimo sforzo italiano per avviare un mercato mediterraneo integrato (Ekumene) ben connesso con il Pacifico e l’Atlantico.
Aggiornamenti, buon 2026.
www.carlopelanda.com
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Soldati nigeriani dopo un'operazione contro i terroristi di Boko Haram in un campo terroristico a Borno, in Nigeria, nel 2016 (Getty Images)
Venerdì scorso il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver autorizzato un raid aereo contro obiettivi dell’Isis in Nigeria, accusando apertamente i miliziani di condurre una campagna sistematica di violenze contro le comunità cristiane. Il governo nigeriano ha risposto rivendicando una «cooperazione strutturata in materia di sicurezza» con i partner internazionali, Stati Uniti compresi, sostenendo che le operazioni più recenti abbiano colpito con precisione infrastrutture terroristiche. Un messaggio diretto a Washington, dopo mesi di dichiarazioni aggressive di Trump, che già in autunno aveva evocato un possibile intervento diretto per difendere i cristiani nel Paese più popoloso dell’Africa. Sul terreno, però, la minaccia jihadista non si è certo esaurita con la dissoluzione di Boko Haram. Nel Nordest della Nigeria il baricentro del conflitto si è spostato sull’Iswap, la provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico, divenuta l’attore armato dominante dopo la morte di Abubakar Shekau nel 2021 e il collasso della fazione storica.
Questa evoluzione si riflette anche nella scelta dei bersagli. Iswap non agisce in modo casuale: punta a gestire rotte locali, imporre tributi alle comunità rurali e sfruttare l’assenza dello Stato. Le sue operazioni colpiscono basi militari, convogli dell’esercito e villaggi considerati ostili o collaborativi con le autorità. In questo quadro, le comunità cristiane risultano tra le vittime principali della violenza jihadista. Negli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, gli attacchi sono spesso diretti proprio contro insediamenti cristiani, con uccisioni mirate, incendi di chiese e abitazioni, e azioni volte a svuotare intere aree, favorendo sfollamenti forzati e alterando gli equilibri demografici locali. Iswap ha inoltre affinato la propria strategia militare e comunicativa. Evita, quando possibile, le stragi indiscriminate di musulmani che avevano isolato Boko Haram anche sul piano locale, preferendo un approccio più selettivo: violenza mirata, intimidazione e controllo attraverso la paura. Questa linea ha reso il gruppo più resiliente e capace di operare su scala regionale, con ramificazioni attive anche in Niger, Ciad e Camerun, mantenendo al tempo stesso una pressione costante sulle minoranze cristiane. A complicare la risposta di Abuja non c’è però solo la forza di Iswap. Un fattore decisivo resta la corruzione endemica nelle forze armate. Analisti e fonti di sicurezza segnalano da anni la dispersione di fondi destinati a equipaggiamenti e logistica, mentre i soldati schierati in prima linea denunciano carenze di munizioni, mezzi e stipendi. In più occasioni reparti hanno abbandonato le posizioni o evitato il confronto, lasciando villaggi - spesso cristiani - esposti agli attacchi. Collusioni, traffici illeciti e la vendita di armi sul mercato nero hanno ulteriormente indebolito l’apparato militare, contribuendo indirettamente alla capacità di Iswap di rifornirsi e riorganizzarsi. La corruzione mina anche il morale delle truppe e rafforza la narrativa jihadista, che descrive lo Stato come inefficiente e predatorio. Finché Abuja non affronterà in modo strutturale questo nodo - dalla catena di comando alla gestione dei fondi per la difesa - l’acquisto di nuovi elicotteri e il sostegno internazionale rischiano di restare del tutto insufficienti.
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