I transalpini hanno provato a mettere le mani su terre rare e altri minerali ben prima del cambio della guardia negli Stati Uniti. Anche l’Ue voleva intrufolarsi nell’accordo che oggi Zelensky firmerà invece alla Casa Bianca.La spregiudicatezza con cui Donald Trump sta conducendo le trattative sull’Ucraina ha scandalizzato le anime belle d’Europa. Ieri, Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, era negli Usa per l’ennesima omelia sulla «pace giusta», che coinvolga Ucraina e Ue. Ma persino dietro ai nobili principi umanitari che il Vecchio continente sventola contro l’America si possono celare interessi venali. Tipo quelli di Emmanuel Macron, reduce da una visita alla Casa Bianca, il cui obiettivo dichiarato era di convincere il tycoon a cooperare con l’Ue e includerla, insieme a Kiev, nei negoziati per porre fine al conflitto. Ma chissà che l’inquilino dell’Eliseo non sia andato anche a parlare degli affari propri. In particolare, dell’estrazione delle terre rare, visto che ieri il suo ministro della Difesa, Sébastien Lecornu, su France info, ha ammesso che i transalpini stanno brigando da ottobre per avere accesso ai minerali ucraini, utili all’«industria della Difesa», allo scopo di diversificare le fonti di approvvigionamento. Si spiegherebbe meglio l’attivismo di monsieur le président. Se il Regno Unito si era già assicurato, per gli stessi motivi, il «patto dei 100 anni», oggi Volodymyr Zelensky, a Washington per un colloquio con Trump, dovrebbe firmare l’accordo sulle materie prime, finalizzato mercoledì. Kiev sarebbe riuscita a far stralciare dal testo le clausole capestro. Adesso, ottenute le condizioni cui non avrebbe potuto assolutamente rinunciare, l’ex attore è consapevole che non dovrà tirare ancora la corda con The Donald, nonostante le interlocuzioni in corso in Europa.Nella versione finale del documento non si fa più cenno a un tasso d’interesse del 100% sugli aiuti statunitensi all’Ucraina, né ai 500 miliardi di debiti che andrebbero ripagati attraverso lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. L’intesa verterebbe, invece, sulla costituzione di un fondo ricavato grazie alla «monetizzazione» della futura vendita di risorse naturali: terre rare, certamente, oltre a gas, petrolio, altri materiali estraibili e infrastrutture quali i terminali del Gnl e i porti. Il Paese invaso contribuirebbe per il 50% e l’intero sistema sarebbe congegnato in modo tale da spalancare «opportunità di distribuzione di fondi aggiuntivi e maggiori reinvestimenti, per garantire la fornitura sufficiente di capitale per la ricostruzione dell’Ucraina». Un espediente che sembra essere stato introdotto pure per limitare l’arbitrio dei funzionari governativi nella gestione degli enormi flussi di denaro, con i quali verrà finanziato il ripristino di centri urbani danneggiati, collegamenti e impianti. Una sorta di codicillo anticorruzione.La bozza che oggi Zelensky dovrebbe sottoscrivere allude, poi, agli «sforzi dell’Ucraina per ottenere le garanzie di sicurezza necessarie per stabilire una pace duratura», che gli Usa si impegnano a sostenere. È un nodo cruciale. Ieri, Trump, che ha eluso una domanda sull’intemerata contro il leader della resistenza, da lui definito «dittatore» («Ho detto questo?», ha glissato), ha confermato che l’accordo in sé rappresenta una «garanzia». Accedere alle miniere, in fondo, presuppone che quelle aree non finiscano sotto tiro; pertanto, non è assurdo immaginare siano circondate da presidi, affidati all’esercito gialloblù, a contractor, oppure - è meno probabile - a dei contingenti a stelle e strisce.Va di moda etichettare Trump come un «predatore». Ma a parte chiedersi quando mai, nella storia, un belligerante o una potenza che armava un suo satellite abbia agito per puro senso di giustizia, è lecito porsi degli interrogativi sulle reali intenzioni di Bruxelles: cerca un posto al tavolo o un posto al sole? Tutela i diritti degli ucraini o aspira a massimizzare i guadagni, considerando quanto ha sborsato finora?Guarda caso, il commissario Ue per la Strategia industriale, Stéphane Séjourné, ha sottolineato che «21 dei 30 minerali critici di cui l’Europa ha bisogno possono essere forniti dall’Ucraina in una partnership win-win», ossia più vantaggiosa di quella offerta dal tycoon. E guarda caso, Séjourné è francese.Battere la concorrenza, nonostante essa indossi i panni del poliziotto buono, per l’Unione sarà comunque difficilissimo. Anche perché, oltre agli Usa, nella partita rientrano i russi. Una bella fetta dei 14.800 miliardi di dollari che sarebbero sepolti nel sottosuolo ucraino insiste nelle regioni occupate o contese: 3.800 sono nel Donetsk, 3.500 a Dnipro, 3.200 nel Lugansk. Sempre ammesso che le stime contenute nelle mappe di epoca sovietica siano precise. Mosca, il cui territorio presenta un piatto altrettanto, se non più ricco, vorrebbe stipulare una intesa parallela con l’America. Ciò le consentirebbe sia di superare i limiti delle proprie tecnologie estrattive, sia di esercitare una forma di pressione geopolitica sugli interlocutori d’Oltreoceano: se essi rifiutassero di cooperare, Vladimir Putin potrebbe sempre bussare alla porta della Cina. Pechino è il vero convitato di pietra: l’Unione europea, ad esempio, importa il 39% del fabbisogno di terre rare dal Dragone. Guadagnarsi nuovi sbocchi, potendosi permettere il lusso di fare la parte del leone con uno Stato piegato da tre anni di combattimenti, è cruciale tanto per Washington quanto per Bruxelles, nella corsa a ridurre i fattori di dipendenza dagli avversari asiatici.Dall’Ue, per il momento, promana un malcelato senso di stizza per il trattato Trump-Zelensky sui minerali: «Non tocca a noi commentare accordi commerciali tra gli Usa e l’Ucraina», dicono dalla Commissione. «È un accordo tra loro, l’Ue non ha alcuna ragione per esprimere un parere al riguardo». Ne ha di ottime per sperare che le restino da raccogliere almeno le briciole.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Fu il primo azzurro a conquistare uno Slam, al Roland Garros del 1959. Poi nel 1976, da capitano non giocatore, guidò il team con Bertolucci e Panatta che ci regalò la Davis. Il babbo era in prigionia a Tunisi, ma aveva un campo: da bimbo scoprì così il gioco.
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Il presidente Gianni Tessari: «Abbiamo creato una nuova Doc per valorizzare meglio il territorio. Avremo due etichette, una per i vini rifermentati in autoclave e l’altra per quelli prodotti con metodo classico».
Si è tenuto la settimana scorsa all’Hotel Crowne Plaza di Verona Durello & Friends, la manifestazione, giunta alla sua 23esima edizione, organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Lessini Durello, nato giusto 25 anni fa, nel novembre del 2000, per valorizzare le denominazioni da esso gestite insieme con altri vini amici. L’area di pertinenza del Consorzio è di circa 600 ettari, vitati a uva Durella, distribuiti sulla fascia pedemontana dei suggestivi monti della Lessinia, tra Verona e Vicenza, in Veneto; attualmente, le aziende associate al Consorzio di tutela sono 34.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
Un mio profilo è stato cancellato quando ho pubblicato dati sanitari sulle pratiche omoerotiche. Un altro è stato bloccato in pandemia e poi eliminato su richiesta dei pro Pal. Ne ho aperto un terzo: parlerò dei miei libri. E, tramite loro, dell’attualità.
Se qualcosa è gratis, il prodotto siamo noi. Facebook è gratis, come Greta è pro Lgbt, pro vax, anzi anti no vax, e pro Pal. Se sgarri, ti abbatte. Il mio primo profilo Facebook con centinaia di migliaia di follower è stato cancellato qualche anno fa, da un giorno all’altro: avevo riportato le statistiche sanitarie delle persone a comportamento omoerotico, erroneamente chiamate omosessuali (la sessualità è una funzione biologica possibile solo tra un maschio e una femmina). In particolare avevo riportato le statistiche sanitarie dei maschi cosiddetti «passivi».






