2025-07-30
«Macché TeleMeloni, la Rai è piena di woke»
L’esperto ed ex consigliere della tv pubblica Alberto Contri: «A parte un po’ di fisiologico allineamento governativo come abbiamo sempre visto, i giornalisti attivi sono i soliti. E i contenuti progressisti fioccano. Comprese alcune allarmanti derive transumaniste».Alberto Contri, le piace TeleMeloni?«Francamente non riesco a capire cosa sia realmente. È una formula giornalistica, un’etichetta sciocca perché la Rai è da sempre, per definizione, incline al governo del momento. Posso testimoniarlo in prima persona: in Rai la sensibilità governativa si è sempre affermata nella scelta delle persone e nelle carriere da promuovere».Presidente per vent’anni della Fondazione Pubblicità e progresso, autore e saggista (ultimo libro La sindrome del criceto, Nexus, 2023), Contri ride quando gli ricordo che è stato consigliere in Rai dal 1998 al 2002 in quota Forza Italia.«Così dicevano, ma era anche quella una scorciatoia giornalistica. Quando venni nominato, Fedele Confalonieri mi mandò un messaggio: apprendo dai giornali che sei di Forza Italia, non lo sapevo; e forse non lo sapevi neanche tu. Tant’è vero che poi, insieme a Vittorio Emiliani che avrebbe dovuto essere in quota alla sinistra, promuovemmo eventi come La Traviata a Parigi o chiedemmo ad Antonio Lubrano di spiegare le opere con i sottotitoli, scandalizzando i puristi della lirica».Poi è stato amministratore delegato di RaiNet che in qualche modo è stata l’antenata di RaiPlay.«Non in qualche modo, RaiPlay è la figlia diretta di RaiNet, tant’è vero che l’attuale direttrice, Elena Capparelli, era la mia principale collaboratrice. Il presidente invece era Giampaolo Rossi». Torniamo a TeleMeloni. Questa Rai è totalmente al servizio del governo e del premier?«Totalmente al servizio… Forse nella gerarchia delle notizie dei tg o nel silenzio su alcune altre».Per esempio?«Qualche giorno fa la numero uno dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard ha accusato Barack Obama di alto tradimento. Ha detto di essere in possesso di prove che dimostravano la sua influenza sulle indagini sul Russiagate nel 2017 per indebolire Donald Trump. Mentre in America non s’è parlato d’altro per giorni, i nostri telegiornali hanno silenziato la notizia».Forse si è ritenuto che la Gabbard volesse recuperare considerazione presso Trump dopo che l’aveva criticato per l’attacco all’Iran?«Ne dubito. Si trattava di una conferenza stampa ufficiale. Con lei c’erano diverse altre personalità che hanno messo a disposizione dei documenti. Invece di dare questa notizia sono stati proposti numerosi servizi sulla vicinanza fra Trump e Jeffrey Epstein, un gossip di tutt’altra importanza».Se così fosse, sarebbe una conferma dell’inesistenza di TeleMeloni.«Infatti, perché sono ancora attivi i giornalisti di sempre. Forse una certa inclinazione filogovernativa la si vede nell’eccesso di cronaca nera, utile a non disturbare il manovratore».Quindi, secondo lei nella gestione dell’informazione TeleMeloni esiste?«Forse c’è una tendenza fisiologica ad allinearsi. Nulla di diverso da ciò che c’è sempre stato con qualsiasi governo. È il solito doppio standard: se lo fa la sinistra è lealtà culturale, se lo fa la destra apriti cielo. Coloro che oggi accusano li ho visti all’opera per anni».E cos’ha visto?«Intervenivano senza troppe remore. Il presidente dell’epoca Roberto Zaccaria aveva codificato il metodo sostenendo che l’informazione andava suddivisa in tre parti, una alla maggioranza, una all’opposizione e una al governo. Così i due terzi degli spazi erano filogovernativi. La stessa spartizione si applicava nei programmi di approfondimento».Qualche giorno fa l’amministratore delegato Giampaolo Rossi ha replicato alle critiche alla Rai rivendicando il fatto che è «la prima fonte informativa degli italiani» e che sullo sport investe molto e vantando «il ritorno di Benigni». Dobbiamo essere soddisfatti?«Assolutamente no. Se scorro i palinsesti non vedo novità rilevanti. Non c’è nessuna discontinuità. Da quanti anni Mara Venier conduce Domenica In, da quanti anni c’è Ballando con le stelle, da quanto tempo c’è Antonella Clerici, che mi sta pure simpatica?».Squadra che vince non si cambia.«No, certo. Ma qualche iniezione di novità si potrebbe fare. E poi Rossi dice una cosa più ambiziosa: la Rai racconta il Paese. L’ha detto anche quando ha presentato il Concertone del primo maggio: il nostro è un racconto che rispetta il pluralismo. Quale sarebbe il pluralismo rappresentato da Big Mama? Anche la fiction di oggi è farcita di cultura woke e di figure rappresentative delle comunità arcobaleno».La Rai vanta anche il successo dell’ultimo Festival di Sanremo e di Affari tuoi.«È come giudicare il guardaroba di una persona dall’abito per la cena di gala. Poi la quotidianità è tutta virata al relativismo etico».Le piace di meno l’intrattenimento o l’informazione?«Mi sembra tutto modesto. Come è modesto l’intero contesto nazionale, e cito la disillusione di Marcello Veneziani per lo stato del Paese. Che inevitabilmente si riflette sulla tv pubblica».Che dovrebbe avere una funzione diversa?«Di elevazione del senso critico della popolazione. Se prendiamo la musica c’è da essere scoraggiati, altro che elevazione. Si mira verso il basso perché puntando verso il basso è più facile catturare l’audience. E qui emerge il peccato originale dei due colossi che si contendono la pancia del pubblico».Diceva della cultura woke nella fiction.«E anche nei varietà e nei programmi d’infotainment. Mentre in America si registra un decadimento in seguito alla ribellione dei cittadini, in tante trasmissioni della Rai, radio compresa, che seguo per motivi professionali, prevale il woke de noantri». C’è qualche dirigente in particolare che lo promuove?«Ricordo che una volta, quando era direttore di Rai 1, Stefano Coletta sbottò contro chi chiamava Rai 1 Gay 1: “A me non interessa con chi vanno a letto i miei collaboratori”. Io dico che quando si manda in onda un numero rilevante di persone di orientamento omosessuale la loro visione si diffonde urbi et orbi. L’ha detto più volte anche Mauro Coruzzi in arte Platinette: mai come ora i gay sono sovrarappresentati in tv. Invece, con grande rispetto per le scelte di ciascuno, sono poco più del 3,5% della popolazione. Nella giuria di Ballando con le stelle, che è il varietà di punta del sabato sera di Rai 1, sono la metà. Se si dice che la Rai racconta il Paese, penso che la giuria di un programma popolare dovrebbe rappresentare la segmentazione del pubblico».Va meglio la parte degli approfondimenti e dei tg?«Purtroppo no. Ci è voluto molto tempo prima di far apparire la realtà di Gaza. E anche sull’Ucraina c’è stata una narrazione a senso unico. Ricordiamo l’oscuramento del corrispondente da Mosca Marc Innaro che, piuttosto di non far nulla, chiese di andare al Cairo. Non si poteva dire tutta la verità sull’Ucraina, o come ha fatto papa Francesco, che la Nato si era avvicinata ai confini con la Russia. All’opposto, quando Giorgia Meloni dialogava con Joe Biden, da Washington Claudio Pagliara era facilitato a pronosticare la vittoria di Kamala Harris. Credo che questo non avvenga a causa di imposizioni, ma per forme di allineamento fisiologiche. La Rai è un corpaccione stratificato negli anni, hai voglia a spostare le persone... Uno come Giancarlo Loquenzi, ex direttore di Radio radicale, conduce Zapping da decenni e va spesso ospite del Tg3 insieme a Giovanna Botteri». La vecchia Telekabul però è stata ridimensionata.«Ma dove? Pensiamo a Monica Giandotti, brillante suffragetta progressista, che da Lineanotte di Rai 3 è approdata alla conduzione di Tg2Post».E da studioso dell’innovazione nella comunicazione cosa pensa dei programmi di divulgazione sull’intelligenza artificiale e la rivoluzione digitale?«Ho sempre apprezzato Codice. La vita è digitale di Barbara Carfagna. Purtroppo, in questa ultima stagione sta mostrando una tendenza riduzionista, materialista e transumanista».Semplificando?«Un conto è raccontare le avanguardie digitali, un altro è magnificare l’idea di Alexandr Wang, “l’astro nascente della Silicon Valley”, di fare un figlio solo quando potrà impiantargli un neuralink nel cervello allo scopo di avere un figlio enhanced, potenziato. Oppure, altro eccesso, tessere le lodi del cosiddetto gemello digitale, costituito da ciò che rimane di noi in rete che, quando smettiamo, potrebbe continuare a lavorare al posto nostro».Invece?«Quando è disconnesso da quello primigenio, il gemello digitale è solo una massa di dati inerti che, non essendo gestita dal libero arbitrio di una coscienza, non potrà mai fare nulla».Codice. La vita è digitale da quale direzione dipende?«Va in onda su Rai 1 e Mara Carfagna è una giornalista del Tg1 che gode di ampia autonomia. Ma, anche se ogni tanto intervista qualche voce critica degli algoritmi, il servizio pubblico dovrebbe fare attenzione a promuovere certe derive transumaniste».È stata una scelta vincente eliminare i direttori di rete e creare strutture editoriali per generi - intrattenimento, informazione, fiction, sport - trasversali alle reti?«Si procede per tentativi. Con Carlo Verdelli direttore editoriale si era provato a organizzare l’informazione, senza riuscirci. Ora si è accentrato il potere in poche mani per semplificare i processi. Ma sono le reti a sapere di quali prodotti hanno bisogno». Invece così le reti non hanno più identità?«Esatto. Adesso le gerarchie sono meno chiare e oltre alla concorrenza di Mediaset e gestire quella interna alla Rai è più complicato. In questa governance che prevede un direttore generale e un amministratore delegato è tutto un po’ confuso e non si capisce bene chi comanda».Da un anno e mezzo si attende la nomina del presidente di garanzia, rimpiazzato dalla reggenza di Antonio Marano, consigliere anziano. È questa situazione a indebolire la linea di comando o manca una squadra di dirigenti che possa aiutare l’ad?«La seconda che ha detto. Comunque, il presidente di garanzia è un ossimoro. Ne ho conosciuti tanti, anzi, tante visto che molte erano donne, da Anna Maria Tarantola a Lucia Annunziata fino a Monica Maggioni. Non ho mai capito bene quale fosse la loro funzione. Ancora più incomprensibile mi risulta quella della commissione parlamentare di Vigilanza, un reperto di archeologia partitocratica. In questa situazione non si può prendersela più di tanto con Giampaolo Rossi. La Rai avanza per inerzia. La conferma è che da decenni i programmi sono sempre gli stessi: Sanremo, Benigni…».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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