
Ci vuole fegato per mangiare il fegato. E ce ne vuole ancor di più per gustare il prelibato foie gras, una goduria da non vantare in pubblico per non rischiare uno sganassone da parte di qualche animalista. Nel primo caso ci si scontra (pacificamente) con la fazione di chi, pur essendo carnivoro, odia il fegato tout court: per l’aspetto; il sapore dolce al gusto e amaro al retrogusto; per il fatto che è una ghiandola imparentata con le frattaglie, viste con ribrezzo dagli schifiltosi; per una lontana ripulsa infantile. «Il fegato, come tutte le frattaglie», scrive il giornalista gastronomo Angelo Peretti, «non ammette mezze misure: lo ami o lo disprezzi».
Nel caso del foie gras si cozza col bellicoso partito degli animalisti che non sopportano, e dal loro punto di vista non hanno tutti i torti, le torture inflitte ad oche e anatre ingozzate a forza dagli allevatori per far venire alle povere bestie un fegato grosso come quello di Elisabetta Casellati, la presidente del Senato candidata alla presidenza della Repubblica, quando seppe che perfino i suoi compagni di partito non l’avevano votata negandole la poltrona quirinalizia.
Per i Greci antichi il fegato era l’organo dove risiedevano il coraggio, la forza, la collera e il desiderio sessuale. Prometeo ebbe il fegato di svelare agli uomini il segreto del fuoco e Giove lo punì incatendolo ad una montagna dove un’aquila, tutti i giorni, gli divorava la ghiandola epatica che ricresceva di notte. Gli Etruschi ricavavano auspici dal fegato e se ne cibavano per allontanare sortilegi e malefici. Se in corpo (e nel vocabolario) abbiamo il fegato lo dobbiamo ai crapuloni Romani e alla loro insaziabile golosità. La parola deriva da ficatum, il fegato di oche ingrassate con i fichi. Plinio, il grande scienziato dell’antichità, attribuisce questa trovata gastronomica ad Apicio l’autore del De re coquinaria che raccomandava agli allevatori di completare il lavoro ingozzando le povere bestie, prima che schiattassero, di vino al miele. Il risultato era garantito: una delizia degna della tavola dei Cesari e dei vari Luculli dell’Urbs caput mundi. Il celebre fois gras francese tanto amato dal nostro Gioachino Rossini che lo avrebbe messo anche nel caffelatte? Arriverà 1700 anni dopo.
Attenzione, però. C’è fegato e fegato. Quello bovino si trova in macelleria, ma anche nelle vaschette di polistirolo al supermercato. I fegati di vitello, vitellone e bovino adulto vanno in ordine decrescente di delicatezza e crescente di colore. Il fegato di maiale, pur raccomandato per le proteine, i minerali e le vitamine che contiene, ha un aroma intenso, meno gradito. Quello di cavallo è poco o punto usato. Quelli di agnello o di capretto ci sono quasi solo a Pasqua. I fegatini di pollo, presenti tutto l’anno, venduti anche con i cuoricini, entrano come ingrediente in un mitico piatto della cucina veronese: paparèle e fegadìni. Altro piatto leggendario della cucina veneta è il fegato (bovino) alla veneziana. Giuseppe Maffioli, gastronomo e scrittore, scrive nel Ghiottone Veneto che le frattaglie occupano un posto di primo piano nella cucina della Serenissima e che il fegato alla veneziana ne è il re, entrato nei menu di tutta Europa: «Fette sottili di fegato di vitello scottate appena su un soffritto di cipolla bionda, ricco di condimento. Metà olio e metà burro». Massimo Alberini, giornalista e scrittore padovano, raccomanda di cuocere pochissimo il piatto di carne più noto della cucina veneziana e di servire le gustose fettine intrise di condimento con la polenta.
In Toscana troviamo un’altra prelibatezza fatta con i fegatini di pollo: il crostino toscano. Viene servito come antipasto. È saporito e, grazie agli anglosassoni del Chiantishire, è diventato internazionale tanto che il paté di fegatini viene venduto in vasetti anche nei supermercati. Marzia Morganti, giornalista e scrittrice pratese suggerisce questa ricetta nel Mangia e bei, ricette e storie della cucina tradizionale pratese: ingredienti, fegatini di pollo, due acciughe, un cucchiaio di capperi dissalati, mezzo bicchiere di Vin santo secco, 20 grammi di burro, poco olio extravergine di oliva, sale e pepe, qualche fettina di pane casalingo. Tagliare finemente i fegatini con le acciughe diliscate e i capperi lavati con acqua fredda. In un tegame sciogliere il burro e aggiungere l’olio fino a coprire il fondo, scaldare e aggiungere il trito. Rosolare per alcuni minuti, salare e aggiustare di pepe. Versare il Vin Santo e far ritirare, tagliare la fetta di pane casalingo in quattro crostini, tostarli e spalmarli con il paté ancora caldo.
A proposito di vino, l’abbinamento con il fegato è complesso perché si rischia di contrapporre il vino con il sapore sanguineo della ghiandola ottenendo una sgradevole sensazione metallica al palato. E allora? Acqua? No, dice Peretti, fine naso enologico ed esperto di vini come pochi: «Vanno evitati i tannini tipici dei vini rossi e le acidità pronunciate: mai gli spumanti. È da privilegiare la morbidezza, se non addirittura la dolcezza, come quella dei grandi vini passiti bianchi, purché non ossidativi. Anche se il fegato venisse servito come antipasto, non c’è nessun problema ad aprire la cena con un grande passito bianco. In Italia? Purtroppo, da noi i vini dolci hanno subito un inspiegabile declino, ma abbiamo comunque delle meravigliose realtà. Il Veneto fa un po’ la parte del leone con il Recioto di Soave, il Recioto di Gambellara, il Torcolato di Breganze. In Friuli troviamo il mitico Picolit e l’altrettanto raro Ramandolo. Nel Trentino c’è il delizioso Vino santo ottenuto dall’uva Nosiola appassita grazie ai venti che spirano dal lago di Garda. In Alto Adige il riferimento d’obbligo è la vendemmia tardiva di Gewurztraminer. In Liguria la dolcezza si fonde con le note salmastre nello Sciacchetrà delle Cinque Terre. In Romagna si fa appassire l’Albana. In Umbria c’è l’Orvieto muffa nobile. In Sardegna il Passito. In Sicilia il passito di Pantelleria e la Malvasia delle Lipari».
Torniamo al foie gras, il fegato grasso dell’anatra o dell’oca. Anche se la sua storia non inizia in Francia (bassorilievi egizi testimoniano che 2500 anni prima di Cristo allevatori egiziani nutrivano forzatamente le oche), i francesi sono maestri di fegato grasso. Lo cucinano a scaloppine e ci abbinano il Sauternes o il Vin de Paille d’Alsazia, entrambi ricchi di zuccheri. Attenzione all’etichetta: se si acquista il paté di fegato d’oca o d’anatra sulla confezione ci dev’essere scritto d’oie (oca) o de canard (anatra). Se l’etichetta parla genericamente di paté de foie, è di maiale o di vitello. Ingozzandosi di paté de canard Ugo Tognazzi si suicida nel film La grande abbuffata di Marco Ferreri (1973).
In Italia si fa un eccellente fegato grasso a Mortara, in provincia di Pavia, e a Palmanova, la cittadina ad una ventina di chilometri da Udine chiusa tra le mura di un poligono a nove punte e considerata uno dei borghi più belli d’Italia? Sia a Mortara, che vanta una tradizione secolare, che a Palmanova, oltre al fegato grasso (gli allevatori assicurano che non si seguono le forzature francesi) si trovano il salame, il prosciuttino e il petto affumicato d’oca. Autentiche delizie (perdonino gli animalisti).






