2025-09-22
Ma la sinistra Usa ancora colonizza scuole e università
Non è un caso che l’attivista ucciso andasse spesso negli atenei: tutte le ricerche confermano il predominio assoluto dei liberal.Se il conservatore Charlie Kirk teneva abitualmente i suoi confronti aperti - nei quali duellava dialetticamente coi suoi interlocutori all’insegna del motto «Prove me wrong» (provami che sbaglio) - nei campus universitari, beh, un motivo c’era. Da molti anni a questa parte, infatti, da templi del sapere gli atenei si sono trasformati in laboratori del pensiero progressista, dove i futuri giudici, avvocati, medici e giornalisti, vengono formati all’insegna della cultura dominante. Da questo punto di vista, da qualunque angolazione li si guardi dati e statistiche sono inoppugnabili.Qualche numero? In occasione delle ultime elezioni presidenziali americane, un’indagine a cura di Inside Higher Ed /Hanover Research, cui hanno risposto oltre 1.100 docenti statunitensi, ha rilevato come il 78% di essi sostenesse Kamala Harris e Tim Walz e solo l’8% Donald Trump e JD Vance. Sono numeri nettissimi, quasi del tutto sovrapponibili a quelli di altre rilevazioni. Ancora nel 2018 l’economista Mitchell Langbert, su Academic Questions, a partire da un campione assai vasto di quasi 8.700 professori (8.688) con dottorato di ricerca e tenure track aveva scoperto come il 39% dipartimenti accademici non avesse neppure un docente iscritto al partito repubblicano, con un rapporto medio tra democratici e appunto repubblicani di 10,4 a 1. Anche altri studiosi sono pervenuti a numeri simili. L’economista Daniel Klein ha esaminato i registri elettorali dei docenti dell’Università della California a Berkeley e di Stanford e ha condotto un sondaggio su oltre 1.000 professori in tutto il Paese. Risultato? A Berkeley Klein ha trovato 445 democratici e 45 repubblicani, con un rapporto di 10 a 1; a Stanford 275 democratici e 36 repubblicani, con un rapporto di 8 a 1.Secondo quest’economista, che si dice libertario, tale sbilanciamento non potrà che aggravarsi nel tempo. «Non credo che i conservatori non abbiano voglia di insegnare o non siano interessati al mondo accademico», ha infatti commentato Klein, «piuttosto penso che siano intimiditi o non vogliano entrare in un ambiente in cui troverebbero ostilità e non sarebbero i benvenuti». E come biasimarli? La cosa drammatica è che, se ci si concentra sulle università dai nomi più altisonanti e prestigiosi, la musica non cambia affatto, anzi. In un rapporto di una trentina di pagine sul prestigioso ateneo di Yale, in 14 dipartimenti di scienze sociali e umanistiche, il Buckley Institute ha identificato 312 docenti democratici (88%) e appena 4 repubblicani (1,1%), un incredibile rapporto di circa 78 a 1. Non va molto meglio ad Harvard, dove l’80% e più dei docenti di diverse facoltà si definisce liberal - quindi progressista - e dove i prof «molto progressisti» aumentano di anno in anno. Non è un caso che, secondo il report 2025 del College Free Speech Rankings, realizzato da Fire e College Pulse - fonti vicine ai conservatori ma autorevoli - su oltre 250 atenei Harvard risulti all’ultimo posto «per il secondo anno di consecutivo» in una classifica sulla libertà di parola, segnalandolo come uno di quelli in cui il clima a tal proposito è «pessimo».D’altra parte, non si può neppure dire che tutto questo sia una novità. Correva infatti l’anno 2003 quando non su qualche giornalaccio conservatore bensì sulle colonne del New York Times David Brooks scriveva di conservatori isolati in importanti università come Harvey Mansfield ad Harvard, Alan Kors alla Pennsylvania e Robert George a Princeton. Vere e proprie mosche bianche dimostrative d’uno sbilanciamento ideologico pluridecennale del quale, curiosamente, i sinceri democratici non si sono mai preoccupati, anzi. A loro sembra andare benissimo quest’occupazione quasi manu militari del mondo accademico da parte progressista. Gli stessi conservatori - eccetto casi come quello di Charlie Kirk - si guardano bene dal confrontarsi con università nelle quali sono visti come estrema diffidenza.Certo, resta la domanda su come mai si sia arrivati a questo punto. Probabilmente le spiegazioni sono diverse e non alternative tra loro. Di certo, pesa che le università - non solo americane, ma anche europee - siano state la culla del Sessantotto e della rivoluzione dei costumi. In secondo luogo, un influsso deve averlo avuto anche il pensiero di Antonio Gramsci, il quale, come noto, proprio nell’egemonia culturale indicava una strada assolutamente da attuare e percorrere. Infine, c’è la secolarizzazione, che ha «spento» l’altra corrente di pensiero e valoriale per secoli dominante negli atenei: quella cristiana. Non è pertanto esagerato, oggi, definire il progressismo un credo.