Tra cinque giorni, il 30 luglio, Matteo Ricci, l’apparentemente baldanzoso candidato alla presidenza della Regione Marche che del Pd è stato vicesegretario nazionale, 10 anni sindaco a Pesaro e 5 presidente della Provincia, ora eurodeputato, deve essere convincente col Procuratore capo di Pesaro Marco Mescolini che conduce l’inchiesta sulla cosiddetta affidopoli, ma per paradosso lo stesso giorno ha un «interrogatorio» assai più delicato: quello con Giuseppe Conte. L’orientamento del Movimento sembra essere quello di sfilarsi nel caso che Ricci si avvalga della facoltà di non rispondere, ma anche se la strategia difensiva fosse diversa, l’alleanza è tutt’altro che salda. Del resto, il M5s marchigiano non digerisce per nulla l’alleanza con il Pd (il coordinatore regionale Giorgio Fede già cinque anni fa ruppe con i democrat) e la consigliera regionale (unica superstite di un gruppo che nel 2015 correndo da solo aveva raccolto il 21,5% dei voti e 5 seggi) Marta Ruggeri è lapidaria: «Ricci deve dimostrare che non ha avuto utilità, altrimenti è incompatibile con i nostri valori». Sono le stesse parole di Conte che, dicono, sta davvero studiando le carte del caso Ricci. Per l’eurodeputato del Pd che ha dichiarato «Loro (il centrodestra ndr) sono impauriti; se pensano che potranno utilizzare questa vicenda per avere un vantaggio elettorale non hanno capito: noi vinceremo e loro avranno da questa vicenda un boomerang e se lo ricorderanno per tutta la vita». Sono ore convulse. Conte non è più per niente convinto di appoggiare Ricci: si sarebbe persuaso che la ripresa del M5s nelle Marche sia alle politiche con il 13,6% dei voti sia alle europee rende proficua anche la corsa in solitario gli chiede un autodafé ed è una grana enorme per il Pd. Se salta il campo largo nelle Marche torna in discussione l’accordo sulla Campania dove s’annuncia la candidatura di Roberto Fico, si blocca l’intesa in Puglia e in Toscana. Elly Schlein non se lo può permettere. Ha scommesso, per tenersi il partito, che le regionali finiscono 4 a 1 lasciando al centrodestra solo il Veneto e riconquistando Marche. Ma senza il campo larghissimo non ha alcuna possibilità. Ne ha ancora meno adesso nelle Marche dopo l’affaire Ricci. Che ha più di un problema ce l’ha. Pare che Franco Arceci - era il suo capo di gabinetto - inquisito pure lui non abbia per nulla gradito il video in cui l’eurodeputato scarica tutte le colpe sui funzionari. «Così non si fa», avrebbe confidato Arceci al suo avvocato, «mi sento offeso e ho qualcosa da dire». Anche lui sarà interrogato il 30 (altri dei 24 inquisiti hanno chiesto il rinvio) e potrebbe non essere proprio un asso nella manica per Ricci. L’esponente del Pd si è difeso affermando che gli sembra strano che la Procura gli imputi come utilità il vantaggio politico della notorietà. E ancora più strano - si è convertito alla giustizia a orologeria - gli è parso che «l’avviso di garanzia mi sia stato notificato il giorno dopo la fissazione della date delle elezioni». L’articolo 318 del codice penale - quello in base a cui la Procura lo accusa - però è chiaro: perché ci sia corruzione basta una qualsiasi utilità per sé o per altri. C’è da capire come la intende il professor Conte a cui Ricci, ma anche il Pd, deve spiegare un’altra cosa: quando ha saputo davvero di essere iscritto a modello 21? Lui è indagato in concorso col suo braccio destro Massimiliano Santini e con Stefano Esposto che sono stati i primi «avvisati» dal luglio 2024. C’è sin da quella data nel registro delle notizie di reato un «omissis». Una domanda che sicuramente i pentastellati faranno al Pd è: quando ci avete chiamato per sostenere Ricci sapevate che era indagato? Il futuro del campo largo ruota attorno a queste due domande. A cui Ricci, che stasera si prepara a Baia Flaminia di Pesaro alla «cena dei mille», dovrà rispondere. Da qui il timore dei pentastellati - nelle Marche nel 2018 ebbero il massimo exploit alle politiche: presero il 35,5 % pari a oltre 316.000 voti - d’essere stati ingannati. Alle scorse regionali i pentastellati erano scesi all’8,6%, ma già alle politiche del 2022 avevano recuperato fino al 13,6. Alle Europee di un anno fa hanno sfiorato il 10% (terzo partito) e il Pd che nelle Marche non è andato oltre il 25,5% - staccato di 8 punti da FdI - senza i contiani non ha nessuna possibilità di sfrattare Francesco Acquaroli dalla Regione. Nelle ultime ore sono scesi in campo i civici con «Marchigiani per Acquaroli» e «Base popolare»- quasi tutta Azione, parte di Italia viva e il gruppo dell’ex presidente Mario Spacca - sta col Centrodestra. L’Udc ha fatto della «battaglia di legalità» su Pesaro una bandiera. Candida al consiglio regionale l’avvocatessa Pia Perricci prima accusatrice di Ricci - l’ha querelata - che ha inviato gli atti all’autorità anticorruzione che si avvia a sanzionare il Comune di Pesaro. Il campo largo ora è quello del centrodestra. A Ricci oltre alla sperticata solidarietà del Pd - difficile cambiare cavallo, anche se azzoppato, a due mesi dal voto - resta l’appoggio di Avs che «confida nella magistratura» e di Più Europa. In teoria a sostenerlo ci sarebbero 19 liste, ma per ora, dato che Pesaro è città della lirica, sembrano il coro a bocca chiusa della Butterfly.
Nelle sue 40.000 apparizioni televisive, Fiorella Pierobon, per molti anni popolare volto di Canale 5, non ha mai dimenticato una vocazione che fin da bambina portava nell’anima, quella per l’arte. Annunciatrice e conduttrice tv, dopo aver lasciato, nel 2003, il piccolo schermo, si è trasferita a Nizza, in Francia. Qui, a casa e nel suo atelier al 31 di rue Droite, la via degli artisti, realizza dipinti e sculture.
È nata a Somma Lombardo. Ma il suo cognome manifesta inequivocabili origini venete…
«Tecnicamente, sono nata a Somma Lombardo (Varese, ndr), nel senso che sono nata in quell’ospedale. I miei sono veneti, semo tuti de noialtri, ma sono originaria di Comabbio di Vergiate, nasco lì. Si spostarono dal Veneto prima in Piemonte e poi in Lombardia».
Il suo esordio in tv già a 17 anni con Tutto Uncinetto.
«Telealtomilanese, la prima televisione libera della Lombardia, aveva un programma, Pomofiore, poi andato su un’altra rete, Ciperita, condotto da Raffaele Pisu. Facevo la prima telepromozione, parlando del mensile Tutto Uncinetto. Questo nel 1977».
Da bambina e ragazzina, arte e tv erano già un interesse manifesto?
«Quello per l’arte di sicuro, perché alle elementari presi un premio dalla Regione Lombardia. Ma per la televisione assolutamente no, cantavo solo nei cori in chiesa…».
Pertanto com’è nata la sua avventura televisiva?
«Per puro caso, perché stavo assistendo al programma di cui dicevo prima, a Busto Arsizio, e lì mi notò il direttore della pubblicità, chiedendomi se volevo partecipare a questa trasmissione il venerdì sera. Risposi “perché no?” e da lì sono passata a Telenorditalia. La mattina le scalette, il pomeriggio gli annunci e la sera un programma in diretta… Poi alcuni rimasero senza lavoro. Il canale l’acquisì Berlusconi e allora ci siamo trasferiti a Milano, passai a Canale 51, poi a Italia 1 e poi a Canale 5, Superflash e Bis con Mike…»
Sul suo sito Web (fiorellapierobon.com) scrive: «Ho scelto di abbracciare una nuova vita, ritornando al mio primo amore, la pittura». La sua inclinazione per l’arte ha dato i suoi frutti…
«Sì. Dopo tanti anni il mio lavoro si era ridotto a pochi annunci giornalieri, trasmissioni non ce n’erano più da fare perché monopolizzate più o meno dalle stesse persone. Decisi di lasciare, ma non pensavo succedesse tutto questo. Mi sono trasferita nella casa che già avevo in Francia e iniziai a dipingere. Amici pittori mi hanno coinvolto in mostre collettive. Capii che c’era interesse. Decisi di aprire l’atelier e tutto mi è esploso tra le mani perché mai avrei pensato di arrivare in tutto il mondo con i miei lavori…».
Vive prevalentemente a Nizza?
«Ho sempre tenuto casa e residenza in Italia. A Nizza ho preso casa per poter lavorare. Non volevo cavalcare l’onda della notorietà e ho detto “faccio tutto in Francia… non mi conoscono… se entrano lo fanno solo perché interessati al mio lavoro”».
Le sue realizzazioni hanno ottenuto una quotazione ufficiale da Drouot, una sua opera è stata acquisita dal museo «Dino Zoli» di Forlì, è stata invitata alla 54ª Biennale di Venezia e molto altro...
«È gratificante. Ai primi tempi, quando la gente si fermava davanti all’atelier a guardare i miei lavori avevo un po’ d’imbarazzo perché sono cose personali, uno lavora e fa cose per sé stesso».
Cosa vuole esprimere?
«Ogni lavoro ha un momento. Il mio lavoro è principalmente astratto, ma ha anche qualcosa di figurativo. Metto il colore sulla tela e poi dipingo con le mani. Disegno come fosse una scultura».
«A Nizza», scrive, «ho potuto lavorare con serenità e in completo anonimato». Ai tempi della tv la notorietà aveva un prezzo da pagare?
«Non mi ha mai dato fastidio perché è l’affetto delle persone che ti seguono e ti stimano. Sono sempre stata la persona di casa, di famiglia. È ancora una gioia quando m’incontrano e si ricordano di me. C’erano però anche fan un po’ strani che ti aspettavano fuori dagli studi televisivi, e dovevi uscire dalla parte dietro. Alcuni mi hanno ossessionato per anni con convinzioni, tipo che siamo sposati, ecco, quelli fanno un po’ paura…».
Adesso è più tranquilla insomma…
«Ho un cognome, come il suo, che può ricordarne uno francese. Comunque, nell’atelier, l’ho messo di lato. Quello che si vede è soprattutto il lavoro e quindi una persona entra soltanto per questo motivo. I lavori più impegnativi li realizzo a casa».
Durante i suoi annunci si affacciavano personaggi famosi. Come Vianello e la Mondaini.
«Loro, in particolare, erano proprio amici, soprattutto lei, venivano anche a casa a trovarmi. Ho lavorato pure con Corrado, con Mike, con Sordi, Dorelli. Pressoché con tutti. Corrado era di una gentilezza d’altri tempi. Un’altra persona con cui ho avuto un bellissimo rapporto è stato Nino Manfredi, con la moglie».
Nel 1989, in una striscia, in pigiama presentava uno spezzone di un film e augurava la buonanotte.
«Quella era proprio una sponsorizzazione, per la camomilla Sogni d’oro. Il programma mio che ha avuto più successo, dando filo da torcere a Linea verde, è stato Rivediamoli, la domenica mattina avevo 12 milioni di telespettatori. Erano spezzoni di programmi tv, brillanti, entravo e facevo gag tra uno spezzone e l’altro. In alcune puntate avevo anche cani di canili che presentavo… Ho fatto anche la volontaria in canile».
Ha degli animali?
«Sempre avuto dei cani, in un periodo ne ho avuti anche sette. Adesso ne ho due, uno purtroppo se n’è appena andato».
Quale ricordo porta di Silvio Berlusconi?
«Buono. Ho avuto solo un piccolo scontro con lui all’inizio, non lo avevo mai incrociato. Mi avevano chiamato in Rai e andai a sentire cosa volevano. Sono sempre stata una libera professionista. Mi fotografarono fuori e le foto uscirono sui giornali. Dopo un po’ lo incontrai a una festa di Sorrisi & Canzoni in un bellissimo palazzo a Milano. Mi disse che era dispiaciuto della cosa. Dissi «guardi, ma non ho detto che vado, sono andata per sentire… Anche lei sarebbe andato…». Dopo questo piccolo battibecco tutto è cambiato. Alla festa per i 10 anni di Canale 5, a Roma, chiesero se potevo portare mio figlio per tagliare la torta. S’era fatto molto tardi, mi dissero che per tornare potevo salire sull’aereo con Berlusconi. C’erano anche Mike e altri dirigenti. Abbiamo parlato di famiglia, figli, lavoro. In quel momento era molto concentrato sul Milan e gli dissi che c’era un po’ di maretta perché non avevamo un punto di riferimento. E allora disse “ci penso io”. Infatti, la settimana dopo, mandò una lettera e sistemò quelle cose. Era molto attento a qualsiasi cosa».
Ha un figlio?
«Sì, un figlio che oggi ha 45 anni e lavora in pubblicità».
Lei ha anche cantato.
«Di programmi musicali ho fatto Discoverde di Salvetti, dove lanciai Ligabue e Biagio Antonacci. Li presentai per la prima volta… Ho sempre fatto le sigle dei miei programmi».
Pure in coppia con Gianni Bella con il brano I veri tesori, musica di Bella, parole di Mogol. Doveva andare a Sanremo 1993 ma…
«Sapevano che cantavo. Dissi “volentieri!” ma fu quell’anno della polemica perché non volevano più personaggi tv al festival, ma solo cantanti, siamo arrivati a un passo dall’entrare ma non entrammo per questo motivo».
Le è mancato il mondo della tv da quando se n’è allontanata?
«No, anche perché l’ho lasciato quando ancora non c’erano tutte queste televisioni anche tematiche… Se ci fosse stata la realtà di oggi forse avrei potuto trovare qualcosa di interessante da fare ancora. Quando sono andata via io, la tv mi sembrava già brutta ma con il tempo è diventata anche peggio».
Dal 21 marzo al 3 maggio 2020, su Radio Francigena, web-radio fondata da lei e suo marito, Alberto Pugnetti, faceva Io resto a casa, programma sul Covid con interviste a persone famose e comuni. A 5 anni da questa frattura?
«La gente la vedo più destabilizzata, prima la vedevo più centrata. Si sperava in un miglioramento che in realtà non c’è stato. Continuano a fare quello che vogliono… Mi sembra proprio un mondo di pazzi».
Cos’è, secondo lei, la serenità?
«In questo momento, in generale, serenità non ce n’è. Ci sono dei momenti in cui magari stacchi, nel mio caso quando gioco con il mio nipote piccolino, adesso ha 5 anni - l’altro ne ha già 14 - quando sei magari in mezzo al verde, incontri degli animali. Ma serenità non ce n’è proprio, fra la guerra, pressioni, la gente arrabbiata che deve lavorare fino a età improponibili, gli stipendi… Non vedo gente serena».
L’arte è anche una terapia?
«Sì, per me è questo. Mentre inizio a lavorare metto musica, spesso Leonard Cohen. Poi, lavorando, c’è un momento in cui mi accorgo che non c’è più la musica ma chi sa da quanto tempo, da tanto sono concentrata…».
Qual è il suo rapporto con la spiritualità?
«Non sono una cattolica, anche se sono battezzata, ma sono credente nel senso che ho la certezza matematica che c’è qualcosa, sono sicura. Ma non seguo il filone religioso della Chiesa cattolica. Se mi parla di Gesù sono d’accordo con lei ma il resto, ecco, non fa per me…».
In questo momento della sua vita, qual è la cosa cui tiene di più?
«In assoluto la famiglia, che è al primo posto. Ma volevo chiederle la gentilezza di parlare di una cosa, perché parlo così raramente con i giornalisti».
Prego.
«Una cosa che mi disturba è che spesso la gente mi contatta: “Ho visto che hanno scritto che sei morta”. Questo perché sui siti danno il là perché la gente legga. Nel titolo scrivono “ci ha lasciato” e uno pensa “è morta” e poi uno va a leggere e scrivono “ci ha lasciato perché è andata a vivere in Francia”. Mio marito ha ricevuto messaggi da amici che non vediamo da tempo: “Ci dispiace per Fiorella, ho saputo che è mancata”. È una cosa che mi fa stare così male… Non succede solo a me ma anche ad altri. Ormai sono 7-8 anni che, regolarmente, più volte l’anno questo succede. È una cosa veramente brutta…».
Il settore automobilistico europeo è in correzione e le Borse lo riflettono: dopo anni di spinta sull’elettrico, mercati e regolatori ricalibrano aspettative e tempi della transizione alla luce di una domanda che zoppica e di rischi geopolitici crescenti. Le performance, da inizio anno, divergono: vari costruttori europei sono in flessione, mentre gruppi tedeschi e player americani e cinesi appaiono più resilienti grazie a volumi solidi, tagli e delocalizzazioni mirate. Il nodo non è la direzione della decarbonizzazione, ma la velocità con cui l’Europa ha cercato di imporla. Domanda debole e infrastrutture di ricarica scarse rallentano l’adozione dell’elettrico e mettono in discussione business plan basati su scenari ottimistici.
«Il consumatore si sta comportando come il cammello del proverbio arabo. Puoi portarlo alla fonte ma non puoi costringerlo a bere», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Chi ha puntato molto o tutto sull’elettrico sta pagando il prezzo di una crescita ancora troppo dipendente dagli incentivi». Si apre lo scontro con Bruxelles sulle regole emissive. John Elkann, presidente di Stellantis, ha avvertito che «c’è un serio rischio di un declino irreversibile per l’industria automobilistica europea se l’Unione europea non ammorbidisce la sua posizione sui tagli alle emissioni di carbonio, concedendo maggiore flessibilità». L’industria propone un piano, definito da Elkann come «un altro modo per ridurre le emissioni in Europa in modo costruttivo e concordato, ripristinando la crescita che abbiamo perso», che punta a mantenere oltre il 2035 ibridi plug-in, range extender e carburanti alternativi, a rendere più flessibili i target di CO2 del 2030 e un programma di rottamazione delle auto più inquinanti e rilancio delle piccole a prezzi contenuti.
La correzione della Commissione va in questa direzione: senza toccare i target climatici, Bruxelles intende revocare il divieto sui motori endotermici dal 2035, aprendo alle «auto ibride ma anche i motori a combustione convenzionali, purché alimentati con biocarburanti o e-fuel». Come sintetizza il commissario Apostolos Tzitzikostas, la Commissione è «aperta a tutte le tecnologie» e deve evitare di «compromettere la nostra competitività».
Questo riposizionamento avviene mentre i costruttori cinesi guadagnano quote, forti di filiere integrate e costi difficili da replicare in Occidente. Un veicolo elettrico prodotto in Cina «costa spesso molte migliaia di dollari in meno di uno sviluppato negli Stati Uniti o in Europa, anche oltre un terzo», sottolinea Salvatore Gaziano, «e questa minaccia competitiva sta spingendo l’Europa a guadagnare tempo, rivedendo un approccio che appariva troppo “ideologico”». La Borsa, insomma, mostra un’industria europea delle quattro ruote che deve dimostrare di saper innovare e comprimere i costi per restare rilevante nel futuro (imposto) dell’auto a batteria.
Bisognerebbe avere la penna di Lewis Carrol perché questa è come la festa di non compleanno organizzata per Ursula nel Paese delle meraviglie. Stiamo celebrando la festa dei non dazi! Però stavolta il Cappellaio Matto, e cioè il Consiglio Ue, ha tirato fuori una sorpresa: si sospendono le tariffe solo a quei Paesi che accettano di ripigliarsi i migranti entrati illegalmente in Europa. Si dirà: è un gran passo avanti. Piano con gli entusiasmi: della settantina di Paesi che beneficiano dei dazi agevolati, anzi azzerati, in quanto poveri, meno di 20 hanno accettato di firmare le convenzioni per i rimpatri. E gli altri?
Continueranno a invaderci con i loro prodotti - soprattutto agricoli o di basso artigianato - a prezzi irrisori facendo dumping ai nostri agricoltori. Ma un altro passo avanti - come spiega Alessandro Ciriani, eurodeputato di Fdi-Ecr e relatore della modifica del regolamento Ue sui Paesi sicuri - è stato fatto perché la commissione Giustizia e Diritti dell’Eurocamera ha «approvato il dossier sui Paesi sicuri». È uno strumento indispensabile e - nota Ciriani - «confido che anche l’Aula lo approvi affinché l’Europa possa dotarsi di un impianto normativo solido e credibile nella gestione dei flussi migratori».
Sembrerà strano, ma dopo aver strillato come aquile contro il cattivone Donald Trump anche l’Europa si ricorda che le barriere commerciali possono servire. La baronessa von der Leyen le ha sempre interpretate in maniera punitiva per l’economia dell’Ue. Un esempio è la folle direttiva Csddd (Corporate sustainability due diligence directive) che prevedeva che un’azienda certificasse come sostenibile tutta la filiera. Dal Green deal ai dazi le astrusità si sprecano: eccone una assai datata (entrata in vigore negli anni Settanta e rivista nel 2014) e che si chiama Spg (Sistema delle preferenze generalizzate), per cui l’Ue non applica alcun dazio alle merci che arrivano da Paesi poveri o presunti tali.
Fino a poco tempo fa ne beneficiava persino la Turchia. Le nazioni che oggi godono dell’esenzione totale sono 69 e ce ne sono alcune il cui commercio è in mano ai monopolisti agricoli, perciò fanno danno ai nostri agricoltori. L’esempio più clamoroso è il riso. Partendo dal riso l’Italia - siamo di gran lunga il primo produttore europeo con un milione e mezzo di tonnellate e ne esportiamo oltre la metà - col sostegno della Spagna ha messo in crisi il sistema Spg chiedendone una verifica nonostante le resistenze del commissario all’Agricoltura Christophe Hansen e della stessa Ursula von der Leyen. La ragione delle resistenze è presto spiegata: gli altri Paesi europei importano riso (scadente) a prezzi da dumping penalizzando i nostri agricoltori. Quando si dice l’Europa unita! Il ministro Franceso Lollobrigida, sollecitato da Coldiretti e Filiera Italia, sul riso ha raggiunto un primo risultato. Scatta una clausola di salvaguardia automatica se le importazioni superano il 48% della media degli ultimi cinque anni: 552.000 tonnellate che arrivano da Myanmar e Cambogia, Paesi compresi nell’elenco Spg, ma che non hanno firmato gli accordi sui rimpatri.
Il fatto è - come rilevano Ettore Prandini presidente Codiretti e Luigi Scordamaglia di Filiera Italia - che «la Commissione a guida von der Leyen sembra non tener conto che molto di questo riso viene coltivato con lo sfruttamento del lavoro minorile, oltre che con l’utilizzo di pesticidi, vietati da anni in Europa. Le importazioni hanno appena superato le 540.000 tonnellate e hanno gravato anche sul prezzo di varietà di eccellenza come l’Arborio, che ha subito una perdita del 35% del valore rispetto allo scorso anno». Per questo le associazioni agricole - non solo quelle italiane - chiedevano clausole di salvaguardia su tutti i prodotti, non accordate.
Il compromesso tra Consiglio Ue e Parlamento - dove i socialisti, Pd compreso, si sono opposti a qualsiasi applicazione di dazi legati ai rimpatri - ora prevede che se un Paese non aderisce agli accordi sui rimpatri perde i benefici.
Nonostante sia a guida socialista, la Danimarca ha stretto moltissimo le maglie dell’immigrazione, e il ministro degli Esteri Lars Rasmussen ha detto: «I benefici devono essere legati per la prima volta, oltreché al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, alla cooperazione per il rimpatrio dei cittadini di quei Paesi presenti illegalmente in Europa». È un segno evidente del cambio di rotta dell’Europa sulle politiche migratorie con un concerto molto ampio in seno al Consiglio europeo per l’accelerazione dei rimpatri. Si è dunque capito che i dazi sono anche un’arma di pressione. E possono diventare uno strumento di protezione del lavoro degli agricoltori europei e mediterranei.
Tanto per avere un’idea, la Tunisia può esportare 17.000 tonnellate di olio extravergine (con le triangolazioni che passano da Spagna e Grecia il quantitativo si moltiplica per cinque) a dazio zero, il Marocco ci ha spedito mezzo milione di tonnellate di mandarini e 100.000 tonnellate di limoni e arance. Da Armenia, Bolivia, Costa Rica, Capo Verde, Ecuador, Georgia, Mongolia, Perù, Pakistan, Paraguay, Etiopia, Vietnam e Sri Lanka importiamo di tutto. Ma sovente, a fare affari sono le multinazionali. Le 400.000 tonnellate di caffé (per circa 2 miliardi di dollari) che arrivano dall’Etiopia sono in mano ai cinesi, il tonno in scatola che arriva a da Capo Verde è degli spagnoli, le banane del Costa Rica e dell’Ecuador passano per i due big del mercato: uno brasiliano (quando si dice il Mercosur) e uno americano.
«I Risultati positivi dell'Italia sono sotto gli occhi di tutti». Così il vicepresidente alla Coesione Raffaele Fitto a margine dell’assemblea nazionale della CNA a Roma.
«Stiamo lavorando sul terreno della semplificazione in modo molto efficace. Abbiamo presentato sei omnibus che vanno nella direzione della semplificazione. Ma anche con una politica flessibile che mira a intercettare le reali esigenze che cambiano in modo molto rapido. In terzo luogo, con gli strumenti attualmente disponibili, che sono il PNRR, di cui l’Italia è il principale beneficiario, con risultati positivi e sotto gli occhi di tutti, insieme alla revisione della politica di coesione dell’attuale bilancio, un altro strumento molto importante che abbiamo messo a disposizione».





