2020-08-21
L’utilità dei vecchi giornalisti spiegata attraverso i nichilisti russi
Michele Serra (Getty images)
Un dibattito estivo che ha coinvolto Michele Serra affronta il conflitto tra le generazioni. Meglio tornare a Ivan Turgenev.L'estate, di solito, è la stagione delle polemiche. Ce ne sono sempre, di polemiche, ma d'estate, mi sembra, di più, e una delle polemiche che si sono scatenate, per così dire, quest'estate, è scaturita da una lettera scritta da un lettore del Venerdì di Repubblica, lettore che chiedeva a Michele Serra perché non va in pensione. Michele Serra ha risposto, tra le altre cose, che a lui piace molto il modo in cui scrive Natalia Aspesi, e che non vorrebbe che la Aspesi andasse in pensione. Adesso, a me, devo dire, Natalia Aspesi, il modo in cui scrive, non piace, però, sono d'accordo con Michele Serra, nemmeno io vorrei che andasse in pensione. In questo mestiere che fanno Natalia Aspesi, Michele Serra, e, immeritatamente, anch'io, non si va in pensione, credo, e non lo dico adesso che son vecchio (ho 57 anni) e sono vicino all'età della pensione; le rubriche di posta dei giornali meritatamente affidate a Michele Serra e Natalia Aspesi e a molti altri, mi sono sempre piaciute, e sono state, a suo tempo, anche fonte di ispirazione letteraria (se si possono usare il sostantivo ispirazione e l'aggettivo letteraria per le cose che scrivo io). In un romanzo che ho scritto 22 anni fa, che si intitola Bassotuba non c'è, il protagonista, che si chiamava Learco Ferrari, e stava per pubblicare il suo primo romanzo, si chiedeva cosa sarebbe successo se il romanzo avesse avuto successo e lui fosse caduto nel baratro della notorietà. E si rispondeva che gli sarebbe probabilmente toccato tenere la rubrica delle lettere del settimanale Oggi la posto di Susanna Agnelli, che sarebbe nel frattempo scomparsa tragicamente. «Susanna Agnelli», scriveva Learco Ferrari, «ha questa rubrica sul settimanale Oggi che la gente le scrive le lettere. Una volta l'ho letta. C'era uno che le scriveva: “Cara Susanna Agnelli, si sposa un amico di mia figlia, che è anche il figlio del nostro medico di famiglia. È un ragazzo molto caro, che ci ha fatto un sacco di bene e ci ha anche invitato al suo matrimonio. Consigliaci, per cortesia, un regalo di buon gusto da fargli". Susanna Agnelli rispondeva: “Un impianto stereofonico. Ce ne sono di tutti e i prezzi e si fa sempre bella figura". A me, per esempio», continuava Learco Ferrari, «scriverebbero “Caro Learco Ferrari, abbiamo invitato a cena dei nostri amici a cui teniamo molto. Consigliaci per cortesia un menu adeguato e di buon gusto" E io risponderei: "Un bel piatto di merda. Non costa niente e ce n'è in abbondanza"». In un altro romanzo, che si chiama Gli scarti, pubblicato, da Feltrinelli, 17 anni fa, il protagonista, che si chiamava sempre Learco Ferarri, era un fedele lettore di una rubrica tenuta sull'inserto del Corriere della Sera dallo scrittore parmigiano Alberto Bevilacqua; anche quella era una specie di posta dei lettori, con Bevilacqua che rispondeva a delle domande come quella di Alberto Perotti da Anzio, che chiedeva: «Esistono luoghi dove la longevità è estrema?». «Certo», rispondeva Bevilacqua, «basta pensare al villaggio di Vilcabamba, sperduto nelle Ande; al piccolo principato di Hunza, nel Kashmir; alle regioni montuose della Georgia», diceva Alberto Bevilacqua, noto antropologo. «Giorgio Pighi», continuava Bevilacqua, «mi chiede cos'è il biofeedback. Il biofeedback training è una tecnica per raggiungere l'autocontrollo delle funzioni fisiologiche», rispondeva il noto biologo Alberto Bevilacqua con un tono anche un po' scocciato come per dire «Guarda che domande facili che mi fanno oggi». «Scusi la domanda puerile», scriveva Gianna Falcone da Volterra, «tutti parlano dei buchi neri ma nessuno sa spiegarmeli, tutti si limitano a dirmi: un misterioso fenomeno cosmico». «La domanda non è affatto puerile», rispondeva Alberto Bevilacqua, noto astrofisico, «Il buco nero si forma in seguito alla scomparsa di una stella gigante rossa, una volta che questa ha esaurito tutta la propria energia nucleare. La forza di gravità impedisce all'immensa sfera di gas caldissimo di disperdersi nello spazio. Quando la stella si raffredda, la gravità attira il gas verso l'interno…», c'era scritto ne Gli scarti. Io, insomma, credo che gli scrittori anziani, come me, per gli scrittori giovani siano utilissimi, e che il fatto che i vecchi vadano o meno in pensione è una cosa abbastanza secondaria, forse. Quando penso agli scontri tra generazioni, mi viene in mente Sergej Bazarov, protagonista di un romanzo, Padri e figli, pubblicato nel 1861 da Ivan Turgenev. Bazarov era uno dei più conosciuti tra i nichilisti, parole costruita a partire dalla parola latina nihil, che significa, come si sa, niente. Ma non è, come potrebbe sembrare, che i nichilisti non credessero a niente: semplicemente, non credevano nell'autorità delle generazioni che li avevano preceduti, e riverificavano tutto, studiavano come matti, primo tra tutti Bazarov, perché erano convinti che il potere, il tuo potere, non dipende dal posto che occupi nell'organigramma, ma da quello che sei capace di fare. E un modo che mi piace di raccontare il rapporto tra padri e figli, è dato da Turgenev nelle ultime righe del suo romanzo, che copio qua sotto dopo aver avvisato che, chi ha paura degli spoiler, è meglio si fermi qui: «C'è un piccolo cimitero di campagna in uno degli angoli lontani della Russia. Come quasi tutti i nostri cimiteri ha un aspetto triste: i fossi che lo circondano sono da tempo pieni d'erbacce; le grigie croci di legno si sono piegate e marciscono sotto i loro tetti che una volta erano dipinti; le lastre di pietra sono tutte smosse, come se qualcuno le avesse spinte dal basso, duo e tre alberelli magri fanno a malapena una misera ombra, delle pecorelle vagano indisturbate tra le tombe… Ma tra di esse ce n'è una che l'uomo non tocca e l'animale non calpesta. Una cancellata di ferro la circonda; Evgenij Bazarov è sepolto in questa tomba. Qui, da un piccolo villaggio poco lontano, vengono spesso due vecchi ormai decrepiti, marito e moglie. Sorreggendosi l'un l'altra camminano col loro passo pesante; si avvicinano alla cancellata, si mettono e rimangono in ginocchio, e piangono a lungo, e amaramente, e a lungo e attentamente guardano la muta pietra sotto la quale giace il loro figlio; si scambiano qualche parola, tolgono la polvere dalla pietra, aggiustano il ramo di un abete e si mettono ancora a pregare, e non possono abbandonare questo luogo dove è come se fossero più vicini al figlio, al ricordo di lui… Forse le loro preghiere sono infruttuose? Forse l'amore, il sacro amore fedele non è onnipotente? Oh, no. Per quanto appassionato, peccatore, turbolento sia il cuore nascosto da una tomba, i fiori che crescono su di lei ci guardano serenamente con i loro occhi incolpevoli: non ci parlano solo di pace eterna, di una grande pace “indifferente" della natura; ci parlano anche di un'eterna riconciliazione, e di una vita infinita…». (7. Continua)
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