
Intellettuali e politici progressisti ogni giorno si disperano per la xenofobia in aumento, ma sono i primi a essere ossessionati dalle differenze. La pelle chiara è diventata sinonimo di oppressione e odio, come dimostrano film, libri e articoli di giornale.In un tempo lontano, gli incubi erano il territorio dell'uomo nero. Oggi, però, c'è un altro spauracchio ad agitare i sonni della gente per bene: l'uomo bianco. Esso è il cattivo per eccellenza, brutale, feroce, assetato di sangue. Non importa dove si manifesti - se in Italia, in Francia o negli Stati Uniti - resta comunque una belva pericolosa. A sinistra ne sono ossessionati. In primis, ovviamente, gli americani. Qualche giorno fa, su Repubblica, è uscito un articolo dell'illustre Paul Krugman intitolato «Trump e i maschi bianchi arrabbiati». Il premio Nobel per l'economia spiegava che «gli elettori e i sostenitori di The Donald sono accomunati da rabbia, risentimento razziale e timore di perdere il proprio status di privilegiati». Stesse tesi sostenute, a breve distanza, da Alexis Grenell sul New York Times. In quel caso, però, il bersaglio erano le «donne bianche», indicate come «traditrici» del loro sesso (anzi, «genere») per aver sostenuto il giudice Kavanaugh, accusate di piegarsi al patriarcato per proteggere i loro privilegi, un po' come le femmine dell'harem che temono di uscire dalla gabbia dorata del sultano. Su The Nation, il nero Kai Wright ci è andato anche più pesante: «Non c'è da stupirsi che gli uomini bianchi si dibattano e ululino di rabbia. Bene. Lasciate che abbiano paura. Perché è vero: stiamo venendo per loro, e anche per il loro potere». Ovviamente anche i nostri fini intellettuali progressisti non potevano non esprimersi sul tema. Vittorio Zucconi, martedì, ha pensato bene di scopiazzare i commentatori stranieri per spiegarci che Trump «difende solo l'uomo bianco». Il meglio, tuttavia, lo offre Ezio Mauro, che ha appena dato alle stampe un libro intitolato appunto L'uomo bianco (anche se ieri il sito di Repubblica lo chiamava L'uomo nero, si vede che la parola «bianco» proprio non riescono a scriverla...). Il pregiato manufatto prende le mosse dalla triste vicenda di Luca Traini. Lo sparatore di Macerata diventa, nel testo di Mauro, l'emblema di tutti i forgotten men del nostro Paese, il simbolo di una deriva umana e culturale che sfocia nel razzismo più spietato. I due cardini di tale disastro sono sempre gli stessi: paura e rabbia. Dalle nostre parti, sostiene Mauro, è ritornata la fissazione per la razza: «Perché tu non sei come me, sei “negro", razza condannata, mentre io mi sento protetto dalla mia pelle, garantito dal suo colore, convinto come sono dalla cifra della cute trasformata in insegna di far parte dell'area egemone del mondo». Il sangue che scorre sotto la nostra pelle di bianchi, prosegue Mauro, diventa «una sorta di mito-rifugio dove cerchiamo asilo nell'involucro somatico e autorassicurazione nel guscio identitario». Di fronte a tali ben scritte banalità, occorre fare un po' di chiarezza. Qui, se c'è qualcuno spaventato all'idea di perdere i suoi privilegi è proprio l'intellettuale (o il politico) di sinistra. Dopo aver montato a lungo il cavallo di Troia della globalizzazione - cosa che gli ha portato celebrità e benessere - il progressista si è accorto di essere accomodato su un pezzo di legno. In via di decomposizione, per di più. Trovandosi il popolo furente alla porta, ne ha provato schifo e si è rifugiato nel disprezzo e nell'insulto. Il bianco ribelle, quello che rifiuta la domesticazione e si oppone all'annientamento che gli hanno allestito, fa spavento soprattutto perché lo si credeva ormai moribondo. Da decenni, infatti, quasi tutta la cultura mainstream va ripetendo che il bianco merita la dannazione. Anzi, se possibile va eliminato. A Hollywood hanno tentato proprio la via dell'eliminazione fisica, sostituendo nel tempo interpreti bianchi con attori di colore, chiamati persino a interpretare personaggi come Achille o gli dei della mitologia nordica. In questo caso, nessuno ha gridato con sdegno all'indebita «appropriazione culturale». Ma l'industria cinematografica non è la sola ad aver battuto questa strada. A metà settembre, per dire, la scuola francese Emile-Cohl ha pubblicato sul Web una foto promozionale, propedeutica all'apertura di una nuova sede a Los Angeles. L'immagine ritraeva alcuni studenti francesi sorridenti. I responsabili della scuola, però, per ingraziarsi il pubblico americano hanno pensato bene di «annerire» alcuni dei ragazzi, in modo che la classe sembrasse più «multietnica» e aperta al diverso. Insomma, hanno cancellato i bianchi dalle foto, come si faceva nell'Urss. Da anni il bianco viene svilito, inchiodato ai peccati del passato, deriso. È ridotto a caricatura, ma comunque pericoloso. Esattamente come i redneck americani descritti nel film di Spike Lee Blackkklansman, ora nelle sale italiane. Quando non si riesce a cancellarlo del tutto, il bianco solitamente viene mostrificato. Se è maschio, diventa un Weinstein in potenza. Se non ha simpatie progressiste, diventa immediatamente un Traini o un Breivik. Alla storia di quest'ultimo è dedicato 22 luglio, il film di Paul Greengrass ora visibile su Netflix. Guarda caso, il regista stabilisce un collegamento fra le azioni dello stragista di Utoya e l'affermarsi dei movimenti populisti: «La crisi economica, le condizioni di lavoro precarie, la paura del movimento delle popolazioni hanno avuto come conseguenza un crescere del populismo e dei movimenti violenti di destra», ha spiegato a Repubblica. Già, sono tutti mostri, questi bianchi. Tutti razzisti. Anche se poi la quasi totalità dei casi di razzismo esplosi sui media si sono rivelati clamorose bufale. Così va il mondo: all'immigrato (che i progressisti hanno identificato con il nero, alla faccia dei luoghi comuni) tutto è perdonato. Al bianco (europeo e americano), invece, non si perdona nulla. Specie il colore della pelle.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





