
Il commissario europeo Pierre Moscovici gioca con le previsioni. La stampa abbocca e parla di apocalisse per un decimale in meno. E la frenata della Germania passa inosservata.Pierre Moscovici ha colpito ancora. Il commissario europeo agli Affari economici, testimone (e per qualche anno artefice diretto) dello sforamento continuo dei parametri Ue da parte della sua Francia (dieci anni degli ultimi undici oltre il tetto del 3%), ha di nuovo sparato a palle incatenate contro l'Italia. E ieri ha di fatto guidato l'entrata in campagna elettorale della Commissione europea, trasformando parole e cifre scritte sull'acqua, cioè le previsioni economiche di primavera, in una sorta di appello al voto. Altrettanto prevedibile, è scattato l'uso politico e mediatico delle tabelline di Bruxelles, rilanciate per tutto il pomeriggio di ieri dai mainstream media italiani con la sacralità di un responso dell'Oracolo di Delfi, singolarmente riferito con terminologie da film horror: «allarme», «fuori controllo», «s'impenna», «i binari non reggono», «il treno deraglia», e via esagerando. E che alcuni si siano fatti prendere la mano, lo confermano due dati inoppugnabili: al momento non c'è alcuna procedura d'infrazione contro l'Italia (quindi siamo solo dinanzi a un ennesimo richiamo «politico»); e soprattutto non c'è grande distanza rispetto alle previsioni di crescita inserite nel Def italiano, né rispetto all'analogo report diffuso dalla stessa Commissione Ue a febbraio. Morale: la drammatizzazione messa in scena da Moscovici, e rilanciata dai suoi megafoni italiani, è un patetico espediente elettorale. Partiamo dai numeri. A febbraio Moscovici aveva fotografato una crescita italiana 2018 all'1%, una crescita 2019 allo 0,2%, e una crescita 2020 allo 0,8%. Ieri la Commissione ha limato tutte e tre le cifre appena di uno 0,1%: 0,9% nel 2018, 0,1% nel 2019, 0,7% nel 2020. Gli altri numeri sono di tenore analogo: secondo Bruxelles il rapporto debito/Pil sarebbe al 132,7%, mentre il rapporto deficit/Pil si attesterebbe al 2,5% (per il governo italiano sarebbe invece al 2,4%). Anche qui, come si vede, non è certo uno 0,1% a poter giustificare giudizi apocalittici. E invece Moscovici, armato di fiammiferi e taniche di benzina, ha preso a minacciare una resa dei conti post voto, precisando che «senza dubbio» Bruxelles tornerà a giugno sul tema del rispetto del patto di stabilità da parte dell'Italia: «Non è oggi che trattiamo della questione del rispetto del patto di stabilità: bisognerà tornarci, senza dubbio, viste le cifre, ma la Commissione inizierà a valutare la conformità degli Stati membri nel pacchetto che verrà pubblicato all'inizio di giugno».Il titolare del Mef, Giovanni Tria, ha opportunamente chiosato: «Mi sembra che, più che una previsione economica, sia una previsione politica». Ma questo richiamo al realismo è stato sostanzialmente ignorato dai media. Come pure, nel racconto mediatico, è stata messa tra parentesi la vera notizia bomba del report di ieri (altro che Italia), e cioè il crollo delle previsioni di crescita della Germania, che scenderà a uno striminzito +0,5% quest'anno. Un effetto collaterale per Berlino sarà anche un ridimensionamento del suo avanzo strutturale, destinato a scivolare dall′1,7% del 2018 all′1% del 2019 e allo 0,8% del 2020.Il rattrappimento dell'economia tedesca, nella previsione di Bruxelles, è legato per un verso a un «impatto forte» della crisi del settore auto in Germania, che non si è risollevato dallo scandalo dieselgate, e per altro verso alla questione dei dazi, cioè al timore di una guerra commerciale globale che potrebbe colpire (e in parte sta già colpendo) un'economia tedesca molto centrata sulle esportazioni. Nell'analisi della Commissione Ue, sarà la domanda interna tedesca, in ripresa, a evitare il peggio. E proprio da qui occorrerebbe partire. Anziché fare una meschina campagna elettorale contro l'Italia, occorrerebbe riflettere su un modello «export led» che è assai vulnerabile agli shock esterni, e iniziare a favorire le politiche (tagli di tasse e aumento degli investimenti) in grado di rivitalizzare la domanda interna. Quella terapia Trump che Bruxelles ha sempre osteggiato.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






