2023-12-03
«Il potere che acceca lo racconta Verdi. Il “Don Carlo” supera “House of Cards”»
Luca Salsi (foto Brescia e Amisano)
Il baritono Luca Salsi al suo quinto 7 dicembre: «Anche l’amore e l’amicizia sono travolti. In un mondo in cui, come oggi, “bandita è la pietà”».Appuntamento davanti all’Arco della Pace, recentemente «rinfrescato» dalla vernice (non lavabile) di Ultima generazione. Da questo punto di Milano, da cui parte una retta immaginaria che lungo Corso Sempione arriva fino a Parigi, l’artista che stiamo aspettando, quasi ogni mattina dal 23 ottobre, si incammina verso il Teatro alla Scala per le prove del Don Carlo di Giuseppe Verdi (versione alla «milanese», in quattro atti e in italiano). Un’opera monumentale per complessità e lunghezza che debuttò proprio nella Capitale francese nel 1867 (Don Carlos con la s finale, cinque atti e balletto), al termine di mesi di lavoro estenuante, di cui l’autore amava lamentarsi («Che baracca è quest’Opéra, non si finisce mai»). Oltre 150 anni dopo, lo stesso titolo riesce ancora a creare attesa in vista di un’altra Prima, anche se ormai ci siamo. Mancano solo quattro giorni al 7 dicembre (ore 18, diretta su Rai 1 in 4K) e stasera, come da tradizione, a godersi lo spettacolo in anticipo al Piermarini sarà un pubblico di under 30. Per esaudire i desideri di Verdi, che pretendeva un «gran baritono pel Posa», il maestro Riccardo Chailly e il sovrintendente Dominique Meyer sono andati sul sicuro. Luca Salsi ha già quattro inaugurazioni di Sant’Ambrogio sulle spalle: Andrea Chénier (2017), Tosca (2019) e Macbeth (2021), oltre all’edizione a suo modo storica del 2020, A riveder le stelle (recital senza pubblico e orchestrali in mascherina, per colpa del Covid). Ma la scelta di Salsi non è stata dettata solo dall’esperienza perché il nostro è considerato un vero e proprio specialista di Verdi (meglio non dire «baritono verdiano», altrimenti si arrabbia) e il Club dei 27 (la confraternita parmense di appassionati, che meriterebbe un articolo a parte) lo ha definito un cantante «di rara intensità e viva passione, oggi sicuro riferimento e ambasciatore dell’universalità» del compositore che, come disse Gabriele D’Annunzio, «pianse ed amò per tutti». Si aggiunga che Luca Salsi è praticamente conterraneo del cigno di Busseto (è nato a San Secondo Parmense, nel 1975) e il physique du rôle non gli manca. Tanto è vero che lo riconosciamo anche da lontano, mentre ci viene incontro. Nonostante la sciarpa e il cappello è sicuramente lui, ma forse nella sua testa è già Rodrigo, il marchese di Posa.Maestro, faccia pure la solita strada che io la seguo e intanto le chiedo se è soddisfatto di questo mese e mezzo di prove. «Mi creda, non è retorica: non esiste al mondo un teatro come la Scala» (sorride e indica la direzione di marcia). «Dal primo istante tutti hanno dato il massimo, come se fossero già in scena. L’orchestra e il coro sono in una forma spettacolare. La lettura di Chailly è ricca e rigorosa, a cominciare dai metronomi voluti dal compositore. La regia di Lluís Pasqual è classica ed elegantissima. Lavorare così è un privilegio, anche perché non capita quasi mai. E dal mio passo avrà capito che non voglio perdermi un secondo di questi ultimi giorni di vigilia in teatro».Vedo, vedo. Per il ruolo di Rodrigo qual è il consiglio più importante che le diede il suo maestro, Carlo Meliciani, che oggi purtroppo non c’è più? «In realtà la vita ci ha portato a lavorare molto più su Rigoletto che su Don Carlo, ma queste sono le occasioni in cui mi manca davvero. Prima di una recita così importante sarei stato tre o quattro giorni a casa sua a rimettere a posto la voce, le intenzioni, i dettagli. Pensi che nel telefonino ho 15 anni di lezioni registrate: a volte le ascolto in camerino e faccio i vocalizzi con lui. Poi mi scende una lacrima e mi devo fermare».Posso immaginare…«Ad ogni modo Rodrigo è un ruolo arduo, canta molto e, dal pianissimo al fortissimo, deve avere tutti i colori richiesti dall’autore. Come sempre l’importante è assecondare quello che vuole il cigno di Busseto: il fraseggio, le forcelle dinamiche, il legato, la morbidezza, la nobiltà. Non esistono “cantanti verdiani” e non conta avere una voce “da una tonnellata”. Esistono gli interpreti che gli obbediscono e quelli che fanno di testa loro».Sulle varie versioni del Don Carlo c’è una vastissima letteratura. Mi dica solo se quella scelta dal Maestro Chailly la convince?«Assolutamente sì, non sento la mancanza del primo atto nella foresta di Fontainebleau. La forma che Verdi pensò appositamente per Milano nel 1884 è quella che preferisco: l’inizio è magico e lo svolgimento è più lineare».«Migliore, artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo», lo scrisse lui, per cui ci fidiamo. Anche se gli storici discutono: era davvero convinto o i tagli che gli furono imposti li avrebbe evitati volentieri? Di certo a Parigi la lunghezza poneva dei problemi: il pubblico non poteva perdere l’ultimo treno di mezzanotte per tornare a casa.«E a Milano stia tranquillo che finiremo prima dell’ultima metropolitana» (ride). «A proposito, ecco il nostro tram».Un cantante della Scala che va a teatro con i mezzi pubblici? Questa la scriviamo così la premiano con l’Ambrogino d’oro.(Ride) «Ma io faccio sempre così, tranne il giorno della recita, ovviamente. Sono antico nell’anima, devo aver sbagliato secolo».Mentre cerchiamo posto, torniamo al nostro amato compositore, che scrisse la musica sul libretto in francese di Joseph Méry e Camille du Locle. Se è vero che in Verdi la relazione tra suono e parola è strettissima, nella versione in italiano si perderà qualcosa, o no?«In realtà non penso che sia così. Alcuni sostengono che quest’opera sia più bella in lingua originale. Secondo me invece il francese addolcisce troppo i personaggi, come in Macbeth. Per carità, sulle frasi dolci e vocalmente meno intense aiuta, ma per quelle incisive serve l’italiano. Al di là della lingua e delle versioni, diciamo che andrebbe eseguita più spesso. E il discorso vale per tante altre opere troppo trascurate di Verdi».In questo caso il compito non sembra così facile. Scriveva Massimo Mila: «L’esecuzione del Don Carlo richiede un complesso d’almeno sei cantanti di prim’ordine, tutti con responsabilità di prime parti».«Stavolta ci siamo alla grande e non sto parlando di me, mi chiamo fuori. Questo lo scriva se no dicono che sono presuntuoso».Promesso.«Elina Garanca (principessa di Eboli, ndr) è il miglior mezzosoprano al mondo. Michele Pertusi (Filippo II, ndr), mio fratello parmigiano, era già un mito quando ho iniziato a studiare io. Oltre a essere un cantante formidabile sa anche imitare le voci del passato e lavorare con lui è uno spasso. Francesco Meli (Don Carlo, ndr), altro grande amico, è in una forma smagliante e merita il ruolo da protagonista».E poi c’è Anna Netrebko, nei panni di Elisabetta di Valois, con la quale lei ha vissuto parecchi Sant’Ambrogio.«Collaboriamo da ben 22 anni. Anna è un’artista incredibile, quando canta quegli acuti, quelle note in pianissimo incredibili… fa venire letteralmente la pelle d’oca. Non è una cosa che posso dire di pochi soprani, ma di pochissimi cantanti al mondo».Negli ultimi anni è stata travolta dalle polemiche. Da russa ha condannato l’invasione dell’Ucraina, ma anche chi obbliga gli artisti a esporsi politicamente. A molti non è bastato e in nome della lotta a Vladimir Putin alcuni teatri, a cominciare dal Met di New York, le hanno chiuso le porte. «Nemmeno io voglio parlare di geopolitica. Faccio un discorso musicale: Anna Netrebko è la cantante più completa degli ultimi dieci anni ed è un peccato che non possa esprimere la sua arte in tutto il mondo. Mi scusi…».Mentre il Maestro risponde a una telefonata importante, riportiamo una voce che gira, secondo la quale tra la presenza sul palcoscenico della superstar russa e l’assenza alla Prima del 7 dicembre del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del capo del governo, Giorgia Meloni, un legame ci sia. Della serie, i soliti maliziosi... Sempre per completezza, alla conferenza stampa di presentazione, l’assenza del sindaco, Beppe Sala, non è passata inosservata. «…dicevamo?».Stavamo parlando di eventi più grandi di tutti noi, che investono anche chi fa il suo mestiere. Un po’ come nel Don Carlo, dove l’amicizia e l’amore vengono sopraffatti dalla politica, dalla guerra, dal potere che acceca (terribile in questo senso la figura del Grande Inquisitore, che infatti non ci vede). «È così, Verdi è modernissimo e in quest’opera per i motivi che ha detto lei predominano le tinte scure. I personaggi hanno una psicologia estremamente complessa, oltre un secolo prima di House of Cards» (ride).Un esempio me lo deve fare.«Si parla molto dell’amicizia tra il mio personaggio, Rodrigo, e Don Carlo. Ma non sono convinto che sia così».Mi spieghi meglio.«Rodrigo vuole la libertà del suo Paese e quello con Don Carlo è un rapporto interessato. Quando l’Infante di Spagna confida al marchese di Posa di amare la moglie di suo padre, lui mica lo consola come farebbe ciascuno di noi con un amico. No, gli parla subito della causa delle Fiandre. Ma le sembra?».In un altro punto piuttosto machiavellico - poi la lascio scendere, visto che siamo quasi arrivati - Rodrigo urlerà in faccia al re: «Orrenda pace! La pace è dei sepolcri!».«Filippo II si è appena vantato del suo potere: “Col sangue sol potei la pace aver del mondo”. E il marchese di Posa lo ammonisce con quella frase tremenda. È sempre Verdi che dal passato viene a darci una lezione in questi giorni in cui “bandita è la pietà” e migliaia di persone vengono sterminate per motivi ideologici: con la morte e la distruzione non riusciremo mai a costruire una pace vera».