2023-08-13
«Strade, abitazioni e dighe: l’uomo scrive la sua storia pure sulle “selvagge” Alpi»
Nel riquadro, Luca Rota (IStock)
Lo scrittore Luca Rota: «Alla montagna non interessa granché della presenza umana. Se vogliamo vivere bene sui monti, la nostra relazione con essi va riequilibrata».Luca Rota (1971, Lecco) è uno scrittore e un opinionista, ha pubblicato libri di poesia, romanzi, guide di viaggio e un saggio, tra i quali si ricordano Lucerna. Il cuore delle Svizzera e il recente Il miracolo delle dighe. Ha condotto programmi radio per 25 anni, collabora con diversi magazine, musei, ecomusei e con l’Officina Culturale Alpes nella cura di progetti e iniziative per la montagna. Sul suo blog lucarota.com spesso esprime opinioni su quel che accade nelle Terre Alte. Il suo sito è www.lucarota.it.Luca Rota si interessa di montagna e popolazioni che abitano e attraversano la montagna: da dove nasce questo interesse?«Nasce in primis dall’aver vagabondato per montagne fin dall’infanzia, con l’aggiunta di una passione per la geografia antropica. Il che, sull’onda della giovanile frequentazione alpinistica delle vette, mi ha fatto rapidamente comprendere che anche le Alpi, spazio di natura apparentemente incontaminato se non “selvaggio”, per come qualcuno ancora le definisce, sono un territorio profondamente modificato dall’uomo che nei secoli vi ha inscritto la propria storia attraverso un codice che si può ben definire alfabetico, fatto non di grafemi ma di segni geografici. Sentieri, mulattiere, manufatti residenziali o di lavoro, muri in pietra, terrazzamenti, fino alle opere più grandi: una scrittura che veramente si può leggere come un libro di storia attraverso il quale indagare il senso e la portata della presenza umana tra le montagne».Il suo ultimo libro, Il miracolo delle dighe - Breve storia di una emblematica relazione tra uomini e montagne (Fusta editore), illustra alcuni casi di dighe: la loro complessità le fa addirittura diventare vere e proprie opere d’arte, oltre che dimostrazione dell’ingegno umano e relazione con attività umane e natura. Che cosa l’appassiona così tanto di una diga?«Potrei dire che la cosa che più mi appassiona e rende la diga una presenza maggiormente emblematica di altre, sui monti, è il suo sostanziale, multiforme paradosso. Tempo fa stavo camminando nelle Alpi bergamasche fino a giungere al cospetto di una diga piuttosto imponente, ritrovandomi accanto una piccola comitiva di gitanti i quali, invariabilmente, scattavano fotografie esprimendo la loro ammirazione per il manufatto. “Perché tutto questo entusiasmo per un enorme muro di grezzo cemento?” mi chiesi in quei momenti: ecco, questo episodio ha fatto da stimolo affinché cominciassi a riflettere su quali buone risposte poter trovare, dunque sulla presenza materiale e immateriale di queste grandi opere, le più ciclopiche costruite dall’uomo tra le montagne e dunque inevitabilmente le più impattanti, rispetto al costrutto culturale che è il paesaggio. Degli “ecomostri” che tuttavia spesso attirano frotte di turisti suscitando sensazioni di bellezza e di monumentalità artistica: come può essere possibile una cosa del genere? È questo il “miracolo delle dighe” che dà il titolo al libro, non necessariamente da intendersi in chiave positiva e semmai da contestualizzare nel divenire di quella storia dell’uomo nelle terre alte inscritta sulle montagne, il cui codice alfabetico ha nelle dighe il segno più grande e profondo ma pure, paradossalmente appunto, quello che narra di un dialogo con il paesaggio montano tra i più sorprendenti e emblematici in assoluto».Come stanno le montagne italiane?«Bella domanda, difficile da rispondere senza cadere in osservazioni troppo convenzionali. Perché verrebbe da affermare che le montagne stiano bene dove l’uomo sia meno presente e stiano male dove le attività umane inseguano più il vantaggio economico di quello ecologico, ma sarebbe una visione fin troppo semplicistica. D’altro canto mi ritrovo sovente a supporre che alle montagne la presenza umana non “interessi” granché: se per vivere in quota all’uomo la montagna serve (le dighe sono un esempio evidente di ciò), per la vita della montagna non serve la presenza dell’uomo, il quale in fondo ha cominciato ad abitarla in tempi relativamente recenti. Temo quasi più i rischi culturali di quelli ambientali, che comportano adattamenti ecosistemici anche radicali ai quali tuttavia la montagna sopravvive. Se invece noi vogliamo continuare a vivere bene, sui monti, forse abbiamo bisogno di riequilibrare innanzitutto la nostra relazione culturale nei loro confronti prendendo piena coscienza del senso della presenza umana lassù. Tornare a “pensare come una montagna” insomma, per dirla con Aldo Leopold. Ciò vale anche per la supposta realizzazione di nuove grandi dighe, sull’onda delle recenti emergenze idriche: oggi non possiamo più credere di poter asservire le montagne ai nostri bisogni come accaduto nel corso del Novecento ma viceversa, per continuare a stare bene in montagna e così poter pensare che le montagne stiano bene».Recentemente è tornato d’attualità il difficile rapporto di convivenza tra animali selvatici - o rinselvatichiti - e consorzio umano: si pensi ad esempio a quel che è accaduto nei mesi scorsi in Trentino dove l’orso è tornato ad aggredire, e purtroppo ad uccidere, un uomo. Che idea si è fatto e come eventualmente provare a risolvere la situazione, se è possibile?«Mi sembra che al riguardo, al netto della cronaca più o meno nera, siamo ancora fermi alla millenaria antinomia tra civiltà umana e natura selvaggia, a un Hic Sunt Ursi che rende la nostra visione antropocentrica del mondo inesorabilmente miope quando osserviamo la natura e le sue manifestazioni. Al momento non credo che la situazione sia realmente risolvibile senza discapito di una delle parti in gioco perché la nostra presenza sui monti non ne ammette altre variamente concorrenziali. In futuro la citata necessità di riequilibrare la relazione tra uomini e montagne forse potrà offrire una soluzione anche per questo tema, ma dovrà inevitabilmente variare lo status quo che vige in quota già da un paio di secoli almeno. Sempre che alla fine non sia il clima, invece, a rimettere a posto le cose e non certo a nostro maggior vantaggio».