2025-03-26
Lorenzo Moscon: «Io, malato, ho paura di uno Stato che uccida»
Il paziente, affetto da una patologia incurabile, contro la «dottrina Cappato»: «Allargare le maglie del decesso volontario è rischioso. Siamo su un pendio scivoloso, un domani giudici e medici potrebbero esercitare il diritto di vita o di morte su ricoverati incoscienti».Stamane la Corte Costituzionale tornerà a occuparsi del suicidio assistito. Lo farà nell’ambito del procedimento denominato «Cappato ter», con riguardo all’articolo 580 del Codice penale nella «parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione in modo libero e consapevole». Ebbene, in questo processo costituzionale intendono dire la loro - e hanno richiesto di essere ammessi a intervenire in giudizio, con l’assistenza dell’avvocato Mario Esposito del foro di Roma e Carmelo Leotta del foro di Torino - anche quattro malati gravi che chiedono di vivere e di essere tutelati proprio attraverso quelle garanzie che, ad oggi, l’articolo 580 del Codice penale assicura loro. Tra costoro, c’è Lorenzo Moscon, 31 anni, affetto da triplegia spastica dalla nascita, con alle spalle una storia ospedaliera lunga e complessa. Laureato in lingue, vive con la sua famiglia nell’hinterland milanese. La Verità l’ha contattato per capire più da vicino le sue ragioni.Lorenzo, perché ha richiesto di essere ammesso in giudizio alla Consulta sul procedimento «Cappato ter»? «Mi è stato proposto di intervenire con altre persone in questo processo di costituzionalità - ed ho accettato - affinché la Corte possa ascoltare anche una voce diversa da quella di Cappato. In ballo, c’è la discussione sul trattamento di sostegno vitale e sul fatto che debba rimanere o meno un requisito necessario per non punire coloro che aiutano un malato a suicidarsi. Noi chiediamo di essere ammessi al processo per spiegare perché quel requisito deve rimanere: chi aiuta qualcuno a suicidarsi dovrebbe essere punito ma, se proprio si depenalizza l’aiuto al suicidio, almeno il fatto di ricevere un sostegno vitale deve restare una delle condizioni per potere accedere al suicidio assistito depenalizzato».Perché? Che rischio vede nella possibilità che, tra i requisiti di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, possa essere escluso il trattamento del sostegno vitale? «La mia impressione è che siamo su un pendio scivoloso. Quello che mi ha preoccupato, e mi preoccupa, è che si stanno compiendo una serie di passi che, come già successo in altri Stati europei, un domani potrebbero portare qualcuno - che sia il giudice, che siano i medici dell’ospedale o che sia un’alleanza tra i due - a decidere, come dire, ad esercitare uno Ius vitae necisque che nessuno di loro ha mai acquisito, in base a nessuna legge, su un malato, su un paziente che giunga a una condizione clinica tale per cui non è più in grado di esprimersi; segnalo a questo proposito le testimonianze di alcuni pazienti che hanno raccontato: “In quel periodo ero in stato non responsivo e sembravo un vegetale, ma in realtà ero cosciente, ed ero terrorizzato perché sentivo i medici che volevano praticarmi l’eutanasia e io non potevo fare nulla”. Con questo non voglio naturalmente criminalizzare i medici, ma solo evidenziare come sia un problema culturale e di mentalità, quello che si sta creando. Quindi un rischio credo sia questo».Poi?«L’altro rischio è che eliminando il requisito dei mezzi di sostegno vitale, si renda il suicidio assistito disponibile a tutti; e questo è un problema. A questo proposito, avrei tre obiezioni nei confronti di chi mi parla del suicidio o dell’eutanasia come atto di libertà».Prego. «La prima è che la libertà del singolo o di un gruppo - per quanto numeroso sia - non può essere eretta a legge dello Stato; la seconda: se io mi uccido non sono più libero, quindi la libertà di vivere è condizione necessaria, come vado ripetendo in tutte le interviste, per l’esercizio di ogni altra forma di libertà. Terzo, ammesso e non concesso che quello di togliersi la vita sia un diritto, andrebbe comunque rispettato anche quello di chi vuole vivere».Lei è attivo da tempo su questi temi, in passato ha anche scritto al presidente della Repubblica. Eppure battaglie coraggiose come la sua raramente trovano spazio sui media, che invece spesso danno spazio a chi chiede la morte assistita, non trova? «Sono molto d’accordo su questo punto. Credo che la cosa sia voluta e scientificamente studiata, perché sappiamo che i sostenitori dell’eutanasia, normalmente, hanno molto consenso all’interno dei media nazionali. In passato ho avuto, su questi temi, l’impressione che anche in alcune interviste il messaggio dell’intervistato sia stato alterato, magari con un lavoro di ritaglio».Se non sbaglio, lei è credente. Si spenderebbe, come sta facendo in questa battaglia alla Consulta, anche se non lo fosse? «Certo che sì, perché anche un non credente può cogliere le ragioni per cui la vita umana va sempre tutelata. Ma comunque io sposterei l’attenzione sul tema della non autosufficienza e della dipendenza dagli altri e della necessità dell’aiuto degli altri per vivere la propria vita quotidiana; perché una persona che sta ferma a letto si sente, secondo me, molto più vulnerabile, specie di fronte alla prospettiva che qualcuno possa prendere una decisione che la riguarda senza poter obiettare. Questo, viste le derive di alcuni Stati europei, è il motivo primo del mio impegno».
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)