
Annunciato l’ok imminente all’ex Trattato pandemico. Ma dopo tre anni è ancora stallo sull’articolo 11, che prevede una «lettera in bianco» all’agenzia Onu per gli acquisti centralizzati di sieri. L’ipotesi è che si chiuda a fine maggio per poi fare aggiustamenti.Lo avevano promesso e hanno mantenuto la parola. I dirigenti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), silurati quasi un anno fa nel tentativo di far approvare agli oltre 190 Stati membri il famigerato Trattato pandemico, hanno reintrodotto il documento dalla finestra cambiandogli leggermente il nome, ora si chiama «Accordo pandemico», e ne stanno discutendo i punti principali proprio in questi giorni a Ginevra, in attesa di una ratificazione che auspicano avvenga - se nessun Paese si tira indietro, eventualità però improbabile - a fine maggio, nell’ambito della riunione annuale dell’Assemblea mondiale della sanità.Il «la» lo ha intonato, come sempre, il direttore generale dell’Oms, l’etiope Tedros Ghebreyesus, che ha dato mandato all’Organismo negoziale intergovernativo (Inb) di discutere e cercare di far approvare l’Accordo perché la nuova pandemia è ormai «inevitabile» e «la comunità internazionale deve essere preparata». La tredicesima riunione allargata dell’Inb si doveva chiudere questa settimana ma i lavori riprenderanno martedì perché, a differenza di quanto dichiarato ai media dalla copresidente dell’Inb Anne-Claire Amprou, c’è stallo sull’articolo 11 sulla condivisione delle tecnologie per i prodotti cosiddetti salvavita (farmaci e vaccini). Si tratta, casualmente, di uno dei passaggi in cui l’Oms chiede di fatto una lettera in bianco per poter gestire la produzione e l’approvvigionamento di prodotti sanitari pandemici a nome di tutti (inclusi i Paesi in via di sviluppo) a dispetto della sovranità di ciascun Paese membro. Una riedizione insomma, su scala internazionale, di ciò che è già avvenuto nell’Unione europea ai tempi della pandemia da Covid, quando a organizzare la catena di distribuzione di medicinali e vaccini è stata il presidente dell’esecutivo Ue Ursula von der Leyen, avocando a sé e ai suoi uffici il negoziato su prezzi ed eventuali penali, che fu discusso direttamente con l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla senza che gli Stati potessero intervenire sulle condizioni.Gli addetti ai lavori stanno lavorando intorno all’articolo 11 ormai da tre anni ma lo stallo rimane. L’articolo stabilisce, nella fattispecie, che il trasferimento di tecnologie e know how per la produzione di prodotti sanitari legati alla futura pandemia debba basarsi su «termini concordati di accordo reciproco». I Paesi in via di sviluppo premono affinché possano essere in grado di aumentare la produzione nelle proprie regioni, piuttosto che mettersi in lista d’attesa come è avvenuto negli anni della pandemia. Ma i Paesi del G7 e i membri dell’Unione europea hanno insistito sul punto che qualsiasi trasferimento tecnologico da parte delle aziende farmaceutiche debba avvenire su condizioni, appunto, «volontarie e concordate di comune accordo». In base all’ultima correzione proposta, ancora da sottoporre ad approvazione finale, la condivisione della tecnologia dovrebbe essere «intrapresa “volentieri” e a condizioni reciprocamente concordate»: bizantinismi tecnocratici che rischiano di far sì che la bozza dell’Accordo venga comunque approvata a fine maggio, per poi lasciare tutto il tempo di perfezionare gli articoli in un secondo tempo, lasciando comunque gli Stati membri nella posizione di dover rispettare l’Accordo, dopo la ratifica nei singoli Parlamenti nazionali. Un bel pasticcio, considerando che sono molti i Paesi che hanno approvato leggi che consentono misure non volontarie in circostanze eccezionali, tra cui il Defense production act degli Stati Uniti e la legge tedesca sulla protezione della popolazione in caso di situazione epidemica di importanza nazionale, approvata nel 2020 in risposta alla pandemia di Covid.Tra le restanti questioni cruciali che si stanno discutendo a Ginevra c’è anche il Pathogen access and benefit-sharing system (Pabs) evocato nell’Accordo, in cui si chiede alle aziende produttrici di fornire all’Oms un «accesso rapido» al 20 per cento della loro produzione di prodotti sanitari legati alla pandemia, tra cui «almeno il 10 per cento della loro produzione in tempo reale», sotto forma di donazioni. Ma gli Stati produttori considerano queste soglie molto elevate.Nel frattempo, l’Oms è stretto tra gli scandali di natura sessuale e la mancanza di fondi a seguito dell’ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di ritirare gli Usa dall’Agenzia delle Nazioni Unite. Il finanziamento rimane un problema enorme dunque, se non il più grande: l’Oms ha raccolto finora quasi 1,7 miliardi di dollari, cifra ben lontana dai 7,1 miliardi di dollari di cui l’Organizzazione ha bisogno, mentre il ritiro degli Stati Uniti dall’Agenzia la lascia di fronte a un deficit di circa 600 milioni di dollari già quest’anno. Trump, intanto, continua ad accusare l’Oms di essere «un burattino cinese», proprio quando le accuse di abusi sessuali e molestie in seno all’Organizzazione minano sempre di più l’integrità dell’organizzazione.
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