
Adolf Hitler contava sull’esempio del genocidio perpetrato dai turchi per ripeterlo impunemente nei confronti degli ebrei. Oggi le genti del Nagorno Karabakh sono ferocemente accerchiate dagli azeri, e trovano sostegno soltanto nella fede in Cristo.Il 12 dicembre dell’anno scorso è cominciato l’assedio degli armeni. Del loro genocidio non è mai importato molto. Adolf Hitler aveva citato l’indifferenza al genocidio armeno come garanzia di una verosimile indifferenza al genocidio ebraico. Il genocidio degli armeni può anche essere negato dalla Turchia, senza che questa nazione sia minimamente stigmatizzata, può essere deriso per esempio dalla corrente del Partito democratico che osa chiamarsi «Giovani turchi». Il genocidio degli armeni non è terminato: se qualcosa non è stigmatizzato e punito non termina. Il cerchio si sta di nuovo chiudendo. Il popolo armeno in questo momento è accerchiato: dispone di elettricità solo due ore al giorno, sta finendo le scorte di farina, non ne resta né per il pane né per le ostie. L’unica cosa che non manca è la fede. Nessuna nazione si sta muovendo per aiutare gli armeni, nessuno organizza un ponte aereo. Gli armeni sono circondati da persone che li vogliono morti, sui loro social gli azeri mettono i video dei prigionieri armeni torturati o uccisi. Sia l’Unione Europea che il segretario di stato statunitense Anthony Blinken sono assolutamente certi nel loro commovente ottimismo e nella loro sterminata fede nell’intrinseca bontà dell’uomo, che gli armeni non corrano nessun vero pericolo, che comunque se la caveranno. Sia l’Europa che gli Stati Uniti nutrono una ferma convinzione che azeri e armeni possano serenamente convivere, una convivenza carina e simpatica, con i dolcetti scambiati a Natale. Nutrono anche la granitica convinzione che Islam e non Islam possano serenamente convivere, anche se non è mai successo nella storia, a meno che i non islamici non si inchinassero, non si dichiarassero Dhimmi, sottomessi, sperando nella benevolenza. . È una scommessa divertente su cui gli armeni rischiano la loro testa. Gli azeri sono anche loro dotati di ottimismo, ma con il segno opposto e hanno già eretto un museo della Vittoria, la vittoria che riporteranno sugli armeni, e la immaginano come una distesa di teste tagliate, realisticamente rappresentate nel museo. La Russia, distratta dalla guerra in Ucraina, non sta più difendendo l’Armenia. L’Armenia è sullo snodo tra oriente e occidente. L’Armenia è lo snodo. Se cade l’Armenia prima o poi cadrà l’Occidente. Difendere gli Armeni vuol dire difendere noi stessi. Di Venere e di Marte non ci si sposa e non si parte, recita un antico proverbio. Venerdì è il giorno in cui è stato crocefisso Cristo, martedì 20 maggio 1453 è caduta Costantinopoli. Fu una tale tragedia da essere ricordata insieme alla crocifissione. La maggioranza delle persone oggi ignora che Istanbul si è chiamata Costantinopoli. C’è un problema geopolitico che dura in realtà da secoli, ammantato di cortesia e ipocrisia. Il cessate il fuoco fu firmato nel 2020 dopo 40 giorni di orrore e di orrori, di impalati, decapitati, scuoiati vivi. Europa e Stati Uniti si sono illusi che quel cessate il fuoco potesse essere l’inizio di un’era di pace e concordia. Vale la pena di informarli che non è così. Ho parlato con la dottoressa Siobhan Nash-Marshall, docente universitaria di filosofia e scrittrice. Il suo libro I peccati dei padri, negazionismo turco e genocidio armeno, analizza la storia del genocidio degli armeni e dell’eterno e sempre perdonato negazionismo turco. Ci sono notizie allarmanti che giungono dalle terre martoriate del popolo armeno. La mattina del 26 luglio Siobhan Nash-Marshall ha ricevuto la notizia che l’Armenia aveva finalmente mandato aiuti al Nagorno Karabakh: 360 tonnellate di cibo e medicinali. Ha guardato il video che riprendeva i 19 TIR ciascuno con lo striscione «Humanitarian aid for Nagorno-Karabakh: food for life» ed è crollata in un pianto dirotto, tale era il suo sollievo, che finalmente spezzava il dolore che si sente addosso da quando, il 12 dicembre, l’Azerbaijan chiuse illegalmente il Corridoio di Lachin, l’unica strada che connette il Nagorno Karabakh all’Armenia. Dopo il pianto le venne un dubbio minaccioso: gli azeri avrebbero lasciato passare i viveri? Sarebbe stato infinitamente crudele se gli Azeri avessero bloccato gli aiuti a Lachin, dopo che l’Armenia ha mandato in onda la notizia che i camion erano partiti. È proprio quello che è successo. Sono bastate poche ore per vedere che il dubbio era purtroppo ben fondato. L’Azerbaijan ha bloccato i camion a Kornidzor, sotto gli occhi degli inutili osservatori dell’Unione Europea. Sono arrivati di corsa a Kornidzor ambasciatori, diciotto per la precisione, tutti ben consapevoli che l’Azerbaigian «sta cercando di far morire di fame» 120 mila armeni, cosa che gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Corte dell’Aia hanno tutti condannato più volte. Ma gli ambasciatori sono rimasti a Kornidzor soltanto per poche ore, giusto il tempo di farsi vedere. I camion, invece, sono ancora lì: e sono passati già due settimane dal grande pianto di Siobhan Nash-Marshall. Nel frattempo, solo due giorni dopo aver bloccato i camion, gli azeri hanno rapito un sessantottenne gravemente malato di cuore che la Croce rossa internazionale stava trasportando d’urgenza in ambulanza in Armenia. Lo hanno dichiarato persona sospetta di gravi crimini di guerra nel 1994, e trasportato a Baku per processarlo. Non importava loro per nulla che il malato non poteva essere la persona sulla cui testa avevano messo la taglia per «crimini di guerra», lineamenti, età, corporatura: tutto è diverso. L’intento dell’Azerbaijan era di far capire agli armeni che li tengono saldamente in pugno, e possono disporne a loro piacimento. Ora c’è un nuovo progetto. Cattolici americani cui si stanno aggiungendo cattolici europei, hanno fatto una formidabile colletta e altri camion si affiancheranno a quelli fermati. Ci saranno sacerdoti con il coraggio e le croci a proteggere questo convoglio. E ci sarà un ponte aereo, un ponte aereo fatto senza aerei, non ce li abbiamo, un ponte fatto senza droni, non abbiamo neanche quelli, ma fatto di piccole mongolfiere, ognuna con sopra una croce, e con qualche chilo di farina, olio e mandorle, antibiotici, insulina e vitamine attaccate. Le mongolfiere si alzeranno in volo, quando il vento è favorevole. Molte saranno abbattute, qualcuna arriverà fino a completare la sua missione, di informare che la Provvidenza esiste e la fratellanza umana anche. Tutto questo è preparato per l’11 e il 12 settembre. È una data in cui già un volta, nel 1683 a Vienna, la Provvidenza e il coraggio degli uomini hanno fatto il miracolo.
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
I burocrati dell’Unione pianificano la ricostruzione del palazzo Lipsius. Per rispettare le norme energetiche scritte da loro.
Ansa
La Casa Bianca, dopo aver disdetto il summit a Budapest, apre uno spiraglio: «Non è escluso completamente». Ma The Donald usa il pugno duro e mette nella lista nera i colossi Rosneft e Lukoil. Il Cremlino: «Atto ostile».
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Sganciato il 19° pacchetto, focalizzato sul Gnl. La replica: «Autodistruttivo». Sui beni il Belgio chiede chiarezza.
2025-10-24
«Giustizia»: La voce chiara e forte di chi si sta mettendo in gioco per un sistema giudiziario migliore e più giusto
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Giustizia affronta il dibattito sulle grandi trasformazioni del diritto, della società e delle istituzioni. Un progetto editoriale che sceglie l’analisi al posto del clamore e il dialogo come metodo.
Perché la giustizia non è solo materia giuridica, ma coscienza civile: è la misura della democrazia e la bussola che orienta il Paese.
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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