2020-07-16
Liti, cdm interrotto, ipotesi rimpasto. Il governo arriva al tutti contro tutti
Giuseppe Conte (Antonio Masiello/Getty Images)
Tesissimo il vertice della scorsa notte: Giuseppe Conte è ai ferri corti con Luigi Di Maio e Dario Franceschini, Nicola Zingaretti non ha più presa su un partito spaccato. Ballano tre poltrone: Lucia Azzolina (Miur), Paola De Micheli (Mit) e Alfonso Bonafede (Giustizia).Gran cornettata alle 5 di ieri mattina (cornetti offerti da Vincenzo Spadafora, riferiscono i colleghi ministri) dopo un numero infinito di interruzioni, dopo un cdm convocato alle 22 della sera prima, e soprattutto dopo una quantità imbarazzante di colpi sotto la cintura volati un po' da tutte le parti. Ovviamente molta attenzione è stata e sarà dedicata alla rissa tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio: con il premier che prima, per due giorni, aveva brandito l'arma grillina per antonomasia, cioè la revoca, facendo apparire Di Maio come il solito trattativista democristiano impegnato a brigare con i Benetton, e poi - oplà - gli ha improvvisamente rubato la posizione, puntando lui sulla transazione con Atlantia e intestandosi la cosiddetta «mediazione».Ma almeno altrettanta attenzione andrebbe dedicata alle fortissime tensioni tra Conte e il Pd e a quelle, ancora più laceranti, dentro lo stesso Partito democratico. Da questo punto di vista, appare non solo cacofonico ma palesemente ipocrita il coro di commenti, lungo tutta la giornata di ieri, per festeggiare il risultato raggiunto. La verità è che nella maggioranza tutti hanno ancora il coltello in tasca, più - sul corpo - un discreto numero di ferite provocate dai pugnali altrui.Vanno dunque isolate almeno quattro istantanee. La prima (a inizio serata, dopo una delle interruzioni del cdm) è quella del colloquio tra Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri, il quale per tutta la giornata aveva trattato con i vertici di Autostrade. Già qui sono volate parole grosse: la posizione del titolare del Mef è apparsa al premier troppo morbida, o almeno così le veline di Palazzo Chigi hanno descritto la prima lettera di Autostrade (frutto dell'interlocuzione con Gualtieri). Su questa base, la narrazione di Palazzo Chigi ha tentato di accreditare un Conte più duro che a quel punto si è deciso ad affrontare la pratica in prima persona, costringendo Autostrade a ben quattro testi, l'ultimo dei quali accolto. A onor del vero, la giornata di ieri si è clamorosamente incaricata di smontare questo racconto, nel senso che i Benetton ne usciranno coperti di soldi (e ancora per un po', di dividendi), a dispetto del tentativo contiano di presentarsi come il grande «punitore» di Aspi.La seconda fotografia riguarda il ministro che - per un tempo non breve, prima di essere ammessa - era rimasta fuori dalla stanza durante il dialogo tra Conte e Gualtieri, e cioè Paola De Micheli, titolare delle Infrastrutture, che nelle trentasei ore precedenti il cdm aveva fatto la parte dell'incendiaria, diffondendo una sua vecchia lettera a Conte in cui lo sollecitava a decidere. Di fatto, rendendo pubblico quel testo molti mesi dopo, la De Micheli aveva indicato in Palazzo Chigi il luogo della non decisione. Mossa che è riuscita nell'en plein di far infuriare tutti: Conte stesso, i grillini che hanno chiesto la testa della De Micheli, e pure i vertici del Pd che hanno temuto la deflagrazione finale del governo. La terza istantanea riguarda il rapporto ormai logoro tra Giuseppe Conte e Dario Franceschini, il potentissimo capo delegazione Pd. Qui il punto non è solo di merito (Franceschini è stato sempre notoriamente contrario all'ipotesi della revoca), ma di fiducia complessiva tra i due. Più fonti nella maggioranza, non necessariamente ostili ai due interessati, li descrivono ormai come reciprocamente ai ferri corti e costantemente sospettosi l'uno verso l'altroLa quarta e ultima fotografia riguarda Nicola Zingaretti, a cui praticamente nessuno nel partito riconosce un ruolo di leadership politica. La vicenda Autostrade ne è solo l'ultima riprova: con il Nazareno che ha applaudito la soluzione «transattiva» finale, anche se il segretario per due lunghi giorni si era schiacciato sulla linea contiana della revoca, per non lasciare ai pasdaran grillini la posizione ritenuta più popolare. In un fazzoletto di giorni, due linee opposte. Ma torniamo alla nottata. Tra le 4 e le 5 si è arrivati all'epilogo, con il sì dei Benetton alla loro progressiva discesa nell'azionariato, l'ok dei grillini alla trattativa, e un Pd a quadrato su una soluzione che auspicava dall'inizio. Fino ai cornetti finali. Eppure lo strascico resterà. Ammesso che il governo abbia vita lunga (e in particolare un eventuale 5-2 per il centrodestra alle regionali porterebbe il computo delle venti regioni a un insostenibile 16-4 a danno dei giallorossi), sono sempre più forti le voci di rimpasto, che a quel punto entreranno in un unico calderone con il rinnovo delle commissioni parlamentari (rinviato ieri). In ballo ci sono almeno tre poltrone top nella gerarchia dei dicasteri: l'Istruzione, dove la posizione di Lucia Azzolina appare ogni giorno più indifendibile; le Infrastrutture e trasporti, dove, dopo gli ultimi incidenti, sarà dura la permanenza della De Micheli; e infine, e si tratta della bomba più clamorosa, la Giustizia, dove cresce il pressing per sostituire Alfonso Bonafede con un esponente renziano. Ma ci sarà energia sufficiente per sciogliere questi nodi senza che venga giù l'intero edificio? È quello che si domandano gli esponenti più raziocinanti della maggioranza.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)