
Il conduttore: «Ho scritto (a penna) un libro sulle Napoli, donne dolci e caparbie nella Sicilia distrutta dalla mafia. Dove sarò il prossimo anno? Ormai ho deciso, ma non ve lo dico. Quella volta che mia mamma mi abbandonò».Caro Massimo, allora ci riveli cosa farai l'anno prossimo?«In che senso?».Hai capito benissimo. Sui giornali di nuovo impazza il tormentone su dove lavorerai il prossimo anno, e anche io sono curioso di saperlo.(Sorriso). «Non lo hai ancora capito?». A dire il vero no. Resterai a La7 oppure cederai al canto delle sirene della Rai, che ti tampinano da mesi? Ogni puntata di Non è l'Arena lanci una battuta enigmatica sul tema, ma io non sono ancora riuscito a decrittare la soluzione.«Te ne sei accorto?».Se ne accorgono tutti, Massimo.«Teniamo questa domanda come ultima domanda, così ci leggono sicuramente fino all'ultima riga». Perché, pensi che i lettori non siano interessati alla storia delle Sorelle Napoli, che stiamo per raccontare?«Al contrario. Forse non sono interessati alle vicende televisive. Però voglio dire una cosa su Fiorello, consentimelo».Quanto si è discusso questa settimana, di un compenso che ancora non c'è. Il suo.«Il fatto è che a mio parere del talento di Fiorello non si dovrebbe scrivere né discutere mai. Ma dove lo trovi un altro così?».Intendi come conduttore televisivo?«È proprio questo che voglio dire. Fiorello come lo puoi misurare? È uno che canta, balla, presenta, imita, fa la radio, la televisione, la satira, l'edicola, l'editorialista… Uno così nasce ogni 100 anni. E tu ti metti a calcolare quanto costa a tassametro?».Il talento poliedrico. «Mi fa venire in mente quella bella battuta di Dino Risi, che parafrasando i grandi francesi diceva: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?". Ecco, Fiorello lo dovresti pagare anche quando guarda fuori dalla finestra». Anche tu, però, in quanto ad eclettismo non scherzi. Hai appena esordito come narratore. «Non esageriamo. È una inchiesta scritta in forma di romanzo». Come è nato Le dannate?«Dal ritaglio di un articolo di un giornalista che stimo molto, Salvo Palazzolo. Una curiosità che ti fa venire voglia di saperne di più. Un articolo letto e messo da parte, come faccio con le cose che mi interessano, poi ripreso, a distanza di mesi. Ed è stato l'inizio di tutto». Palazzolo raccontava la storia di queste tre donne che resistono alle minacce e alle prepotenze in un angolo sperduto di Sicilia. «Ciò che mi ha colpito, prima di ogni altra cosa, sono state proprio loro. Così caparbie, determinate, cocciutissime. Eppure, allo stesso tempo, così dolci, semplici, capaci di usare la propria umanità per difendersi in un mondo ostile. Avevo solo intuito la loro straordinaria forza comunicativa». Le Napoli non rispondono al cliché dell'eroe antimafia che conoscevamo: poliziotto, magistrato, giornalista…«Sono tre sorelle che ereditano dal padre, morto, la passione per la loro terra. E per quella combattono. Dato l'enorme affetto che oggi nutro per loro posso dire che le considero, anche tre fenomene della comunicazione. Sono uniche!». Perché?«Non è facile da dire. Intanto zero retorica. Zero retropensieri. Colpiscono dritte al cuore. E poi sono sinergiche: una è più meditativa, l'altra ha la battuta folgorante, e la terza sospira... Oppure: una ride, l'altra piange, la terza si arrabbia. Non so come ci riescano, ma lo fanno in automatico. È un fenomeno di sincronia rara, quasi musica, direi».È la carica umana che hai scoperto a Non è l'Arena. «Se non suona irriverente dovresti scrivere che sono come un Trio Lescano». Ma perché le Napoli sono diventate personaggi? Perché ormai hanno fatto più ore in tv che Mike Bongiorno?«No, hanno bucato fin dal primo giorno. Secondo me dipende dal fatto che sono eroiche ma normali. Proprio perché sono tre donne di quelle che potresti trovare in ogni famiglia, in ogni casa italiana. Chiunque si può riconoscere in loro». Massimo Giletti ha scritto un libro che si legge tutto d'un fiato. Le dannate (Mondadori) non è un instant book tratto da una inchiesta televisiva, ma si potrebbe dire che è esattamente il contrario: è il romanzo che si è costruito nella sua testa, da cui sono state tratte ore e ore di diretta televisiva, fino alla puntata record dalla piazza di Mezzojuso, un mese fa. Quel giorno Giletti ha condotto ignorando le contestazioni di una parte dei cittadini, e ha rischiato la colluttazione con il sindaco della cittadina, infuriato per le sue puntate: «Possono dire quello che vogliono, possono criticarmi, ma non dirmi che io parli male della Sicilia. Io parlo male della mafia che ha rovinato la Sicilia».Massimo, cosa vuoi dire del sindaco che ti ha contestato? «Nulla. Ti rispondo, semmai, con le parole di un altro sindaco siciliano, il sindaco di Troina, Sebastiano Venezia. Che ha detto, secondo me, una frase folgorante». Quale?«“Il sindaco di Mezzojuso ha accompagato i mafiosi al cimitero, io li ho accompagnati in carcere". Si tratta sempre di accompagnamento, ma il segno di questo gesto, è del tutto opposto». Quando hai trovato il tempo per scrivere?«Nell'unico spazio rimasto libero durante il lavoro per Non è l'Arena. La mattina molto presto. I bioritmi mi aiutano. Ma poi…».Cosa?«Un libro è una creatura che prende forma nella tua testa, fra le tue mani… Io scrivo ancora a penna». Scherzi?«Assolutamente no. Magari sentivo il bisogno di mettere nero su bianco una pagina, e spedivo alla mia editor Nicoletta Lazzari la foto del foglio su WhatsApp».Il tuo libro si chiude con un finale su Leonardo Sciascia, e a tratti sembra un racconto di Sciascia. «È un omaggio voluto a Sciascia, perché la Sicilia che ho incontrato, per molti versi non sembra diversa da quella che ci ha raccontato lui. In un capitolo ho riportato un aforisma folgorante del maestro: “I nodi vengono sempre al pettine, purché ci sia il pettine"». Nel libro, ogni tanto incroci anche lampi sconosciuti della tua autobiografia. «Perché quando ti cali in una vicenda senza nessun filtro e senza nessuna protezione ti ritrovi in gioco con tutto te stesso».Mentre traversavi le campagne siciliane ti sono venute in mente le campagne torinesi. «Sì, in un passaggio cruciale della mia infanzia. Mia madre si era trasferita dalla provincia in città, a Torino, perché si era deciso che noi ragazzi saremmo dovuti crescere con una mentalità più aperta. Ma mio padre aveva deciso che io sarei rimasto con lui, perché ero ancora troppo piccolo per il salto». E per te era stato un trauma.«Quando rividi mia madre l'avevo accusata quasi con rabbia: “Mi hai abbandonato!". E lei mi diede la risposta più bella della mia vita, quella certezza intorno a cui mi sono formato: “Da oggi in poi non ti lascerò più solo. Saremo sempre insieme"».Hai proiettato questo ricordo sulle sorelle Napoli, impegnate nella lotta per difendere i loro pascoli. Perché?«Perché ho sentito a parti rovesciate, lo stesso bisogno di protezione assoluta. La rabbia per l'ingiustizia che subivano da parte di chi voleva togliere loro tutto: le loro terre, il loro onore, la loro dignità. Nelle lacrime delle Napoli ho visto tutta la sincerità dei semplici. E le Napoli sono proprio questo: delle semplici in una terra complicata». Altra citazione perfetta, quella di Luigi Pirandello. «“In Sicilia ho incontrato pochi volti, molte maschere". I bravacci di questo libro sembravano tutti maschere grottesche, intente a recitare un copione antichissimo e già scritto». Però la piccola storia dei pascoli, ad un tratto diventa grandissima. «Perché ripercorrendo il filo intricatissimo di questa vicenda, a cavallo tra passato e presente, scopro che quei terreni erano importanti perché erano diventati il feudo della latitanza di zio Binnu, Bernardo Provenzano». Il finale della storia è già scritto?«Le Napoli hanno già vinto. Quelli che non lo hanno ancora capito ci metteranno un po', ma poi se ne accorgeranno». E il finale della nostra intervista? Devi ancora rispondere alla prima domanda. «Vedi, anche Le dannate nasce dalla grande libertà che ho potuto esprimere a La7». E quindi?«Una delle cose belle di questa avventura è il rapporto con le persone con cui lavoro. Andrea Salerno, direttore della rete…». E quindi?«…Ma soprattutto con Urbano Cairo. Che è davvero un uomo unico, con cui si è creato un feeling tutto particolare».E quindi? «C'erano anche altre offerte, non solo della Rai, molto interessanti e per me lusinghiere…». E quindi?(Sorriso). «Sono stato molto in dubbio, molto in dubbio, molto combattuto. Vedi, la Rai è la casa dove sono cresciuto, dove ho iniziato dopo aver tampinato Giovanni Minoli come uno stalker, fino a che lui non mi ha regalato una opportunità». E quindi?«Bene. Sono stato molto incerto, per molto tempo non sono riuscito a capire cosa prevaleva dentro di me. Adesso posso dirti che ho preso una decisione definitiva». Quale?(Sorriso gilettiano). «Ennò, ti ho già detto troppo. Dove ho deciso di andare te lo dico alla prossima intervista».
Jose Mourinho (Getty Images)
Con l’esonero dal Fenerbahce, si è chiusa la sua parentesi da «Special One». Ma come in ogni suo divorzio calcistico, ha incassato una ricca buonuscita. In campo era un fiasco, in panchina un asso. Amava avere molti nemici. Anche se uno tentò di accoltellarlo.