2019-03-25
«Papà Bud tra fede, fagioli e cazzotti»
Il figlio dell'indimenticato attore: «Mio padre credeva nella famiglia: 56 anni con mamma, mai una scappatella. Era un gigante, ma davanti al mistero della vita si sentiva piccolo. Il suo motto? Da napoletano, “futtetenne"».Ha appena scritto un libro, ma passa ore in moviola e lavora a un film su suo padre. Da chi ha preso l'energia Giuseppe Pedersoli è presto detto: «Lui si definiva un dilettante di successo. Aveva una curiosità immensa per tutto e tutti, l'ha avuta fino alla fine. Viveva di grandi passioni». «Lui» è Bud Spencer, all'anagrafe Carlo Pedersoli. Nato a Napoli nel 1929, compagno di scuola elementare di Luciano De Crescenzo, vissuto a Roma e in Brasile, Bud/Carlo è stato il più giovane diplomato d'Italia, poi atleta di altissimo livello (nel nuoto primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero, ma praticò con successo anche rugby, boxe, pallanuoto). Ha conseguito la licenza di pilota di linea e di elicottero dopo avere avuto una folgorazione per il volo sul set di Più forte ragazzi, dove atterra nella giungla, e per un po' di tempo possedette una piccola compagnia aerea. Parlava cinque lingue: inglese, tedesco, spagnolo, portoghese e francese. Nel 1999 la rivista americana Time lo incoronò «attore italiano più famoso al mondo». «Ma in pochi sanno», dice Giuseppe, classe 1961, produttore e sceneggiatore «che mio padre iniziò a recitare seriamente a 38 anni. Prima aveva fatto poco più che comparsate. Ha vissuto molte vite, e le ha amate tutte». In casa, Giuseppe e le due sorelle minori hanno respirato aria di cinema fin da piccoli. «Mia madre Maria è figlia di Giuseppe Amato, celebre produttore di La dolce vita di Fellini, di Umberto D. di Vittorio De Sica e del primo Don Camillo. Che tipo di padre è stato Bud Spencer? «Quando eravamo bambini lo vedevamo poco, era sempre via per lavoro. Abbiamo dovuto imparare a condividerlo con i fan, e mentirei se dicessi che è stato semplice, ma ci siamo riusciti. È stata mamma a tenere insieme la famiglia: è una donna piccola e fortissima. La loro è stata una grande storia d'amore: fidanzati per lungo tempo, dandosi solo qualche bacio, poi sposati per 56 anni». Un legame inusuale nell'ambiente del cinema. Suo padre scherzando diceva che non poteva permettersi di fare l'amante, per via della sua stazza non sarebbe mai riuscito a nascondersi in un armadio. «Sì, papà aveva valori molto solidi, che ci ha trasmesso, primo fra tutti il senso della famiglia. Ci ha insegnato ad ascoltare senza giudicare e a disprezzare la violenza. Era un uomo umile, anche se non modesto, non ha mai fatto capricci da star. Non amava il gossip, non è mai finito sui giornali se non per il suo lavoro. E anche se il più corteggiato della coppia era Terence Hill, pure a lui le occasioni non sarebbero mancate».Qual era il suo tratto distintivo? «I mille interessi. Gli dispiaceva non avere terminato l'università. Da ragazzo si era iscritto a chimica, abbandonando per l'attività agonistica. Poi aveva studiato giurisprudenza e dopo i 60 anni si era iscritto a sociologia, per spronare mia sorella. Diede tre esami portando a casa tre 30 e lode. Aveva un'indole molto giovane». Lei ha respirato cinema da sempre. «In realtà anche io, come papà, ho studiato legge, poi mi sono ritrovato sul set di C'era una volta in America di Sergio Leone. All'epoca nella macchina organizzativa e produttiva ero l'ultima ruota del carro, ma guardando lavorare Robert De Niro e Joe Pesci ho capito che quello sarebbe stato il mio futuro. Ho avuto la fortuna di poter affiancare Leone anche alla moviola, ricordo ancora la bellissima sala montaggio nella sua villa all'Eur, sotto la piscina. Un'umidità incredibile, ma che magia». A Budapest c'è una statua dedicata a suo padre. «Là c'è perfino un parco tematico su di lui, a dire il vero. In Ungheria e in Germania è idolatrato, sanno a memoria le battute di film come Lo chiamavano Trinità, con cui è nato il sottogenere dei “fagioli Western". I tedeschi hanno coniato il verbo sich budspenceren, cioè “menare come Bud Spencer"». E l'Italia? «Anche qui è ancora amatissimo. La pagina Facebook a lui dedicata ha quasi 3 milioni di follower, la prossima estate ci sarà una mostra a Napoli, due ragazzi hanno ideato un videogioco che si chiama Schiaffi & fagioli, ovviamente ispirato al cult movie Anche gli angeli mangiano fagioli. A Masone, nel genovese, ogni anno si tiene il Bud & Terence film festival che prevede, oltre alla proiezione di film, una cena a base di birra, salsicce e fagioli». Cosa avrebbe detto Bud dell'Italia di oggi? «L'avrebbe guardata con la consueta curiosità. Negli ultimi anni, quando aveva rallentato il ritmo lavorativo, era tornato a studiare filosofia, approfondiva temi legati alla fede e alla religione e si dedicava alla musica, un altro dei suoi pallini. Aveva scritto per Ornella Vanoni, per Nico Fidenco, ha composto colonne sonore». Cosa pensava della morte? «Diceva che da cattolico era curioso anche di quello, come un ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona. Aveva bisogno di credere perché, per usare le sue parole, nonostante il suo peso si sentiva piccolo di fronte a quello che c'era intorno a lui. La sua ultima parola è stata “grazie"». Una vita da film, un'esistenza «bigger than life», come dicono gli americani. «Sì, e infatti stiamo lavorando a una pellicola sulla sua storia. La coprodurrò insieme a produttori stranieri, perché c'è interesse in tutto il mondo, e la sto scrivendo con Lorenzo De Luca, autore con mio padre di libri sulla cucina e la filosofia come Mangio ergo sum e della biografia Altrimenti mi arrabbio. Racconteremo la sua vita fino all'approdo al cinema: quello che è accaduto dopo in fondo è noto, ma gli anni precedenti sono ignoti ai più e ricchi di episodi fantastici». Ce ne anticipa qualcuno? «Ad esempio, quando se ne andò in Sudamerica, dopo le Olimpiadi di Melbourne e lavorò come meccanico per la costruzione della strada di collegamento tra Panama e Buenos Aires, la Panamericana, nel tratto tra il Venezuela e la Colombia. Poi fino al 1960 fu a Caracas, per l'Alfa Romeo, e partecipò a gare di nuoto con la nazionale venezuelana. È stato anche inventore: ha depositato 12 brevetti, fra cui quello per un bastone da passeggio con tavolino e sedia inclusi e uno spazzolino da denti con il dentifricio incluso».Suo padre diceva che, nei molti anni di lavoro in coppia con Terence Hill, non avevano mai litigato. Possibile? «Sì, assolutamente. Hanno girato insieme 18 film e sarà certo capitata qualche occasione di attrito, ma si rispettavano troppo per discutere. Erano diversissimi, Terence più introverso e silenzioso, ma si sono voluti bene. Terence, come mio padre, è una persona perbene, per noi è uno di famiglia. Quando papà ha compiuto 80 anni è venuto a casa nostra a mangiare gli spaghetti di mia madre, che adorava. La prima telefonata, quando mio padre è mancato nel 2016, l'ho fatta a lui. Vorremmo vederlo di più, ma lavora a pieno ritmo così lo guardiamo in tv nei panni di Don Matteo». Lei, fra un progetto cinematografico e l'altro, ha scritto un thriller politico. «Si intitola Il patto col diavolo, pubblicato da Sovera. Ambientato in un futuro di stallo politico ed economico, proteste di piazza, scioperi continui e crisi di governo, anche con qualche tocco di preveggenza, con la realtà che continua ad affiancare e superare la fantasia». Qual è stata la spinta a scriverlo? «Il libro è nato come reazione al modello di società attuale. L'Italia mi sembra ingabbiata in logiche di sistema che continuano a proteggere chi preferisce lavorare ai margini delle regole della convivenza sociale, invece di contribuire ad un cambiamento virtuoso. E mi riferisco sia ai politici che ai cittadini. Guardo con dispiacere ai giovani che vanno all'estero a cercare opportunità che qui non trovano. È evidente, anche dal risultato delle ultime elezioni, che la spinta verso il cambiamento sia fortissima. Mi fa arrabbiare il fatto che il comportarsi onestamente paia diventato un sacrificio masochistico. Una società che seguita a privilegiare queste logiche è senza dubbio una società condannata».Cosa si potrebbe o dovrebbe fare, secondo lei? «Non intendo ergermi a moralista né a giudice, però credo che ognuno di noi al mattino, quando esce di casa, abbia il diritto e il dovere di scegliere se fare un piccolo o grande patto col diavolo. E decidere se comportarsi in maniera civile, onesta e rispettosa verso sé stessi e gli altri. Il cambiamento passa da lì».Suo padre non ha mai nascosto le sue idee di destra e si fece tentare anche dalla politica attiva. Come andò? «Nel 2005 si candidò alle elezioni regionali del Lazio per Forza Italia dopo un incontro con Silvio Berlusconi, ai tempi presidente del Consiglio. Ne aveva grande stima da sempre, diceva che quando si stima l'uomo già prima e poi lo si vede in politica, lo si accetta, si ama e stop. Aveva ottenuto più di 4.000 preferenze, ma non era stato eletto». Rimase deluso dall'insuccesso? «No, sostenne anche mia sorella Cristiana quando qualche anno dopo, nel 2013, fu lei a schierarsi con il Popolo delle libertà per le elezioni comunali di Roma. E poi mio padre, da napoletano verace quale era, aveva un motto, una filosofia di vita racchiusa in una parola: futtetenne, un vocabolo che è anche il titolo di una sua canzone. Fregarsene, lasciar andare le cose. Diceva sempre: “Io sono un futtetenne"».