2018-12-24
Gennaro Sangiuliano: «I giornaloni? Non capiscono il nuovo»
Il neo direttore del Tg 2: «Da sempre i grandi commentatori sono fuori dal mondo: una volta stroncavano i geni impressionisti, oggi si chiudono in bolle autoreferenziali. Per capire la realtà io parlo con il mio portiere. L'elemento chiave in tv è la forza delle immagini: quella spinge in avanti e dilata la soglia di attenzione. Per paradosso, in tv potresti fare un servizio solo con immagini e senza speech, mentre il viceversa è impossibile. Mai dimenticarlo».Gennaro Sangiuliano è da poche settimane il nuovo direttore del Tg 2. Insegna Storia economica alla Luiss, e ha pubblicato negli ultimi anni per Mondadori saggi su Donald Trump (Trump. Vita di un presidente contro tutti) e Vladimir Putin (Putin. Vita di uno Zar). Ha accettato di conversare a tutto campo con La Verità. Direttore, i primi dati d'ascolto sembrano premiare il Tg 2. Dopo stagioni non facili, consolidate il 15-16% a pranzo e vi riaffacciate sopra il 7-8% a cena.«Il Tg 2 negli anni Ottanta ebbe momenti di grande splendore con direzioni come quelle di Antonio Ghirelli e Alberto La Volpe. Più avanti Clemente Mimun dette al telegiornale un'identità marcata. Ecco, spero che questa identità distintiva possa essere recuperata».Hanno funzionato alcune inchieste (termovalorizzatori, rifiuti, strade dissestate) o il tentativo di ridare un profilo marcato a un tg che era divenuto un po' incolore? «È un mix di fattori. Da un lato le inchieste, e voglio segnalare anche quella sui roghi dei capannoni industriali. Dall'altro il profilo che stiamo cercando di riacquisire. Mi fa anche piacere ricordare la grande attenzione che per primi abbiamo dato a quanto accadeva in Francia, accendendo subito i riflettori sulle proteste dei gilet gialli».Però sono arrivate le prime accuse: amico di Matteo Salvini, il tg populista, la voce dei sovranisti. Tutto prevedibile? «Sono cose abbastanza scontate, ampiamente messe nel conto. Rivendico peraltro un equilibrio assoluto. In un mese di direzione, abbiamo sentito tutti i leader pd, da Maurizio Martina a Nicola Zingaretti, da Matteo Renzi a Marco Minniti che ci ha annunciato la sua non candidatura. Vuoi sorridere?».Sempre…«Siamo stati l'unico tg Rai a dare conto del congresso dei partiti comunisti ad Atene in Grecia».Come affronti il problema della «soglia di attenzione» del telespettatore? Statistiche non solo italiane dicono che ormai la vera attenzione dura poche decine di secondi. Si può ancora comunicare o bisogna solo sparare titoli di elementare comprensibilità?«L'elemento chiave in tv è la forza delle immagini: quella spinge in avanti e dilata la soglia di attenzione. Per paradosso, in tv potresti fare un servizio solo con immagini e senza speech, mentre il viceversa è impossibile. Mai dimenticarlo». Nella tua esperienza anche come vicedirettore del Tg 1 per anni, quanto conta il traino? Max Catalano direbbe: meglio trovare tanta gente che trovarne poca. Ma davvero il trascinamento del programma precedente è una «sentenza» per un tg?«Inutile girarci intorno, conta tantissimo. Tu puoi elevare molto l'ascolto, puoi anche vedere la curva che si impenna. Ma se non parti da una base significativa…».Molti commentatori mainstream si concentrano sui «vincitori» di questi anni (Trump, i populisti) e poco sugli elettori, sul motivo sociale di quelle vittorie. Come spieghi questa disattenzione? «Molti commentatori politici assomigliano alle aristocrazie zariste di fine Ottocento-inizio Novecento in Russia: possedevano latifondi sterminati, e, proprio per marcare la distanza rispetto al popolo, avevano l'abitudine di parlare tra loro in francese…».Le firme dei nostri giornaloni fanno altrettanto?«Sono isolati nella bolla dell'autoreferenzialità. Perfino nello stile di vita: se ne stanno a cena fra di loro, frequentano certi circoli, è come se fossero svincolati dalla società reale. È un errore che io cerco di non commettere». Come? «Il portiere del mio palazzo è per me un interlocutore importante per capire il quartiere. Se posso, impiego volentieri un'ora con un operaio o un sottoproletario ad esempio di Napoli, la mia città di origine. Lo stesso all'università: a lezione finita, mi fermo con gli studenti. Voglio sapere cosa fanno, come passano il tempo, cosa leggono, le serie tv che vedono».Okay, i commentatori mainstream avranno anche un altro stile di vita. Ma come fanno a non porsi il problema della percezione, dal punto di vista dei ceti medio-bassi, di ciò che è accaduto in questi anni? «Ti rispondo con il premio Nobel Paul Krugman. Ha scritto che “l'Europa sta letteralmente commettendo un suicidio economico", con le politiche di austerità. Fammelo citare ancora: “Nel Medioevo i malati venivano curati con i salassi che a loro volta facevano ammalare ancor di più il paziente. Quando il sanguinamento li faceva star peggio, li salassavano ancor di più"». Questo è sfuggito a un certo establishment, anche di sinistra, che ha perso di vista il tema delle disuguaglianze.«Secondo il rapporto Oxfam del 2017, otto persone al mondo detengono una ricchezza pari alla metà della popolazione mondiale. Gli uomini d'oro sono Bill Gates, Amancio Ortega, Warren Buffett, Carlos Slim Helu, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison e Michael Bloomberg, e possiedono 426 miliardi di dollari, mentre 3,6 miliardi di abitanti messi insieme posseggono molto meno di questa cifra».Super miliardari ma pure super di sinistra.«Ah sì. È curioso notare come quasi tutti gli otto supermiliardari professino idee progressiste: Bill Gates, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg si sono palesemente schierati contro Donald Trump sostenendo anche economicamente Hillary Clinton». Che ruolo gioca la paura del futuro?«Per la prima volta nella lunga storia economica dell'Occidente, in cui per secoli si è avuta la certezza che i figli sarebbero stati meglio dei padri, i figli sicuramente staranno peggio, e difficilmente riusciranno a costruire un futuro migliore… Siamo un Paese in cui, alcuni decenni fa, il figlio di un sarto è potuto diventare presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita. Oggi sarebbe quasi impossibile».C'è stato davvero un «pensiero unico» in questi anni? «Ho coniato la sigla di un partito, Pupc: Partito unico del politicamente corretto. È stato il partito più forte e oppressivo, il partito del conformismo dominante».Temi - starei per dire: pasolinianamente - per la perdita del valore della pluralità e della diversità?«Pasolini amava le differenze e gli antagonismi. Una società ha sempre bisogno di modelli alternativi. Invece per il Pupc il tratto dominante è l'uniformità assoluta, accompagnata alla demonizzazione di chi la pensa diversamente. Rifiutano la novità e la differenza. Ti racconto un aneddoto che risale ai primi del Novecento. Anche allora quelli che oggi chiamiamo giornaloni…».Non le azzeccavano tutte…«Giuseppe Prezzolini, Ardengo Soffici e Giovanni Papini organizzarono a Firenze una prima mostra degli impressionisti francesi. Da Parigi, si caricarono letteralmente alcune opere di Henri Matisse, Alfred Sisley, Edgar Degas. I giornaloni di allora scrissero: “Sono scarabocchiatori". Capito? Per loro la vera pittura erano i ritratti delle dame con il cagnolino… Sappiamo a chi la storia abbia dato ragione».Il rifiuto del nuovo non è inedito…«Ah certo. Pensa a Cristoforo Colombo. Isabella di Castiglia, che pure lo proteggeva, lo mandò davanti all'Inquisizione. E quelli gli dissero: “Ma non l'ha mai fatto nessuno…"».Perché gli analisti mainstream ce l'hanno così tanto con lo Stato nazione, che avrà certamente molti difetti, ma è pur sempre il mattone su cui è stata costruita la democrazia in Occidente?«Ralph Dahrendorf, filosofo caro alla sinistra italiana, sostiene che “la democrazia non è applicabile al di fuori dello Stato nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica". Lo Stato nazione è lo spazio naturale della democrazia». Anche Federico Chabod, nel suo classico L'idea di nazione, aveva affermato che “nazionalità significa senso di individualità storica". E pure il filosofo inglese Roger Scruton salda in un binomio indissolubile nazione e democrazia: “Le democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale"».Infatti nel mondo classico libertà e identità non erano in contraddizione.«Ma certo, pensa agli Ateniesi. Antesignani di libertà e democrazia. Ma questa loro conquista ruotava intorno al nucleo dell'identità». Pensi che oggi tanti vogliano scindere questi due momenti?«Purtroppo sì. Dalla nozione classica di civis, cioè di cittadino destinatario di diritti e doveri, ci vogliono far diventare un codice a barre, solo un consumatore…».Hai citato anche Antonio Gramsci a proposito del «popolo nazione».«Questo tema effettivamente affascina un intenso intellettuale come Gramsci che corregge il marxismo classico aprendo al popolo nazione richiamando proprio il rispetto della volontà collettiva di una nazione».Torniamo all'attualità. Gli antitrumpisti militanti pensano di trattare Trump come una parentesi da chiudere al più presto…«Dopo la sua elezione, Trump è stato sommerso da un'ondata di isteria mediatica. Non ci sono state analisi serie sul “perché Trump". Io penso invece che finirà come Ronald Reagan: veniva insultato, ma la storia gli ha dato ragione».Ma i suoi avversari, ammesso che lui non rivinca nel 2020, pensano che possa tornare il «piccolo mondo antico» delle Hillary? «Per carità. Può anche succedere che perda nel 2020: del resto già nel 2016 ebbe due milioni di voti popolari in meno. Ma potrà eventualmente sconfiggerlo un populista di sinistra. Non certo una dama con il cagnolino…».
Attività all'aria aperta in Val di Fassa (Gaia Panozzo)
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Lo spettacolo Gabriele d’Annunzio, una vita inimitabile, con Edoardo Sylos Labini e le musiche di Sergio Colicchio, ha debuttato su RaiPlay il 10 settembre e approda su RaiTre il 12, ripercorrendo le tappe della vita del Vate, tra arte, politica e passioni.
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