2022-03-28
Andrea Crisanti: «Ora basta con le chiusure anti Covid»
Il microbiologo: «Il virus è mutato e davanti alla sua infettività non c’è misura di contenimento che regga Abbiamo i vaccini, liberalizziamo tutto. I decessi? I più fragili restano fragili anche se sono immunizzati».Professor Crisanti, la disturbo?«No, sono in aeroporto a Londra. Sto tornando a Padova».Sarò sintetico. Esattamente due anni fa eravamo in piena emergenza e il bollettino Covid contava 6.800 morti. Che ricordi ha di quei giorni? «Avvenimenti che si susseguivano in modo caotico. Talvolta ho assistito impotente».Lei si ritrovò catapultato in Veneto. Perché?«La cattedra di microbiologia all’Università di Padova mi era stata assegnata per chiara fama ed eccezionali meriti scientifici nel maggio 2019. Da lì il passaggio è stato naturale in ruoli di direzione».Cosa la colpiva di più in quei giorni?«Un virus nuovo e una malattia molto grave che colpiva soprattutto le persone debilitate e vulnerabili. Reparti sopraffatti dalle richieste dei malati. La popolazione impaurita. Molti decessi».Si parlava del virus cinese da almeno un mese prima. Si aspettava una cosa del genere?«Non per vantarmi, ma il 20 gennaio avevo messo in allarme l’azienda ospedaliera. E dopo una settimana avevamo il test diagnostico pronto. Avevamo stoccato quasi 40.000 reazioni. E su mio impulso avevamo acquistato una decina di respiratori e tutte le dotazioni di ossigeno erano piene. Ci eravamo mossi in anticipo. Poi le autorità regionali hanno ordinato di fare il test a tutti gli abitanti di Vo’ Euganeo. Una decisione estemporanea che ha creato una situazione epidemiologica ideale per studiare la dinamica della trasmissione del virus. Scoprimmo che i contagi erano molti di più rispetto ai dati ufficiali. L’articolo che abbiamo pubblicato in proposito su Nature è stato uno dei più citati al mondo. Le strategie Covid zero di Australia, Nuova Zelanda e Singapore si basano su quel lavoro».Lei che spiegazione dà del motivo per cui il Covid si è molto diffuso in Lombardia e Veneto? Senza quelle due regioni il quadro italiano sarebbe molto diverso.«Quando abbiamo scoperto il paziente di Codogno, il virus si era già diffuso a macchia d’olio in tutta la Lombardia. I primi casi di infezione in Lombardia datano probabilmente fra la seconda e la terza settimana di gennaio. Il lockdown è stato fatto l’8 marzo. E in due mesi il Covid ha avuto modo di diffondersi sfruttando le condizioni particolari della Lombardia. Una rete di connessioni fra le persone e un’economia tra le più sviluppate in Europa con continui scambi commerciali. Poi una popolazione relativamente anziana. Elementi che hanno alimentato la diffusione del virus e la letalità della malattia».Dopo i meriti gli errori. Cosa non rifarebbe?«Mi sono fatto influenzare durante i primi giorni nel minimizzare i rischi. Mi sono piegato inizialmente al pensiero comune. Poi non l’ho fatto più».È per questo che ha litigato con il governatore Zaia?«Se devo dire una cosa la dico. Non mi autocensuro più».Quali errori sono stati compiuti nella nostra campagna di vaccinazione?«Non credo siano stati poi così tanti. È iniziata balbettando più per la mancanza di dosi che non per carenze logistiche. Spagna, Inghilterra e Germania non hanno avuto bisogno dell’esercito per vaccinare. Ci saremmo riusciti anche con una struttura commissariale normale».Nei trial clinici sui vaccini abbiamo poi scoperto che sono stati somministrati anche a chi aveva ricevuto il placebo invece del preparato. I dati che abbiamo sono quindi poco affidabili.«Discorso complesso che richiede valutazioni di carattere etico. Se i trial da subito dimostrano che il gruppo dei pazienti trattati ha un vantaggio rispetto a chi non ha ricevuto il vaccino, in termini di benessere e di salute, in genere si dà il trattamento anche al gruppo cosiddetto di controllo. È il prezzo che la conoscenza paga alla necessità di fare del bene. Quest’ultima ha una priorità».Nel Regno Unito che lei ben conosce per motivi lavorativi il dibattito su Covid e vaccini è stato così isterico come in Italia?«In Gran Bretagna hanno la migliore scuola di epidemiologia. Una modellistica fra le migliori del mondo. Tranne esitazioni iniziali, il governo ha poi preso decisioni basate su dati e proiezioni. Scelte tutte corrette, anche se apparentemente controintuitive. Perché l’obiettivo non è mai cambiato».Quale obiettivo?«Proteggere i deboli dal contagio per evitare che morissero. Senza i vaccini l’unico rimedio era il distanziamento sociale e nelle forme più estreme il lockdown. Ciò ha consentito di guadagnare tempo ma non di risolvere il problema. I nostri politici dopo la fine della prima ondata hanno pensato che il problema fosse risolto. La mia proposta di creare in quel momento una struttura permanente di tracciamento fu ignorata. Dopodiché sono stati introdotti i colori che hanno consentito alle attività di continuare. Ma non scordiamoci mai che la seconda ondata ha fatto novantamila morti in Italia. Infine, sono arrivati i vaccini che hanno consentito di allentare alcune misure. Nel frattempo, il virus è cambiato».Come?«Ha un indice di infettività R0 che va da 12 a 15. Tipo il morbillo. Mi creda: con numeri di questo tipo non c’è misura di contenimento che funzioni. Quindi tanto vale non adottarle. E cercare di vaccinare quanta più gente possibile. La priorità rimane sempre di proteggere i vulnerabili. Che, anche se vaccinati, vulnerabili rimangono. Infatti tutte le centinaia di morti che contiamo ogni giorno sono persone vaccinate ma fragili». Continuare con le dosi serve?«Non cambia moltissimo la situazione. Se fragile sei, fragile rimani. Se sei in età da lavoro, devi poter fare il lavoro agile in remoto. Se sei pensionato e soprattutto indigente devi essere economicamente sostenuto. Chi ti viene ad assistere per fare da badante deve farsi il tampone ogni volta che ti viene a trovare. Questo è il motivo per cui a metà gennaio dissi: “Liberalizziamo tutto adesso”».Queste dichiarazioni mi sorpresero…«Abbiamo invece aspettato tre mesi. Esattamente il periodo in cui l’immunità della vaccinazione e della guarigione inizia a diminuire. E infatti abbiamo l’aumento dei casi. Lo dissi chiaro. Più aspettiamo e più diventiamo suscettibili. Matematico». Cos’è naturale che faccia un virus nella sua evoluzione?«Dal punto di vista evolutivo la spinta principale è la riproduzione. Ma questo vale per qualsiasi organismo: dal virus al microrganismo per finire all’essere umano o alla balena. Qualsiasi cosa faciliti la riproduzione ha un vantaggio selettivo. Infatti, i virus con le successive varianti hanno coefficienti di riproduzione sempre più elevati. La spinta selettiva agisce in tal senso, dopodiché abbiamo introdotto una barriera».Quale?«Il vaccino. Con questo la percentuale delle persone suscettibili diminuisce. Le più fragili muoiono. Quelle che guariscono hanno una risposta immunitaria che contrasta il virus. Qui la spinta selettiva del virus si modifica. Non c’è solo la necessità di riprodursi, bensì quella di riprodursi in persone potenzialmente protette. Ed è per questo che il virus evolve in forme che non vengono riconosciute dai vaccini. La spinta è sempre la riproduzione».Quindi diventano meno letali?«È un tema di grande interesse, il rapporto fra evoluzione e virulenza. Se il microrganismo per riprodursi deve fare un danno, non evolve verso forme non virulente. Se ne può fare a meno sì. Il parassita della malaria infetta l’uomo da quarantamila anni e non può evolvere verso forme non virulente. Sa perché?».Perché?«La virulenza è legata praticamente al numero di parassiti che ci sono nel sangue. Più ce ne sono, più chiaramente il paziente sta male. Però aumenta la probabilità che la zanzara che lo punge a sua volta si infetti e continui pure lei ad alimentare la riproduzione». E con il Covid?«Ci sono margini di flessibilità. La variante Omicron è meno virulenta perché colpisce le vie aeree respiratorie superiori. Ed è quindi più facile uscire e contagiare altre persone. Quindi la riproducibilità si associa a una minore virulenza».Lei ha espresso in passato dubbi sulla coerenza e consistenza dei dati sui morti di Covid.«Il calcolo è facilissimo. Avevamo a dicembre 1.200 pazienti ricoverati in terapia intensiva. La permanenza media dura venti giorni. La probabilità di morire a questo stadio è del 50%. Seicento morti in venti giorni sono trenta al giorno».Ne avevamo molti di più…«Gli altri erano tutte persone vaccinate e fragili. Problema purtroppo non sollevato perché si aveva paura che i no vax argomentassero che il vaccino non funzionava. L’Iss, sollecitato, alla fine ha dovuto chiarire. La maggior parte dei morti sono persone sopra gli 80 anni e al 97% vaccinate». È logico mantenere l’obbligo di vaccinazione in capo ai sanitari? «In linea di principio il medico è a contatto con i fragili e deve essere sicuro di non infettarle. È una scelta politica. In Gran Bretagna, per esempio, non c’è l’obbligo di vaccinazione. Sono favorevole all’obbligo. Se non ci fosse l’obbligo penso che i medici si dovrebbero fare un tampone al giorno. Bisogna andare al lavoro con la certezza matematica di non essere infetti. Conta più il risultato finale che l’aspetto ideologico».Cosa pensa di Astrazeneca?«Ottimo vaccino con un tasso di complicazioni relativamente molto basso e paragonabile, ad esempio, a vaccini come quello contro la polio. Poteva essere usato. Poi non vorrei parlare di scontri fra compagnie. In Inghilterra e altri Paesi lo hanno usato».
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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