2020-01-26
L’ingiusto oblio dei nostri soldati che preferirono il lager a Salò
Bollati in patria come traditori e dimenticati, i 650.000 militari internati dai nazisti dopo il 1943 pagarono carissima la loro Resistenza. Eppure ci sono voluti decenni perché qualcuno ne riscoprisse l'importanza.Avete mai conosciuto gli Imi? No, non sono gli alieni arrivati da Marte o Venere e non sono neppure gli operatori di una grande finanziaria (Imi, Istituto mobiliare italiano). Eppure sono un numero imponente di persone: almeno 650.000 militari italiani finiti nei lager nazisti dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Quei soldati e ufficiali si rifiutarono di continuare a combattere a fianco della Germania di Hitler e di essere inquadrati nella Repubblica di Salò agli ordini di Benito Mussolini, «preferendo - come ha scritto un ufficiale - la dura vita di prigionia a quella del disonore». Questa pagina della storia italiana è stata troppo a lungo trascurata dalle istituzioni, dalla politica, dagli stessi storici. Eppure quei 650.000 militari (con le loro famiglie e i loro parenti) rappresentavano almeno 5-6 milioni di persone. Per molti anni le associazioni che si sono occupate di reduci, di ex internati, di tutela degli ex combattenti, quando hanno affrontato i problemi degli Imi hanno battuto la testa contro un muro di gomma, non hanno cioè mai ottenuto alcun significativo riconoscimento. A differenza delle associazioni dei partigiani, dei sostenitori delle lotte di Resistenza (compresi quelli dell'ultim'ora o i favoriti per meriti di partito). Eppure sono oltre 50.000 i militari morti nei campi di concentramento tedeschi per la fame, le sofferenze patite, le malattie non curate o semplicemente fucilati, con la facile e scontata giustificazione del «prigioniero che stava cercando di fuggire». Tutto questo (e molto altro) è ora ampiamente e rigorosamente documentato da un libro di 450 pagine pubblicato dal Mulino, I militari italiani nei lager nazisti, scritto da due giornalisti che da anni si occupano di ricerca storica: Mario Avagliano e Marco Palmieri. I due autori oggi confermano «il lungo e oscuro periodo di silenzio, quanto mai controverso e difficile per Italia e Germania». Infatti, solo nel 2008 i due Paesi decisero di costituire una commissione di storici per approfondire quelle vicende, con particolare riferimento agli italiani internati nei lager tedeschi.Innanzitutto vennero confermate le cifre, di cui non si conosceva l'esattezza. Il giorno dopo l'armistizio del 1943 l'esercito tedesco procede al disarmo di 1 milione e 7.000 militari italiani. Di questi circa 197.000 scampano alla deportazione, scegliendo la via della fuga (in parte confluiscono nelle formazioni di lotta partigiana in Italia e all'estero); i rimanenti 810.000 circa (di cui 59.000 imprigionati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani) vengono sottoposti a interrogatori e posti di fronte alla scelta: rifiuto di partecipare alla guerra e quindi lager in Germania, oppure trasferimento nelle file della Repubblica sociale. Nella primavera del 1944 circa 197.000 militari (il 24% del totale) si dichiarano disponibili all'avventura di Salò, mentre 600-650.000 vengono deportati nei lager: una scelta rischiosa per la loro vita, piuttosto che prestare giuramento di fedeltà a Hitler e Mussolini. Diverse migliaia di militari persero la vita durante le operazioni di disarmo (non tutti infatti accettarono facilmente di cedere le loro armi). Altre decine di migliaia preferirono fuggire ma poi, arrestati dai tedeschi o dai loro alleati, finirono in campi di lavoro forzato in Jugoslavia, Albania, Grecia, Bulgaria, Ungheria e Romania, dove trovarono sofferenze e morte.Ai fortunati, rientrati dopo la fine della guerra, in Italia venne affibbiata la qualifica di Imi. Qualche reduce ha tradotto questa sigla in un modo diverso da quello ufficiale: «Italiani martirizzati ingiustamente».In ogni caso, il disinteresse politico prevalse nettamente, anche se qualcuno, soprattutto nei grandi partiti (Dc e Pci) cominciò a guardare gli ex militari con un occhio diverso del passato perché, come spesso avviene nel nostro Paese, l'interesse elettorale finisce sempre col prevalere. Da sinistra, anche se tiepidamente, si cominciava ad affermare che anche grazie al «no» di questa grande massa di combattenti (650.000 soldati), cioè di una «resistenza senza armi», era stato possibile accelerare la fine del conflitto; diversamente la guerra sarebbe durata ancora di più, con migliaia di altre vittime e con devastazioni incalcolabili. Da destra, soprattutto quella che si rifaceva storicamente al ventennio mussoliano (Msi e altre formazioni), venivano definiti «traditori» i militari che avevano scelto i lager tedeschi per non combattere. Ma c'è un signore, diventato segretario generale del Msi, firmatario del Manifesto della razza, a cui si vogliono intitolare delle strade (l'ultimo caso è avvenuto nei giorni scorsi a Verona, stigmatizzato dalla senatrice Liliana Segre), e autore nel 1944 anche di un manifesto con la condanna a morte dei militari italiani che non si fossero consegnati. Questo signore, Giorgio Almirante, dopo molti anni, avrebbe rinunciato all'antisemitismo, ma ha avuto anche una condanna per collaborazionismo con i nazisti, come afferma, in una lettera a un giornale, il cronista e storico Alfio Caruso. E pensare che nel 1979 - come ha ricostruito ieri La Verità - proprio nelle file del Movimento sociale di Almirante si candiderà Alfredo Belli Paci, marito della Segre, conservatore preoccupato dall'avanzata delle sinistre, soprattutto per niente fascista, al punto da aver condiviso l'internamento nei lager nazisti con tutti gli altri Imi.Nel libro di Avagliano e Palmieri si citano brani di numerose lettere, scovate negli archivi, raramente consultati dagli storici (ricchissimi di corrispondenza degli ufficiali Imi): documenti preziosi, se si pensa che nei lager era severamente vietato tenere diari o scrivere in qualsiasi foglio a rischio della vita. E i controlli erano molto severi. Il tenente Giorgio Marras, il 22 gennaio 1944, scrive: «Se mi trovano questo diario mi fucileranno». Le perquisizioni erano frequenti, «facendo guardare - annota Leonello Morsiani il 16 marzo 1945 - anche nella fodera dei vestiti».Il silenzio, dopo 70 anni, ancora continua, anche se nel popolo degli Imi vi sono stati personaggi celebri e genitori di uomini di successo, carismatici e di grande popolarità. Vediamo qualche nome: Giovannino Guareschi (che ha scritto una sferzante dedica alla tragica vicenda ), Leonetto Amadei (presidente emerito della Corte costituzionale), il Rettore dell'Università cattolica di Milano, Giuseppe Lazzati, il segretario della Cisl, Guido Baglioni, i giornalisti e scrittori Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono e Mario Rigoni Stern, il poeta Tonino Guerra, Ferruccio Guccini, padre del cantautore Francesco, Carmelo Carrisi, padre del cantante Al Bano, Giuseppe Di Pietro, padre dell'ex magistrato di Mani pulite, Antonio, Carlo Rossi, padre del cantante Vasco. Una delle canzoni più belle e conosciute di Vasco si intitola C'è chi dice no, come fece il padre nel 1943. Guccini invece ha scritto, com'è noto, Auschiwitz.Forse dovremmo sempre ricordare, nel silenzio assordante che ancora perdura, che dalle lettere e dagli altri scritti degli Imi emerge chiaramente, senza perifrasi, che si è tratto del primo rifiuto di massa della guerra e del fascismo. E questo messaggio forte è venuto da uomini rinchiusi nei lager, da militari educati sempre a «credere, obbedire e combattere».
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