2023-05-22
Sandro Mazzola: «Può tornare la Grande Inter. E non rinuncerei a San Siro»
Sandro Mazzola (Getty Images)
La bandiera nerazzurra: «Basta con il compiacimento di essere “perdenti onesti”. Comprai Ronaldo il Fenomeno senza far uscire una lira dalle tasche della società».Rombo di moto in prova all’Autodromo in sottofondo, l’ingresso è a un passo dal parco di Monza. «Vado a casa di Sandro Mazzola», ho spoilerato a qualche amico nerazzurro. Coro unanime: «Mito». Glielo racconto davanti al quadretto firmato da Giuseppe Saragat. «Sono pure Cavaliere, sì, lo scriva. Meglio “mito”, però, anche se è stata una grande responsabilità», dice, e lo sguardo si perde negli anni.Ci sediamo davanti al camino di pietra scura, con i trofei lucidati e un articolo del Corriere del ’66 che lo celebra. Sul tavolino il suo nuovo libro con in copertina il baffo che c’è ancora: Cuore nerazzurro, da poco in libreria per Piemme. Con noi il quarto figlio, Paolo. Anche Ilaria, Valentina e Sandro jr con la stessa fede calcistica?, oso chiedere. Mazzola senior un po’ sorride, ma la voce tuona: «Ma come si permette di fare una domanda del genere? Pure i nipoti, certo. E lei?». Lo rassicuriamo, si quieta.Qualche anno difficile per la squadra…«Davvero? Non ricordo (sornione, ndr.). Quando hai il cuore nerazzurro niente è semplice. È un’altalena di emozioni, soffri ogni minuto della partita. Come Napoleone si vive la gloria dopo il pericolo, la vittoria dopo la sconfitta. Si giace nella polvere e si sale sull’altare».Ora però la finale. Sogna il ritorno della sua «Grande Inter»?«Un passo per volta, per vincere sempre di più. I tifosi la aspettano, quella nostra Grande Inter. Ci sono stati anni difficili a combattere contro il Milan, quelli della rivalità con la Juventus tra polemiche arbitrali e Calciopoli. Siamo tornati a brillare l’anno del triplete, con Mourinho in panchina. Ma è durato poco, troppo poco. Cinque anni di buio dopo Moratti, poi la risalita con Conte».Bandiere in campo come fu lei, oggi ce ne sono?«Se vuole la verità, io non ne vedo, mi spiace. Bandierine, forse quelle sì. Sa che c’è? Che si cambia facilmente la maglia, al giorno d’oggi, è proprio un altro mondo rispetto al mio. Però ho visto delle belle partite. Inzaghi è stato bravo a distribuire il gioco ed è un buon segno».Ci fu Invernizzi nel 1972 con la Coppa Campioni, Inzaghi è il primo tecnico italiano che li porta in finale di Champions. «Sì, una volta si cercavano allenatori stranieri e oggi van di moda gli italiani che magari han fatto già carriera in campo. Tre squadre italiane nelle principali competizioni in Europa sono un bel segnale per il nostro calcio».Le proprietà dei club di Milano non battono più bandiera tricolore, però.«Se son gente di sport, ben vengano. Non bastano i soldi, per fare il calcio ci vuole passione».Ma i conti devono essere in ordine, e lei lo sa perché dopo il campo ha affrontato una lunga carriera da dirigente…«Che vuole, con i prezzi dei cartellini di oggi… da quando sono arrivati i procuratori il calcio è cambiato. Ma guardi che in ogni caso è sempre stato così, eh, con i soldi. Se si volevano comprare giocatori di qualità, bravi… occorreva spendere. I conti del calcio italiano sono sempre stati fatti quadrare un po’ di nascosto, diciamo».Però quando lo scandalo scoppia per la Juve lei un po’ esulta, o sbaglio?«È che vincono sempre loro, porco Giuda… è quello che ci frega». Giorgetti ha detto che se con la vicenda delle plusvalenze la Juve fosse colpevole sequestrerebbe lo stadio, invece che dare penalità.(Ride forte) «Non sarebbe male, non è una cattiva idea. Ma lo sa che da ragazzo mi volevano, alla Juventus? Mi affiancarono con una Fiat 1100, dopo un allenamento. Rifiutai».E poi papà Valentino indossava la maglia granata…«C’era anche lui, in quel mio “no”. Mio padre entrava in campo con me per mano, mi portava agli allenamenti. Passione pura. Alla domenica andavamo a Messa alle 11 e per strada tiravo calci alle lattine fino all’ingresso della chiesa e poi ne nascondevo una per rincorrerla fino a casa».Poi fu la tragedia di Superga, e lei racconta che da quel giorno non ha più pianto. Mai più?«Quei giorni lì cambiarono tutto. Ricordo come mi guardava la gente, dopo. Mai più, davvero. Anche se nella vita ne ho affrontate, di situazioni difficili».Significa diventare più cinici, non versare più una lacrima?«No, più forti. È questo che vuol dire».Trasferte in carriera ne ha poi fatte tante. Senza la paura di volare?«Quella sempre».Il viaggio più bello con la squadra?«In Sud America: il Brasile, l’Argentina, dove gli stadi erano pieni all’inverosimile e si giocava e gridava come pazzi. A Buenos Aires non ci lasciarono dormire un minuto la notte prima della partita, cantavano sotto le nostre finestre».L’han fatto anche i tifosi del Napoli il mese scorso sotto l’hotel del Milan.«Bella squadra, il Napoli. Se la sono meritata quest’anno».Lei abita a Monza da anni. Segue anche i biancorossi di Galliani?«Poco, a dire il vero. Galliani lo conosco, ma non posso essere suo amico. La maglia è rossonera». E di Berlusconi?«Amici no, ma la rivalità era solo calcistica. L’ho conosciuto e mi piaceva, perché era stato capace di inventare qualcosa e di far ragionare la gente».E poi l’ha votato?«È successo, sì». Di recente cosa ha scelto nel segreto dell’urna?(Tuona ancora) «Non glielo dico». Chiedevo, magari si era pentito…«Non mi pento mai, io».In questi giorni a Milano lo striscione minaccioso sotto casa di Dimarco, dopo il suo coro contro i banditi… il tifo è cambiato?«Mah, direi di no. Ai miei tempi, a ogni derby di campionato alla domenica mattina c’era tutta la città in piazza Duomo con le bandiere. Un momento di felicità, di festa, era bello. Ma ogni tanto partivano gli insulti. Ricordo uno correre a perdifiato da via Dante fino in chiesa, a rifugiarsi perché lo volevano menare… le risse ci sono sempre state». Due stili diversi, tra rossoneri e nerazzurri?(I gesti dicono che c’è una grande distanza, la bocca sbuffa) «Non so spiegargliela a parole, però. Ho deciso di scrivere un nuovo libro perché se anche oggi ci sono professionisti che scelgono dove giocare, il romanticismo del mito della mia grande Inter è quello del cuore che diventava tutt’uno con la maglia, col lavoro, con l’amore per e dei tifosi. Ho il biscione tatuato addosso, ma non per davvero, eh, perché di tatuaggi non ne ho mica, io».Da dirigente, fu lei a portare Ronaldo in squadra. «Una delle operazioni che meglio mi è riuscita in società. Moratti mi aveva chiesto un attaccante e venni a sapere che a Barcellona c’era maretta tra Ronaldo e il suo entourage. Il presidente all’inizio non ci credeva, che ce l’avremmo fatta».Lei sì? «Ronaldo vestiva Nike e trattai per una sponsorizzazione: dodici miliardi annui per nove anni. Il resto della clausola rescissoria lo pagò Pirelli con una pubblicità. Ricordo il giorno in cui Giovanni Branchini telefonò a Moratti: “Qui a Barcellona ci prendono per i fondelli. Se è ancora d’accordo le porto lì Ronaldo”. “È chiaro che sono d’accordo”, rispose il presidente con un sorriso che non finiva più. Avevamo comprato il Fenomeno senza far uscire una lira dalle tasche della società». Allenatori preferiti? Lei giocò con «il mago», Helenio Herrera.«Prima ti faceva sentire inutile, un rincalzo, poi di botto ti trasformava in un campione, nel fenomeno che cambiava le partite. Ma con me non sempre funzionava. I ricordi più belli sono però quelli di Meazza». Il suo tecnico degli inizi. Italiano ed ex giocatore come Inzaghi. «Un giorno mi lamentai di un compagno di squadra. Mi prese da parte e mi disse: “Uè pastina! Ricordes, mi ho vinciù due campionati del mondo, e non mi sono mai lamentato dei miei compagni di squadra. Te capì? Se ti sento ancora, te non giochi più”. Raggelai. Per me Meazza era un idolo, facevo di tutto per ben impressionarlo. Mi ha insegnato molto, da ogni punto di vista. Era ambidestro, non sapevi mai con quale piede avrebbe calciato».A lui hanno intitolato San Siro.«Che spettacolo, San Siro. La prima volta che sono entrato quando l’hanno rifatto mi è mancato il fiato dalla bellezza e ho pensato: peccato non giocare più».Dicono sia vecchio, le squadre non lo vogliono…«Per come la penso io, bisogna metterlo a posto per bene e tenerlo, perché è un emblema per tutta la città. Quando ero ragazzo ci si poteva giocare prima delle partite, aspettavamo il nostro turno con un’emozione che non si può dire».Consigli per le prossime sfide?«L’importante è avere giocatori che abbiano voglia di lottare, e di martellare gli avversari. Ogni tanto la teoria compiaciuta del perdente onesto colpisce ancora il tifoso interista, che si lascia confondere dal nero invece che guardare l’azzurro. Invece di azzurro in questa nostra maglia ce n’è più di quel che si vede. Di certo non conosciamo il nero e il buio della Serie B. Lì non ci siamo mai stati. E siamo gli unici».
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco