2025-05-27
L’antologia delle stilettate di Biffi, il cardinale di cui avremmo bisogno
Strenuo oppositore di sbandate progressiste e retorica sulla Chiesa povera, aveva il dono di un grande umorismo: «Teologi e vescovi dicono più bestemmie dei camionisti». Le sue «massime» raccolte in un libro.Che Giacomo Biffi fosse fabbricato con una pasta particolare fu chiaro fin da quando, nel 1984, si presentò alla stampa quale nuovo vescovo di Bologna (dopo essere stato ausiliare a Milano). Per stuzzicarlo, un giornalista gli chiese: «Eccellenza, lei si appresta a entrare in una città e in una regione nelle quali è molto alta la percentuale dei cattolici non praticanti. Il numero dei battesimi è sempre alto, ma è molto basso il numero di chi poi partecipa alla Messa. Quale sarà il suo piano pastorale verso i cattolici non praticanti?». Risposta di Biffi: «La mia priorità pastorale saranno i praticanti non cattolici». La battuta, tocca constatare con un filo d’amarezza, risulta più attuale che mai. È contenuta in un libretto profondo e insieme molto divertente intitolato Detti non scritti ma scritti perché detti ora pubblicato dalle edizioni Studio domenicano, il quale raccoglie una serie di battute, discorsi e aneddoti che Biffi riversò a chi gli stava vicino nel corso della sua vita. È una lettura preziosa, ora che si avvicina il decennale della morte dell’«italiano cardinale», venuto a mancare nel luglio del 2015. Una lettura, per altro, particolarmente utile in questi giorni in cui si commentano con grande attenzione le prime mosse del nuovo Papa e si ragiona - talvolta a sproposito - sul futuro della Chiesa. A proposito degli infiniti dibattiti sul tema, sono illuminanti alcune delle più feroci coltellate inferte dal vescovo di Bologna ai luoghi comuni imperanti: «L’uomo “psichico”, i vari opinionisti di moda, televisivi o da giornale; i filosofi, i sociologi e tanti sedicenti teologi (che sono in realtà dei teologi apparenti e non reali, ectoplasma di teologi virtuali e non virtuosi). Per quanto attiene alle questioni di fede sono come una vacca nella Cappella Sistina, mentre la Cappella Musicale Papale esegue Palestrina», ebbe a dire Biffi. «Vedono tutto, percepiscono i colori e le immagini degli affreschi di Michelangelo, odono suoni acuti e gravi. Ma non ne capiscono nulla, perché manca loro il principio interpretativo che è l’atto di fede ecclesiale. Sono come quei tali, per far un esempio, che non conoscono per nulla l’alfabeto cirillico e pretendono di tradurre o traslitterare un testo in italiano, scambiando la H per una H che è una N in cirillico o una P che in cirillico come in greco è un R, dicendo: “Secondo me è così che va intesa la frase”».Ed eccone un’altra ancora più caustica: «Chi pecca maggiormente contro il secondo comandamento [Non nominare il nome di Dio invano], sono i vescovi, i preti e i teologi, che spesso, quando parlano o scrivono, dicono delle vere e proprie bestemmie. Non riguarda tanto gli onesti bestemmiatori, quali sono a volte i facchini, i muratori, i camionisti... Per loro la bestemmia è un intercalare litanico, quasi fosse una forma di preghiera, si possono definire dei “diversamente oranti”. Da parroco mi capitò in confessionale un penitente, che si accusava di aver bestemmiato, ma precisò: “Ho bestemmiato il puro necessario par tegnì lì la dòna” [cioè: per far tacere la moglie]. Evidentemente quando la sposa eccedeva, lui lanciava forte una bestemmia e lei restava come congelata e si zittiva. “Ma - aggiunse il penitente - ho sempre bestemmiato in lingua italiana per rispetto al Nome di Nostro Signore”».Sfogliando il volumetto si trovano parecchie digressioni che possono fornire utilissimo spunti di riflessione politica e che risultano stupefacenti per la distanza che marcano dal consueto linguaggio felpato degli alti prelati. Biffi di sicuro non si adeguava allo spirito del tempo: «In base alla dottrina del peccato originale, si può fondatamente ritenere che le maggioranze non abbiano ragione, bensì le minoranze», diceva. «Basta vedere le percentuali nel mondo cattolico, su chi è favorevole al divorzio o all’aborto. L’uomo istintivamente è incline a scegliere ciò che è sbagliato. Così anche nel Concilio Vaticano II avevano ragione le minoranze a mettere in guardia sulla possibilità di uno sfacelo della dottrina e del mondo cattolico. E, qui giunti, qualcuno potrà obiettare: ma al Concilio c’era la presenza dello Spirito Santo. Vero! Ma non c’era all’ordine del giorno una serie di definizioni dogmatiche da formulare. Il Concilio era pastorale e tale rimase, dando indicazioni in tal senso e non volendo definire alcuna verità, come irreformabile e da ritenersi da tutti, ovunque e sempre. Un mio vecchio parrocchiano diceva: “Chel papa Giuan lì l’era un bon om, ma cunt'el cuncili l’ha rüinà tüs cos” [«Papa Giovanni era un uomo buono, ma è il Concilio che ha rovinato tutto»]. E ricordo che nel periodo difficile verso la fine degli anni ‘80, un mio compagno d’Oratorio, buon cattolico, sempre fedele alla Messa, in punto di morte non volle ricevere i sacramenti, adducendo questo motivo: “Tanto non ci credete più neanche voi preti”. Bel risultato abbiamo ottenuto, dissi tra me e me!». E ancora: «È facilissimo descrivere la storia della Chiesa di questo [il XX] secolo. Si può ridurre a due fasi. Nella seconda metà del XX secolo si è distrutto tutto quello che di buono era stato costruito nella prima metà del secolo».Non ci andava leggero nemmeno con i suoi pari, anzi: «Non ci sono mezzi vescovi. Ci sono vescovi che hanno mezzo cervello o meno», diceva. «Il sacramento dell’ordine è carisma divino. E non è percentuale. È totale e totalizzante. Potrei citare alcuni esempi. A una assemblea della Conferenza Episcopale Italiana un arcivescovo disse così: “Noi ci auguriamo una società multietnica, multiculturale, multireligiosa”. Ora sui primi due auspici, sarà pressoché inevitabile che succeda, con tutti i problemi sociali che comporterà, i conflitti e le tensioni nei rapporti tra i vari gruppi etnici. Ma un vescovo non può augurarsi una società multireligiosa. Significa che ha letto male o non ha per nulla capito cosa intenda Gesù risorto, quando dice: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra (Matteo 28,18). Poi il programma di Cristo è chiarissimo: Un solo gregge sotto un solo pastore (Giovanni 10,16). Gesù Cristo desidera che tutti gli uomini divengano cristiani».Nel libriccino c’è un po’ di tutto: da quella volta che Biffi fece sghignazzare Bergoglio citandogli Mafalda del fumettista argentino Quino a quella in cui Ratzinger, già Papa, gli raccomandò di conservarsi così com’era, cioè con il suo senso dell’umorismo intatto e la sua lingua sciolta. Ricorrono spesso, e di nuovo sono molto attuali, le critiche al mito della chiesa povera e allo svilimento dei riti. «In nome della Chiesa povera e per i poveri, in questi ultimi sessant’anni hanno costruito edifici sacri di cemento armato, che si fatica a chiamare chiese. La definizione più adeguata sarebbe: spazi coperti per celebrazioni rituali. Artisticamente orribili con una gran quantità di vetrate, che non aiutano al raccoglimento, bensì a sbirciare quel che succede fuori. Con tali materiali si registra un freddo polare d’inverno e un caldo infernale d’estate, con spese stratosferiche di riscaldamento, e dove c’è, spese di corrente altrettanto alte, per l’aria condizionata». Oppure: «La musica sacra, per essere autenticamente liturgica, non è necessario sia brutta, banale e noiosa. [...] Certo che alcuni testi sono proprio sbagliati. “La nostra festa non deve finire, non deve finire e non finirà”. E fin qui è di una banalità disarmante. Ma il resto è peggio: “Perché la festa siamo noi che camminiamo verso Te”. No! La nostra festa è Cristo che con l’incarnazione è venuto fino a noi e con la sua passione, morte e risurrezione ci ha salvati. Perché noi eravamo incapaci di salvarci da soli. Qui come in molta parte delle liturgie odierne si è sostituito al Cristo l’uomo: sono liturgie antropocentriche, anziché cristocentriche. Siamo noi che celebriamo noi stessi. Noi la festa di noi stessi. La comunità che festeggia il ritrovarsi. Cristo può diventare marginale e opzionale». Questa avversione per le banalità progressiste (o presunte tali) Biffi ebbe a motivarla anche molto seriamente: “Mi sento effettivamente spiritualmente lontano dal gruppo dei bolognesi famosi. Ma più profondamente è la diffidenza verso un cristianesimo di estrazione sostanzialmente borghese. E quanto più le dichiarazioni programmatiche sono pauperiste, tanto più cresce la mia diffidenza. Il discorso sulla Chiesa dei poveri non ha molta eco dentro di me perché né l’ambiente religioso che mi ha cresciuto, né quello nel quale ho esercitato il mio ministero è stato composto da benestanti o da intellettuali». Gesù non è un hippy, ripeteva, ma sapeva bene che molti non lo avrebbero ascoltato: «I preti non devono vestirsi da straccioni, ma avere una dignità, che non è ricercatezza e lusso, nel loro abbigliamento, che è una specie di divisa, per essere riconoscibili dagli uomini», diceva agli ordinando presbiteri. «Il Codice di diritto canonico e le circolari della Cei specificano quale deve essere il vestiario. Forse voi mi direte che alcuni preti di vostra conoscenza non ottemperano a queste norme: e non sono proprio giovani preti, qualcuno è magari vostro professore in seminario... Abbiate pazienza. È come se da bambini avessero contratto una malattia che ha lasciato il segno nel fisico (intorno agli anni ‘70). Non guariranno mai più. Sono rimasti là a quei tempi. Solo la morte potrà guarirli».Nelle parole di Biffi si fondono satira e profondità, egli era dissacrante proprio in virtù del suo incredibile senso del sacro. E probabilmente sapeva di essere una mosca bianca quando staffilava la Chiesa a cui aveva donato la vita: «I teologi», sorrideva, «sono come i funghi o i serpenti. Alcuni come i serpenti sono innocui e altri velenosi. Alcuni come i funghi sono letali e altri ottimi al palato». Parole (quasi) sante.
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(Totaleu)
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