2018-11-18
«L’Europa non sa nulla dell’Italia. Ci vedono come un Paese esotico»
Lo «storico delle idee» Michele Rak è stato uno dei 13 specialisti che ha assegnato il marchio del patrimonio continentale a siti storici e culturali: «La sinistra quand'era al governo ha preferito Ventotene a Venezia, Roma o Napoli».«Sì, ora sono libero di parlare, di dire tutto, di raccontare la mia esperienza nella principale istituzione culturale europea. Prima non si poteva, da contratto ero obbligato al silenzio. E io rispetto i contratti».Michele Rak è uno degli intellettuali italiani più apprezzati nel mondo. Non a caso, già la sua abitazione ispira il sapere. Splendidi dipinti, antichi e contemporanei, cercano di trovare spazio tra i libri, invadenti perché tendono a coprire qualsiasi spazio: per riuscire a sedersi, bisogna rimuoverli pure dal divano. Il caffè, poi, è buonissimo. Merito anche di una moka (intesa come caffettiera) che in questa casa del Celio, a Roma, resiste alla moda delle cialde e delle polveri liofilizzate.Rak resiste anche al protagonismo di molti suoi colleghi. Poco o relativamente valorizzato in patria (capita a chi non appartiene a certe conventicole intellettuali nostrane), questo professore è un qualificatissimo «storico delle idee». Già ordinario alle Università di Siena, Palermo e Napoli, è il massimo esperto italiano del patrimonio culturale europeo. Al punto da sedere, dal 2012 al 2017, nell'«European panel for the european heritage label».Per essere chiari: nominato dall'Europarlamento, Rak è stato uno dei 13 specialisti indipendenti che ha assegnato il cosiddetto «marchio del patrimonio europeo» a siti storici e culturali presenti sull'intero territorio dell'Unione. «Sì, cinque anni e mezzo fa ho ricevuto la lettera di nomina ma non l'ho chiesta io» racconta, «la mia nomina non è politica, sono figlio di nessuno. All'epoca i singoli governi e, soprattutto, molti enti di ricerca avanzarono delle candidature. Tra le tante, l'allora presidente della Commissione, José Barroso, scelse quella che mi riguardava. Ma Barroso non l'ho mai nemmeno incontrato».Rak non è antieuropeista: «L'Ue non ha alternative, se non altro perché è una precauzione per evitare guerre tra noi», dice. Tuttavia ha molto da ridire (e da svelare) su Bruxelles.Professore, partiamo dalla sua esperienza nel panel europeo. «La nostra era la classica condizione da “unici ultimi". Sopra di noi non c'era nessuno, sotto c'erano i ministri della Cultura dei singoli Paesi. Avevamo la facoltà di decidere noi e basta. Devo però dire che in Europa non tutto ha una logica. Per esempio una signora della Romania mia collega era anche il viceministro per la Cultura in patria».Cosa dovevate decidere?«I siti storici e culturali a cui assegnare un “label", cioè un marchio di interesse europeo. Attenzione però: noi potevamo soltanto valutare le proposte dei governi per accettarle o rifiutarle».Il marchio è solamente una questione di prestigio? «Di per sé il Label è una targa, tra l'altro di plastica. Ma una volta che l'hai ottenuta, la possibilità di accedere ai finanziamenti europei è molto più elevata. Inoltre i siti vengono indicati nei libri, anche di testo, come simbolo dell'identità europea. Infine può risultare utile anche dal punto di vista turistico».Per intenderci, può funzionare come la bandiera blu di Legambiente. «Potenzialmente anche di più, perché è sovranazionale». E l'Italia? «Per essere buoni, diciamo che si è distratta. Ha proposto di default l'isola di Ventotene e il Campidoglio di Roma, anzi la stanza del Campidoglio dove è stato firmato il Trattato europeo del 1957. E poi le case natali di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi e Alcide De Gasperi. Questa è l'immagine dell'Italia che dovrebbe sedurre i turisti e comparirà nei libri. Mancano solo il mandolino e la pizza…».Si poteva fare di meglio.«Appunto. Non ci sono il Colosseo o Venezia o il golfo di Napoli, né la cappella di Monreale o Castel del Monte e decine di altri luoghi meravigliosi. Però c'è la casa di Puccini. E ottenere finanziamenti per un appartamento, per carità, va benissimo. Ma forse avremmo più bisogno di soldi per il centro storico di Roma».È stato l'allora ministro della Cultura, Dario Franceschini, a proporre quei siti?«Formalmente sì. Forse lui non ha nemmeno visto le carte. Però le richieste vengono da Roma, non c'è dubbio». Insomma, lei avrebbe scelto diversamente.«In quegli anni non mi sono mai posto il problema. Però ora dico che, per esempio, l'Impero romano non c'è. Anzi, a Bruxelles non lo potevo nemmeno nominare. Come non si poteva nominare Federico II, cioè tutti i popoli e le persone che hanno avuto un'idea di allargamento dell'Europa».E perché mai?«Il discorso dell'espansione non è accettato. Inoltre, i componenti del panel non erano storici. C'erano tecnocrati, un direttore di museo, un architetto, uno delle startup, esponenti dell'Unesco, tutta gente che guarda le cose da un altro punto di vista. Il solo luogo prescelto, fintamente riferibile all'Impero romano, si chiama Carnuntum, in Austria, dove hanno fabbricato false case romane, il sindaco gira con i collaboratori vestiti da gladiatori, gli insegnanti a scuola indossano una toga romana, e così via. Parliamo di una Disneyland austriaca in salsa romana. Loro otterranno finanziamenti europei, i Fori imperiali no».Sembrerebbe di capire che gli altri Paesi si siano mossi in modo più furbo.«Non sempre. Di sicuro sono stati più accorti di noi, non si sono mai mossi a caso». Un luogo inaccettabile?«C'è stato un sito, sempre austriaco, che ha chiesto il riconoscimento perché tra le sue mura sarebbe stata suonata per la prima volta Jingle bells. Al di là dell'idea in sé, la canzone è notoriamente americana». Ci sono stati anche momenti di tensione?«Sì, soprattutto quando alcuni miei colleghi volevano escludere totalmente la Grecia. Dicevano: questi hanno pochi abitanti e conti pubblici disastrati. Ma io replicavo: noi non ci occupiamo di conti pubblici. Ma loro insistevano: che hanno fatto i greci per l'Europa? E io pensavo: scusate, cosa facevate voi nel V secolo avanti Cristo mentre i greci civilizzano l'Europa? Ho dovuto chiedere una cosa che solitamente non si fa: la votazione».Incredibile.«Hanno l'idea che l'Europa sia cominciata dopo le Crociate. Inoltre l'etica protestante è quella che domina l'Ue, con un impianto burocratico a cui confronto l'Inquisizione di Filippo II era una cosa da dilettanti».Angela Merkel è protestante.«Non mi limiterei alla Germania. L'Olanda, per esempio, è sottovalutata. Invece ha grande peso a Bruxelles. Le racconto di una storia che ho orecchiato in aereo».Prego.«Un giorno ho due europarlamentari seduti accanto a me. Dicono: pure stamattina ci tocca “il volo della prostata". Cioè di uscire di casa alla mattina alle 4, quando appunto la prostata comincia a operare, arrivare in aeroporto per l'aereo delle 6, arrivare a Bruxelles poco dopo le 8 e lì trovare una delle tante persone che danno al deputato un foglietto in cui c'è scritto cosa deve dire e fare. Il deputato prende il foglietto, va in aula, legge, poi va a mangiare e prende l'aereo di ritorno alle 18. Arrivato a casa intorno alle 21, ha finito la saltuaria giornata di lavoro. Così è chiarissimo quale sia il rapporto di debolezza rispetto ai burocrati che stanno lì sempre. Burocrati, peraltro, non soltanto europei poiché le risoluzioni riguardano tutti i Paesi del mondo». L'Europa la gestiscono pure i non europei. «Esatto. Le racconto un caso capitato a Scanno, nel Parco nazionale d'Abruzzo, il mio buen retiro. Nel 2003, quando io non c'entravo niente con Bruxelles, insieme alla Regione abbiamo vinto un concorso europeo per fare il Virtual Museum of Photography. A controllare i conti hanno mandato un burocrate. A pranzo gli ho chiesto se gli piacesse Roma. E lui: “Mai vista Roma". Qualche altro posto d'Italia? “Mai conosciuta l'Italia". Scusi, tanto per sapere, lei dov'è nato? “In Congo". Gli altri Paesi d'Europa li ha visitati? “No, io faccio i conti, non ho bisogno di visitare i Paesi che controllo"».È la metafora dell'Europa incapace di conoscere e frequentare i suoi popoli.«I burocrati ragionano come se gli Stati fossero una proiezione di Bruxelles. Lo abbiamo percepito anche in una commissione ristretta, chiusa, come quella in cui ero io».È una specie di isolamento dorato.«Esatto. E questo è un errore, e lo è ancora di più nei confronti del gruppo di Visegrad, ovvero Polonia, Repubblica ceca, Ungheria, Slovacchia. Convincere il gruppo sulle posizioni di Bruxelles è impossibile perché quei Paesi hanno subìto la dominazione sovietica, ora non possono accettare quella europea, perciò la rifiutano. Basterebbe conoscere un po' di storia per comprendere la loro posizione. La cultura è la chiave vincente. I testi, le musiche, le opere teatrali, i romanzi, le leggende, i cibi, questo è quello che dovrebbe muovere l'Europa, non l'economia». Forse dipende anche dalla mentalità di Bruxelles. «A Nord i Paesi latini vengono visti come luoghi esotici. Per loro fare un viaggio in Italia equivale a una vacanza in Tunisia. L'unica differenza è la presenza del Vaticano. I miei colleghi erano tutti convinti che io fossi un papista. Non glielo levi dalla testa, ancora pensano che la Santa Sede governi il Paese».Ora che fa, torna in Italia per sempre o pensa ancora a Bruxelles?«La nomina era per cinque anni. Dopo tutto questo tempo potrei assecondare la consuetudine di ottenere un ruolo organico nella burocrazia di Bruxelles. Ma non ci penso proprio. Semmai datemi Capri, per favore…».