
Il politologo francese Pierre Manent attacca l'Ue: «È liberalismo separato dalla democrazia, cioè dispotismo illuminato. Dall'Eliseo una disputa desolante con il governo italiano».Pierre Manent, 69 anni, insegna Filosofia politica alla Ecole des hautes etudes en sciences sociales dell'Università di Parigi. Il suo In difesa della nazione. Riflessioni sulla democrazia in Europa (Rubbettino, 2008) è uno dei testi anticipatori dei temi che avrebbero alimentato le ragioni dei cosiddetti «populisti». Solo che lui, Manent, non può certo essere considerato tale. La Verità lo ha incontrato a margine di un importante convegno a Parigi.Professor Manent, si è appena tenuto il lancio della piattaforma della federazione europea «One of us», al quale lei ha partecipato con la relazione «L'unité européenne au défi de la déconstruction de la politique» (L'Ue davanti alla sfida della decostruzione della politica). L'iniziativa raccoglie una sete di libertà di pensiero e di espressione espressa da molte associazioni pro life. Quali sono i punti di forza di questo progetto?«Non ho l'autorità per rispondere, dato che non faccio personalmente parte della piattaforma. Per come ho compreso il progetto, si tratta di far entrare la protezione della vita in ogni suo stadio nel dibattito civico in maniera positiva, non denunciando in maniera astratta una cultura della morte ma incoraggiando in modo concreto e pratico tutti i passaggi che proteggono la vita. Ne abbiamo avuto una testimonianza fortemente commovente».Anche su questi temi, l'identità europea sembra essere sempre meno rintracciabile. È corretto parlare di «Europa» sovrapponendola alle istituzioni europee o si tratta di un'operazione ideologica?«L'Europa di cui si parla a Bruxelles è in gran parte una finzione ideologica. La realtà dell'Europa, la sua realtà storica e politica, riposa sulla pluralità significante delle sue nazioni. Dico pluralità significante perché, in effetti, la vita dell'Europa, oggi come ieri, è fatta dall'interazione tra le differenti nazioni europee. Esse si guardano, rivaleggiano, si imitano, si distinguono... L'identità europea non è separabile da questa dinamica delle nazioni che formano l'Europa».Ha messo in luce prima di molti altri la criticità di un sovrastato senza popolo, come quello dell'Ue. Che evoluzione si attende alle europee da questo punto di vista?«Purtroppo non vedo alcuna evoluzione positiva in prospettiva. La classe politica europea sa fare solo quello che ha sempre fatto: amministrare un dispositivo burocratico e ideologico che non è in grado di produrre una comunità politica capace di azione. Vediamo bene come, dopo più di mezzo secolo di sforzi, l'Unione europea non possa di fatto condurre la minima azione diplomatica o militare in maniera coerente e risoluta. E ciò che essa non ha mai fatto è destinata a non farlo mai. L'Ue si è costruita per far finta di essere e di agire».Le elezioni europee segneranno anche un test cruciale per Emmanuel Macron. Come giudica i suoi due anni di guida della Francia? Quale crede sia l'origine del fenomeno dei gilet gialli?«In Francia, come in molti Paesi europei, le molle del governo rappresentativo sono rotte. Il popolo ha perso fiducia nei governanti che, dal canto loro, hanno perso il senso di responsabilità nei confronti della nazione. Incapace di innescare strumenti di sostegno collettivi, il governo moltiplica le regole imperative che pesano in maniera sproporzionata su certe categorie di popolazione. Da qui la rivolta dei gilet gialli. Il presidente Macron, in Europa come in Francia, esercita un magistero della parola che non riesce a motivare i cittadini».Come giudica la recente diatriba diplomatica tra Italia e Francia, conclusa con il breve ritiro dell'ambasciatore di Parigi? Ha senso, nel quadro comunitario, la contrapposizione tra Salvini e Macron o è uno scontro puramente mediatico?«Una disputa desolante, tanto più che noi siamo in verità i due Paesi europei più simili fra loro. I governi francesi si sono da tempo resi prigionieri di una relazione troppo esclusiva con la Germania. Essi dovrebbero volgere lo sguardo attivamente verso l'Italia, che, dal canto suo, non dovrebbe formalizzarsi troppo sull'arroganza francese. Noi siamo così...».Spesso, a difesa delle istituzioni comunitarie, si cita la loro origine come slancio ideale di leader cristiani (De Gasperi, Schuman, Adenauer). È un ideale ancora possibile, e credibile?«Questi tre statisti provengono da province di frontiera contese, tra Francia e Germania e tra Austria e Italia, e condividevano la stessa fede religiosa. Si tratta di una configurazione politica e spirituale molto specifica, che non può fornire un modello per l'avvenire, ma che può invece ricordarci l'importanza del ruolo ispiratore e unificatore della vecchia religione dell'Europa». Lei ha scritto un importante saggio sulla storia intellettuale del liberalismo. Pensa che l'ordine liberale sia in crisi? E perché?«L'ordine liberale è in crisi profonda poiché il dispositivo dello Stato liberale, lo Stato protettore delle libertà, si è separato dalle comunità nazionali. Al fondo, l'Unione europea pretende di essere uno Stato protettore di diritti e libertà individuali, ma interamente staccato da quelle comunità di appartenenza che restano le nazioni. L'“Europa" è il liberalismo separato dalla democrazia. Ma il liberalismo separato dalla democrazia è il “dispotismo illuminato"».Che ruolo spetta ai cristiani nelle società contemporanee?«Credo che il ruolo politico dei cristiani cresca in proporzione a quanto il ruolo sociali delle chiese cristiane diminuisce. Da una parte, con l'installazione in Europa di una numerosa popolazione musulmana è importante che sia preservata un altro riferimento a Dio, a un Dio che non faccia di noi degli schiavi, ma che stringa un'alleanza con gli uomini. D'altra parte, di fronte alla tirannia dei diritti individuali, è urgente tornare a noi stessi, ritrovare i nostri limiti. Come dice Blaise Pascal, solo Gesù Cristo ci permette di prendere la misura tanto della nostra miseria che della nostra grandezza».
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