2021-03-16
Letta trasforma il governo nel suo campo di battaglia
Enrico Letta (Stefania D'Alessandro/Getty Images)
Il segretario del Pd (affossatore della nostra sanità) ha bisogno del nemico Matteo Salvini per tenere insieme i pezzi. Ed ecco lo ius soli. E meno male che Enrico Letta aveva iniziato dicendo che il Pd deve «cambiare» e non deve più essere «il partito delle Ztl». La grande mutazione che egli ha in mente, a quanto pare, consiste nel tornare su temi che più triti non si potrebbe: lo ius soli e il voto ai sedicenni. La seconda proposta, ovviamente, è funzionale alla piena realizzazione della prima: non serve a molto italianizzare i giovani stranieri se poi non li puoi mandare a votare il tuo partito, il che fa ben capire quanto siano pure le intenzioni dei dem. Il punto è esattamente questo: a che cosa mira davvero Letta con le sue uscite in stile Amanda Gorman? Credere che voglia realmente riavvicinarsi al popolo auspicando la cittadinanza facile o il voto ai minorenni è per lo meno ingenuo. Come ha giustamente notato Giorgia Meloni, oggi i ragazzi avrebbero bisogno di un governo che garantisse il diritto allo studio, cioè il rientro in classe nel minor tempo possibile. Ed è grottesco che a sinistra si preoccupino della rappresentanza politica di giovani che, attualmente, si ritrovano chiusi in casa e non possono nemmeno passare un pomeriggio in libertà con gli amici. Forse i ragazzi - specie quelli delle abusatissime «periferie» - preferirebbero poter uscire a mangiare una pizza piuttosto che essere utilizzati come strumento della retorica migratoria. Finora, infatti, gli unici ad essersi entusiasmati per le grandi idee del segretario riciclato sono proprio i residenti delle Ztl. Gente come Oliviero Toscani o Gianrico Carofiglio, a cui basta sentir parlare di integrazione per avere un orgasmo. Gente come Francesco Merlo, che ieri su Repubblica ha scomodato Antonello Venditti, annunciando la comparsa sulla scena di un nuovo «dolce Enrico» (tanto per intendersi: quello originale era Enrico Berlinguer, e paragonarlo agli attuali dirigenti progressisti appare blasfemo persino a noi). Letta ha parlato in primo luogo a costoro: agli intellettuali (veri o presunti) e ovviamente alla sinistra cosiddetta radicale, che di radicale non ha più nulla se non il feroce disprezzo degli avversari politici. Andrea Orlando, ad esempio, ha iniziato immediatamente a sprizzare gioia. Intervistato ieri dalla Stampa, si è esibito in una straordinaria celebrazione del discorso lettiano: «Devo dire che ho trovato tutto condivisibile», ha dichiarato, «non c'è niente che mi sia dispiaciuto [...]. Se ci fosse una maggioranza, lo ius soli andrebbe approvato». Per inciso, Orlando è il ministro del Lavoro, e in queste ore dovrebbe perdere il sonno per la sorte di tutti coloro che non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena a causa delle restrizioni. Invece eccolo lì a preoccuparsi di tutelare «l'identità» del partito e i «diritti» dei «nuovi italiani». Oddio, può darsi che - quando affermano di volersi rivolgere ai «giovani» - Letta e compagni abbiano in mente Mattia Santori e le Sardine, cioè i «giovani di professione» coltivati in vitro nelle sedi dei partiti di sinistra o in qualche centro sociale di second'ordine. Ma di nuovo torniamo al punto di partenza: usare lo ius soli come una bandiera serve prima di tutto a confortare i fautori della superiorità morale, quelli che si considerano «migliori» in quanto «accoglienti». Quelli che hanno a cuore la sorte dei profughi e la tutela della minoranza arcobaleno (non per nulla il «dolce Enrico» non ha mancato di lisciare il pelo anche agli Lgbt). Proprio la superiorità morale ci porta dritti al cuore della questione. Tirare in ballo la cittadinanza e figli dei migranti serve al nuovo segretario per rimarcare la distinzione renziana fra «uomini» e «bestie». Serve, in poche parole, per attaccare Matteo Salvini e la Lega, alla faccia della concordia nazionale che dovrebbe animare il governo. Ospite di Fabio Fazio, Letta ha voluto tenere il punto: «È evidente che c'è una differenza di fondo radicale» con Salvini e Meloni, ha detto. Poco prima aveva dichiarato che «solo noi possiamo contendere le città alla Lega». Sull'argomento, va detto, Letta non è stato per niente ambiguo: «Il governo Draghi è il nostro governo», ha rimarcato. «Il nostro obiettivo è essere alternativi alla destra». Intendiamoci: l'obiettivo è più che legittimo, ci mancherebbe altro che la sinistra non potesse presentarsi come alternativa ai sovranisti. C'è un problema, però. Se la Meloni è ormai l'unica leader di opposizione, Salvini è una sorta di membro fondatore dell'esecutivo. E il governo Draghi, almeno in teoria, non è soltanto il governo del Pd e dei democratici. È anche il governo dei leghisti e di Forza Italia. È un governo nato come coalizione dei volonterosi disposti a smussare (almeno a parole) le asperità ideologiche al fine di convergere su obiettivi comuni. Sin dall'inizio il Pd e i suoi sostenitori hanno esibito un plateale fastidio nei confronti dell'alleato scomodo leghista, ma ora tale fastidio sembra essere diventato il fulcro della linea politica. E questo, se permettete, è un problema anche per chi non ha alcuna intenzione di votare il Pd. Inaugurare il mandato da segretario con un attacco frontale alla componente di centrodestra della maggioranza fa pensare che la concordia nazionale tanto sbandierata verrà presto scaricata con lo sciacquone. Sapevamo fin dal principio che sull'immigrazione e sui temi etici ci sarebbero state frizioni, sarebbe stato folle immaginare il contrario. Ma alzare in questo modo il livello dello scontro è ai limiti del sabotaggio. Del futuro dei dem a noi frega il giusto (cioè niente), ma del futuro dell'Italia ci importa parecchio. E vedere che viene messo in pericolo per lisciare il pelo ai residenti delle Ztl ci fa essere ancora a meno sereni di quanto lo fosse Letta quando Renzi era ancora nel Pd.