2021-03-30
L’esercito silenzioso di mercenari che protegge gli affari del Dragone
Pechino sbandiera la politica della «non interferenza» militare all'estero. Per questo si affida sempre di più alle compagnie di sicurezza private, sguinzagliate soprattutto in Africa. Dove lavorano almeno 200.000 cinesi.L'influenza internazionale di Pechino si sviluppa - con meno clamore rispetto a Mosca - anche attraverso i contractor. Il Dragone si sta infatti sempre più appoggiando alle compagnie di sicurezza privata nazionali, per difendere i propri interessi in determinate aree del globo. Una pratica non nuova ma che, in questi ultimi anni, si è decisamente consolidata all'ombra della Nuova via della seta. Appena l'anno scorso, l'Accademia cinese delle scienze sociali aveva sottolineato che l'84% degli investimenti sostenuti dal Dragone proprio nel quadro della Nuova via della seta si realizzano in Paesi considerati a rischio medio-alto. Stando a quanto riferito dal Mercator institute for China studies, nel 2017 si contavano 5.000 società di sicurezza privata cinesi registrate (1.000 in più rispetto al 2013). Ebbene, di queste società, 20 forniscono servizi internazionali, impiegando all'incirca un totale di 3.200 addetti: si tratta di una cifra contenuta, rispetto ad analoghe realtà americane e russe, queste ultime ad esempio molto attive in Siria. Ciononostante, secondo il Carnegie-Tsinghua center, «il numero reale di contractor cinesi per la sicurezza privata potrebbe essere molto più alto». E comunque, per quanto ridotta, la cifra è superiore ai 2.534 caschi blu che la Cina, al 30 giugno scorso, forniva all'Onu. Del resto, va tenuto presente che le aziende statali cinesi investono circa 10 miliardi di dollari all'anno in sicurezza. Investimenti che, sempre secondo il Carnegie, tendono ad aumentare. Tra l'altro, sottolinea il Mercator institute, negli ultimi anni le aziende della Repubblica popolare, anche su input dello stesso governo di Pechino, si sono sempre più affidate a compagnie di sicurezza cinesi. Compagnie che - legalizzate di fatto dal Consiglio di Stato nel 2009 - servono, nel contesto della politica interna, anche ad assorbire una parte di quei militari in congedo che, almeno fino a tre anni fa, esprimevano un forte malcontento contro il governo, per problemi di previdenza sociale. Ma la questione è altresì militare e geopolitica. L'Esercito popolare di liberazione riscontra innanzitutto delle difficoltà operative nella tutela diretta dei ramificati interessi globali della madrepatria. In secondo luogo, Pechino cerca di evitare dislocamenti militari all'estero, in ossequio alla sua (dichiarata) «politica della non interferenza». Ecco che quindi l'impiego (crescente) dei contractor è anche un modo per esercitare influenza politico-militare in modo meno evidente e più discreto. Ricordiamo, tra l'altro, che di solito i contractor cinesi non sono armati e che svolgono tendenzialmente attività di intelligence, consulenza ed equipaggiamento. Esistono tuttavia delle eccezioni: soprattutto in riferimento alle operazioni di scorta per flotte cinesi in acque africane (è per esempio il caso dell'Hua Xin Zhong An Group e degli Overseas security guardians). Certo, non è tutto oro quel che luccica. Il crescente ricorso alle compagnie di sicurezza privata ha messo più volte in imbarazzo il governo del Dragone, ponendo a rischio anche la sua influenza politica in determinate aree: in Zambia, nel 2018, due cittadini cinesi furono per esempio arrestati con l'accusa di addestramento militare illegale. Il ricorso a queste compagnie, per Pechino, rischia quindi talvolta di rivelarsi un'arma a doppio taglio, pericolosa per la tenuta del suo stesso soft power. Come che sia, le aziende della Repubblica popolare che all'estero investono in contractor cinesi operano soprattutto in Medio Oriente e in Africa. La Cina ha del resto avuto in passato problemi con il terrorismo islamista: soprattutto quando, nel 2017, due insegnanti cinesi furono rapiti e uccisi dall'Isis in Pakistan. Tutto questo mentre - a fine 2019 - il numero di lavoratori cinesi nel continente nero sfiorava le 200.000 unità (con particolare riferimento ad Algeria, Angola, Nigeria, Zambia e Kenya). Tra l'altro, secondo uno studio redatto da McKinsey nel 2017, nel continente opererebbero oltre 10.000 aziende cinesi. E i pericoli non mancano. Nel 2018, per esempio, le società del Dragone in Uganda subirono un'ondata di rapine, mentre nel 2019 tre emigrati cinesi furono rapiti in Nigeria. In Africa settentrionale e orientale è in tal senso particolarmente attiva Fsg, compagnia partecipata dallo Stato con quartier generale a Pechino e Hong Kong, il cui direttore esecutivo è l'ex Ceo dell'americana Blackwater, Erik Prince. Quella stessa Fsg che, due anni fa, finì nelle polemiche quando Reuters riportò che stesse per aprire un centro di addestramento nello Xinjiang: una circostanza di cui Prince disse di non essere a conoscenza. E attenzione. Perché il ricorso alle compagnie di sicurezza private è (potenzialmente) fonte di attriti diplomatici per Pechino. Secondo la Jamestown Foundation, ci sarebbero infatti fondati sospetti che la Repubblica popolare possa presto ricorrere all'uso di contractor anche in Kyrgyzstan, per ridurne l'instabilità politica e tutelare così i propri investimenti in loco: uno scenario a cui la Russia starebbe tuttavia guardando con estrema preoccupazione. Segno che queste compagnie non si muovono solo in un'ottica di sicurezza. Ma anche seguendo logiche geopolitiche.
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Emanuele Orsini e Dario Scannapieco